Le vacanze di Monsieur Valery

Le vacanze di Monsieur Valery

Ovvero la «Destinazione Romagna» nel 1827.

E' stato il primo a promuovere il made in Italy delle nostre specialità gastronomiche. Spinto dal desiderio di attraversare il Rubicone, arrivò alla costa e a Rimini. E le sue cronache di viaggio sul Castello, il Tempio e l'Arco d'Augusto, ma anche sul vino e l'aria salubre, meritano di essere riscoperte.

L’unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi.

(J. J. Winckelmann, Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura)

Questa volta la nostra cartolina non è stata spedita nel XX secolo e non è firmata da scrittori celebri come Hemingway o Huxley o meno famosi come Suarès. Viene dall’Ottocento e da una personalità della letteratura francese oggi dimenticata: M. Valery. M. sta per Monsieur come il nostro Sig. sta per Signor. Credo lo conosca solo quel manipolo di specialisti, che ancora esiste in Italia, di letteratura odeporica. Ode che? Tranquilli, cari i miei bagnini, albergatori ed esperti di marketing turistico, è semplicemente un termine tecnico, un aggettivo che deriva dall’antica parola greca oidoporía che significa «viaggio», e che mi serve per farvi subito vedere che ne so una più di voi. Ma anche per sfida a chi scrive male, legge poco e fatica ad esprimersi e perciò pensa poco, all’ingrosso e male.

Nell’epoca in cui altri viaggiatori illustri – valgano i nomi di Goethe prima e poi di Stendhal che conosceva bene e possedeva i tomi dei suoi Voyages – percorrevano il grand tour dalla Lombardia alla Sicilia, Monsieur Valéry, nom de plume (proveniente dal cognome della madre) di Antoine-Claude Pasquin (1789-1847), erudito antichista e bibliografo francese con un’irresistibile attrazione per l’Italia, scelse sentieri meno battuti. Valery era consapevole di essere, nelle sue peregrinazioni storico-letterarie, un precursore nel darsi mete ai più ignote e preferirle alle strade maestre.
A dire il vero più che uno pseudonimo, come scrivono tutti coloro che se ne sono occupati, Valery a un certo punto divenne proprio il suo cognome, giacché con un’ordinanza reale del 1825 lo si autorizzava a mutare il suo cognome da Pasquin in Valery. E non Valéry, come taluno scrive con la e con l’accento acuto, forse pensando al più famoso poeta Paul Valéry.
Di Valery non ci resta neppure un ritratto. Molto di quello che sappiamo di lui si deve a un necrologio del quotidiano parigino Moniteur universel e a qualche altro ragguaglio sparso qua e là. Si sa che era molto alto per l’epoca, 1.83, e che era un devoto dei migliori salotti parigini in cui si riunivano alcuni tra i più noti intellettuali del suo tempo. In quei ritrovi, com’era consuetudine, leggeva le anteprime dei suoi scritti con voce flebile e dolce ma aveva anche l’abitudine di addormentarsi sulla sedia alla fine delle conversazioni, perché studiava e scriveva fin dalle prime ore del mattino. Potrei farla più lunga, ma come opportunamente mi segnala mia moglie sto scrivendo per una testata web e non per una rivista scientifica. E le compagne della propria vita vanno tenute in gran conto come sperimentò lo stesso Valery la cui moglie, dopo che fu colpito nel 1834 da una grave malattia agli occhi, scriveva i suoi libri sotto sua dettatura.
Insomma, direte, un letterato di second’ordine. Eh no! Non solo perché credo che nessuno debba restare indietro e che nessuno va escluso dalla conoscenza, nessuno va escluso dalla ricerca, nessuno va escluso dalla celebrazione. Intanto, perché nei suoi fortunati libri di viaggio sull’Italia è il primo a documentarci l’esistenza di tortellini e cappelletti a Bologna o del panettone a Milano o del Lambrusco di Sorbara, accendendo i fari del mondo e decantando e promuovendo da vero pioniere il made in Italy delle nostre specialità gastronomiche. Non lo dico solo per tenere avvinti lettori e lettrici più abituati a sfogliare libri di cucina. Chateaubriand, che per primo ne aveva intuito le capacità letterarie, scriveva da Venezia a un’amica il 12 settembre 1833 che Valery era «un’ottima guida» e Alexandre Dumas padre lo definiva «un uomo dottissimo».
Le guide di viaggio erano un genere popolare nell’alta società settecentesca e continuarono ad esserlo per tutta la prima metà dell’Ottocento, finché non furono soppiantate dalle prime guide turistiche, più agili, economiche e destinate a un pubblico di lettori molto più ampio e lo stesso Valery è un testimone di questo trapasso.
Il grand tour era ancora considerato essenziale per la formazione dei gentiluomini, e i libri di viaggio ne erano i compagni inseparabili. Quando Valery decise di scrivere i suoi Voyages historiques et littéraires en Italie si rese conto di due cose: la prima che le guide allora in circolazione erano datate e non più attendibili e l’altra che i viaggiatori che si recavano in Italia avevano le solite destinazioni preferite di Firenze, Venezia e Roma. Nel campo della storia dell’arte, vi erano stati innegabili progressi grazie a nuovi libri sulla pittura, la scultura e l’architettura. Le vecchie guide, inoltre, non riflettevano più la realtà attuale dell’Italia, che, per quanto allora disunita, era un paese che manifestava cambiamenti più di ogni altro.
L’unicità e l’originalità delle guide di viaggio di Valery consistevano nelle informazioni aggiornate sulla civiltà italiana del tempo e più nello specifico su università, biblioteche, istituzioni e scuole pubbliche e sulla letteratura italiana. Oltre ai monumenti, chiese e musei con i loro immensi tesori artistici, i libri di Valery introducevano il lettore a un intero nuovo mondo storico, culturale, letterario ed editoriale. Nelle sue evocazioni, riferimenti e associazioni non sono presenti solo i più importanti autori italiani del passato, ma anche molti letterati, tra cui Parini, Monti, Pindemonte, Pellico, Foscolo, Leopardi e Manzoni, alcuni di loro anche incontrati personalmente. I suoi resoconti di viaggio, inoltre, non facevano sconti alla realtà, con puntuali osservazioni sul carattere e indole, usi e costumi degli abitanti, basati sull’esperienza diretta dei luoghi, filtrati tuttavia attraverso una non comune conoscenza delle arti, della storia e della letteratura dell’Italia, della sua economia e della sua geografia.
Insieme a questa nuova dimensione e sensibilità culturale, l’altra grossa novità dei libri di Valery, paragonata alle opere precedenti del genere, è l’immenso ampliamento delle mete di viaggio e luoghi da visitare. Alle consumate piste battute, vi si aggiungono Torino, Milano, Bologna, Siena, Perugia e tante altre città come Rimini. Dopo essersi concentrato sulla penisola italiana, addirittura, nei suoi lavori successivi avrebbe dilatato il suo campo visivo includendo la Sardegna, l’Elba, la Corsica e la Sicilia.
Il fatto che non fosse la solita guida di viaggio esclusivamente attenta agli scontati luoghi di interesse del viaggiatore, ma un vero e proprio magazzino di notizie e informazioni storiche, letterarie e artistiche, in altri termini, uno studio piuttosto completo dell’Italia passata e presente, messo a disposizione del lettore con l’intento di fornire uno strumento utile e funzionale per chiunque volesse compiere un viaggio in Italia, spiega il grande successo ottenuto dai suoi Voyages.
La prima edizione del resoconto dei suoi viaggi in Italia nel triennio 1826-28, Voyages historiques et littéraires en Italie pendant les années 1826, 1827, 1828, ou l’Indicateur italien, fu pubblicata in cinque tomi tra il 1831-33. Dopo un quarto viaggio nel 1838 pubblicò una seconda edizione in tre volumi interamente riveduta, corretta e ampliata che considerava definitiva. Il nuovo immediato successo che ne conseguì come le diverse ristampe, per non parlare delle edizioni «pirata» in Belgio a partire dal 1835 e della versione inglese, basata sulla seconda edizione, apparsa nel 1839 in un unico grosso tomo su due colonne, e altri due viaggi compiuti in Italia nel 1841 e nel 1843 lo incoraggiarono a preparare una terza edizione, per la quale aveva già cominciato a raccogliere del materiale, quando l’inattesa morte interruppe il suo lavoro.

Ritratto di Isotta (dalla medaglia di Matteo de’ Pasti), dal frontespizio di Trium poetarum elegantissimorum, Porcelij, Basinij, & Trebani opuscula, apud Simonem Colinaeum, Parisiis 1539

Ma esaminiamo il percorso verso Rimini di Monsieur Valery nel 1827. A Parma si era fermato nella biblioteca a compulsare i manoscritti del poeta parmense Basinio e l’edizione rarissima della raccolta Trium poetarum elegantissimorum, Porcelij, Basinij, & Trebani opuscula (Parigi 1539) in lode della bella Isotta degli Atti, amante e poi moglie del signore di Rimini. Questa è la prima menzione della nostra città. L’ultimo tratto della strada per Rimini è così descritto:
«La Via Emilia che si segue fino Rimini è un utile rimanenza della grandezza romana. L’aspetto del paese sembra singolarmente fiorente, poiché presenta, a poche leghe di distanza e sulla strada diretta per Rimini, una successione di grandi città, popolose e ben costruite, ognuna con il suo palazzo, il suo duomo, la sua grande piazza e i suoi ricordi storici. L’ardore per le idee nuove, prodotto dall’esagerazione contraria e dalla disuguaglianza risultante dai privilegi e dalla dominazione ecclesiastica, era estrema tra la gioventù di quelle città, la più istruita d’Italia, come pure in altre città dell’Italia centrale, e gli avvenimenti del 1831 e del 1832 non mi hanno sorpreso. Queste opinioni erano penetrate nel popolo e nel clero. Il caldo temperamento degli abitanti ne ha accresciuto la violenza, benché non fosse ancora scoppiata; perché il Romagnolo è capace di eccessi nel bene come nel male, e può diventare, secondo l’impulso che riceve, o eroe o brigante».
Attilio Brilli alcuni anni fa si è soffermato su questo stesso brano, in almeno un paio dei suoi lavori, traducendolo forse un po’ troppo liberamente. Brilli, come qualche mese fa ci ha ricordato l’amico bibliotecario Paolo Zaghini, è uno dei massimi storici della letteratura di viaggio, oltre che autore, curatore e traduttore di più di duecento pubblicazioni sull’argomento. Indiscutibile, dunque, la sua competenza in materia di letteratura odeporica. Essendo anche stato un docente di letteratura angloamericana, mi è perciò consentito di dubitare della conoscenza dell’uso delle parole nel contesto e stile francesi. È sufficiente, a mo’ d’esempio, indicare la sua traduzione di exagération contraire con «immobilismo», termine che rispecchia indubbiamente nel senso generale la pervicace opposizione alle novità e al tentativo di sopprimerle, l’eccesso contrario. È vero, come ci ha più o meno insegnato Umberto Eco, che tradurre è un po’ tradire. Io preferisco attenermi a una restituzione più fedele nella veste italiana e mantenere, per quanto possibile il sapore dell’epoca, osservando che «immobilismo» è lemma che entra nella lingua italiana, credo, solo nel 1849 mentre il corrispondente francese immobilisme è registrato come neologismo nel più importante dizionario della lingua francese, il Littré, solo nel 1863. Naturalmente, anch’io sbaglio e, anzi, corro i doppi rischi di chi vuole essere, al tempo stesso, filologo e stilista.
Quel che più importa è che Brilli ha tacciato Valery di riesumare uno dei più consunti luoghi comuni sul sangue caldo dei romagnoli, un vieto stereotipo. Paradossalmente la critica agli stereotipi, in questi ultimi anni, complice il politically correct, è diventata essa stessa un topos, una forma di sterile conformismo standardizzato. Gli stereotipi sono pregiudizi ma è anche vero che gli stereotipi sono il precipitato degli archetipi, la loro forma semplificata e pietrificata; come un simulacro sono immagini mutile e unilaterali dell’archetipo che, in altri termini, enfatizzano un solo aspetto, svuotato di energia, dell’archetipo retrostante. Dietro questa maschera fissa, c’è dunque un grano di verità. Conoscere il romagnolo, il suo genius loci, nei poli opposti dell’asse ideale del sangue caldo dell’eroe/brigante, nei suoi aspetti di luce e ombra, ha un profondo significato nel processo di individuazione junghiano. Ma dobbiamo fermarci qui per non andare troppo fuori tema e ci si deve accontentare di questo accenno che spetta al lettore sviluppare secondo i suoi gradi di creatività, intuizione ed interesse.

Come tutti i primi romantici Valery viveva intensamente il classicismo. Ma, oltre alla presenza del neoclassicismo – questo gusto del tempo romaneggiante o sentimento dell’antichità –, se guardiamo la durata della sua vita, ci accorgiamo che coincide con tre periodi storici e li attraversa. Pasquin, nato nell’anno della Rivoluzione francese, ne respinge il razionalismo materialista e i suoi effetti per lui disastrosi, cresce e vive nella Restaurazione che favorisce un ritorno a modelli più conservatori, ma avverte anche che questi, se non mutano nei loro modi di esercizio del potere e dei privilegi, finiranno per essere travolti da quelli che lui chiama événements e noi oggi chiamiamo «moti», repressi ma risorti nel 1848, mancando per un anno l’alba del Risorgimento.
Benché M. Valery, nelle sue cronache di viaggio, sia più interessato ai ricordi del passato, ai libri e ai monumenti che agli eventi attuali, non significa che non prestasse attenzione a ciò che stava accadendo. Le condizioni morali d’Italia, lo stato della società, i diversi governi e le loro forme politiche, amministrative e giuridiche, quantomeno nei loro effetti, destano, ogni volta che se ne presenta l’occasione, la riflessione di un viaggiatore intelligente come lui e, in queste occasioni, il nostro autore dice chiaramente la sua, senza essere, a differenza di alcuni suoi contemporanei, né un ultra-liberale né un ultra-assolutista. Non respinge il passato, in cui distingue valori sia positivi che negativi, e la sua accettazione delle idee moderne è molto eclettica.
Alla posta di Faenza si lamenta perché il servizio di diligenza s’interrompeva e per raggiungere Rimini – questo tratto della Via Emilia un tempo percorsa da una moltitudine di Romani – occorreva servirsi di un vetturino. A proposito nel 1827 di ARimini caput viarum, il contrattempo che ha anche un certo costo gli fa osservare: «Questo angolo d’Italia non è visitato abbastanza. Mi sembra una delle sue parti più interessanti e più curiose. Il viaggiatore che viaggia di posta dall’Albergo Reale a Milano all’Hotel Schneiderff di Firenze, per correre al Cerni a Roma e all’Hotel de la Victoire a Napoli, – dichiara M. Valery, dopo aver elencato gli alberghi italiani più eleganti del tempo – non ha visto la parte intima e reale di questo paese, il suo aspetto desolato, le sue coste tristi e belle, e non ha potuto conoscere questa ospitalità italiana così piena di gentilezza e di bonomia».
M. Valery ci racconta che aveva seguito la costa fino a Rimini, spinto dal desiderio di attraversare il Rubicone. Ci dispiace non ammanirvi le sue annotazioni sul Pisatello (che oggi nominiamo di più Pisciatello), ma tant’è… non scriviamo su Savignano 2.0.

A Rimini, che allora era considerata una città popolosa, «si entra passando sopra un superbo ponte di marmo costruito sotto Augusto e Tiberio, il quale, dopo più di diciotto secoli, è ancora il più bel monumento della città. […] Alla porta orientale, l’Arco di Augusto, altra magnifica testimonianza della grandezza romana, commemora la gratitudine degli abitanti per la riparazione delle più celebri strade d’Italia».
Ma della pagina che dedica a Rimini la più gran parte è dedicata al Tempio. L’entusiasmo che gli suscitò la chiesa è reso con fantasia e sentimento, con erudizione ma anche con uno stile leggero e incantevole. Ed ecco, non per intero, il quadro vivace che ne trae:
«La chiesa di San Francesco è il capolavoro del grande Leon Battista Alberti, il restauratore e legislatore dell’architettura moderna; poeta, pittore, scultore, geometra, erudito, giurista, buon scrittore, musicista, uno degli uomini che la natura aveva più meravigliosamente dotato. Alberti incontrò un principe degno d’impiegare il suo genio: Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, guerriero avventuroso del XV secolo e tuttavia amico dei poeti, dei filosofi e dei sapienti, con i quali amava conversare, volle che dopo la loro morte l’assemblea dei loro sepolcri e di quelli dei suoi capitani divenisse un nobile ornamento del tempio che intendeva fondare; idea grande e generosa, imitata a Westminster, volta a parodia nel nostro Pantheon, e di cui l’Italia per prima ha di che onorarsi. L’effetto di questi diversi sarcofaghi nello stile antico, posti all’esterno della chiesa, sotto delle arcate separate da una corona, è di una semplicità ammirevole. Gli antichi, che quasi sempre trionfano sui moderni, a Rimini han la peggio; e l’arco d’Augusto e anche il ponte son da meno del monumento di Malatesta L’interno, rimasto gotico, è pieno di ricordi dei Malatesta, di questa razza di eroi e di bastardi, dove l’eredità passava quasi sempre a dei figli illegittimi. […] Le insegne dei Malatesta sono una rosa e un elefante; la molteplicità di questi emblemi e delle cifre unite di Sigismondo e d’Isotta conferiscono alla chiesa qualcosa d’orientale e di singolarmente poetico».
Non ci parla per niente di Piero della Francesca, in quegli anni, ancora quasi sconosciuto o dimenticato, a riprova di quanto la gloria mondana sia transitoria.
Valery, poi, nel suo giro per Rimini appunta con leggera ironia:
«Sulla piazza del mercato vi è un piedistallo che, secondo l’iscrizione quasi illeggibile e la tradizione popolare scarsissimamente degna di credito, servì a Cesare per arringare le sue truppe dopo aver attraversato il Rubicone. A pochi passi di distanza, è eretto un altare sul posto della colonna da cui, secondo l’iscrizione, Sant’Antonio ha predicato. Strano accostamento tra il grande capitano di Roma e il nome del suo luogotenente di cavalleria! Vicino al canale vi è un’altra piccola cappella ancora dedicata a Sant’Antonio, da cui si pretende che, non potendo farsi ascoltare dagli abitanti di Rimini, egli arringò da questo scoglio i pesci».

Se qualcuno a questo punto avesse avuto il sospetto che Valery, come molti francesi del suo tempo, fosse un anticlericale o, alla meno peggio, un deista, si sbaglierebbe. Il suo primo patrocinatore letterario era stato Chateaubriand, il padre del Romanticismo francese, autore del Genio del Cristianesimo (1802), e nelle sue Curiosités et anecdotes italiennes del 1842 M. Valery mostra una grande affinità di idee col Manzoni delle Osservazioni sulla morale cattolica (1819) e con Silvio Pellico e la sua riabbracciata fede cristiana. Uomini come Manzoni e Pellico, di cui fu anche amico, rappresentavano per lui, dopo Chateaubriand, una reazione alla «letteratura della materia e della disperazione» e modelli esemplari di una nuova rigenerazione religiosa del cristianesimo.
Ma ritorniamo alla sua destinazione riminese:
«La fortezza, bella costruzione militare di Malatesta e che porta il suo nome, domina la città; vi si scopre il mare; la rosa e l’elefante che ancora vi si vedono sembrano fuori posto in questo castello divenuto prigione.
Ho cercato le tracce della casa di Francesca da Rimini; sembra che fosse situata nell’ubicazione di palazzo Ruffo; alcuni collocano la patetica scena di Francesca e del suo amante a Pesaro, e mi sono ridotto per questa volta a un’emozione condizionale».
Ci dobbiamo chiedere oggi, considerato che dal castello il mare non si scorge più, se la rosa e l’elefante malatestiani, già allora divenuti estranei coll’ambientazione carceraria, avranno qualche posto o si sentiranno ancora a disagio e inadatti in quel Castel Sismondo (che fu loro) stravagantemente descritto nel suo futuro come «una spettacolare macchina di illusioni, i set felliniani e le botteghe creative, tra reale e virtuale».
M. Valery cerca la casa di Francesca, perché con l’avvento del Romanticismo, Dante aveva cominciato a riguadagnare il suo prestigio non solo in Italia, ma anche in Francia e Inghilterra. Valery e molti letterati delle sue cerchie erano degli entusiasti partecipi di questo rinnovato interesse verso Dante, anche attraverso nuove tradizioni e studi critici. Non va neppure dimenticato il grande successo ottenuto dalla tragedia di Silvio Pellico Francesca da Rimini (1815). Oggi chi vuole cercare la scena, «apocrifa» – come avrebbe detto M. Valery, cioè priva di qualsiasi autenticità – dell’assassinio di Paolo e Francesca, reso immortale da Dante, è obbligato ad andare a Gradara a vivere un’emozione nemmeno condizionale ma fittizia. Peccato. Perché il Romanticismo non è morto e ci accompagnerà per molto. Peccato per Rimini. Io, pur riminese, non so nemmeno dove fosse ubicato Palazzo Ruffo, so solo che in un anno imprecisato tra il 1840 e il 1861 assunse il nome di Palazzo Cisterna.
Della Biblioteca Gambalunga il dotto francese non tesse certo gli elogi, che si erano invece tributati ad altre biblioteche come quella di Ferrara, e annota le seguenti impressioni:
«La biblioteca di Rimini, fondata nel 1617 con un lascito del giurista Alessandro Gambalunga, contiene trentamila volumi; i manoscritti, con l’eccezione di un papiro commentato da Marini e di alcuni manoscritti classici, non concernono quasi che la storia della città; i sessantatré volumi di Allegationes, lasciati dal dotto antiquario cardinal Garampi e che si estendono dal 1736 al 1773, invece di dare dettagli sulle sue varie missioni lungo l’Europa, sono solo una raccolta di pezzi teologici o giudiziari di nessuna utilità o interesse».
Oggi può sembrare un giudizio ingeneroso, ma quelle erano le condizioni della politica culturale della nostra città in quei duri anni, mostrate da una biblioteca pubblica di provincia. Nelle citate Curiosités il buon cristiano Valery paragona le legazioni dello Stato Pontificio a dei pascialik ottomani. Ma, soprattutto, la valutazione è quella di un competente professionista. Valery, infatti, dopo un primo impiego nel Consiglio di Stato, alla prima occasione nel 1815 lo abbandonò per assumere l’impegno di direttore di una delle biblioteche della corona per poi diventare, dopo i suoi primi tre viaggi in Italia, bibliotecario del re nei castelli di Versailles e di Trianon. Oltre a questa per lui invidiabile professione e alla sua vastissima erudizione, Valery offre sempre un resoconto coscienzioso ed esatto, completo e soddisfacente, spesso con informazioni preziose, di più di sessanta biblioteche da lui visitate nel nostro paese, e tutte meritevoli di seria considerazione come testimonianza della condizione di quelle istituzioni in quel periodo e alcuni dei suoi omologhi italiani hanno riconosciuto i suoi commenti come veritieri e imparziali.
Nel 1841 M. Valery pubblicò L’Italie confortable: manuel du touriste, appendice aux voyages historiques et littéraires en Italie (J. Renouard, Paris), immediatamente tradotto in inglese, Italy and its comforts: a Manual for Tourists, un lavoro più in linea con le guide turistiche e contenente rapide informazioni utili. Le quattro telegrafiche righe assegnate a Rimini sono:
«Aria salubre.
Pesce squisito.
Vino della repubblica di San Marino abbastanza buono e già elogiato da Addison.
Alberghi: LA POSTA – LA FONTANA».
Non chiedetemi di commentarle, men che meno sull’aria. Sarò anch’io telegrafico. Sono sicuro che allora i dati ufficiali di arrivi, presenze e pernottamenti di Istat e Osservatorio Regionale sarebbero stati identici.
E questa era la «Destinazione Romagna» nel 1827.

Si ringraziano Annamaria Bernucci per la gentile concessione delle incisioni realizzate negli anni Trenta dell’Ottocento da Bernardino Rosaspina ed Emilio Salvatori per le corrispondenti fotografie a colori scattate nel 2005, già esposte nella mostra “Viaggi in Romagna. Doppio sguardo” promossa dall’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna e dalla Biblioteca civica “Gambalunga” di Rimini e ospitata nelle sue Sale antiche dal 22 dicembre 2005 al 18 febbraio 2006.

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