La lingua batte dove il “genere” duole

La lingua batte dove il “genere” duole

Il politically correct detta legge anche nella messa domenicale

Ministro o ministra? Sindaco o sindaca? La questione del genere diventa occasione di formazione professionale. Un assessore saluta l'uditorio con “buongiorno a tutte e a tutti”. Ma ormai anche la Chiesa s'inchina al verbo antisessista. Dio per ora resta padre, ma nel concedere il suo amore non deve fare differenze fra uomo e donna.

Ministro o ministra? Sindaco o sindaca? La questione del genere diventa occasione di formazione professionale. L’Ordine Giornalisti dell’Emilia-Romagna e la Fondazione dell’Ordine, in collaborazione con il Coordinamento Donne Rimini onlus, hanno recentemente proposto ai propri iscritti un breve corso, con successiva sessione pubblica, per approfondire l’argomento e presentare quella che potremmo chiamare la buona prassi per scrivere rispettando la “parità di genere”.

Il presupposto, enunciato con perentoria chiarezza dalla giornalista Vera Bessone in apertura del corso, è che “ciò che non si nomina non esiste”, e siccome la lingua italiana è androcentrica, e quindi tende a far scomparire le donne, o forse più correttamente il genere femminile, dal lessico corrente, ne cancella anche l’esistenza quantomeno nel ruolo che fossero chiamate a svolgere.

Non è questa la sede per decidere se questa affermazione così categorica sia corretta o sbagliata, né peraltro era questo l’oggetto del seminario. Rileva invece quanto ne consegue, la sensazione cioè di sentirsi vittime di una discriminazione e l’ansia di un pronto riscatto che ha improntato l’intero corso/incontro nel quale è mancata la voce di chi la pensa diversamente.

Unica relatrice della sessione pubblica è stata la professoressa Stefania Cavagnoli, docente di Linguistica applicata e Glottodidattica, direttrice del Centro Linguistico di Ateneo dell’Università di Roma Tor Vergata, coautrice del volume “Tutt’altro genere di informazione” edito dal Gruppo di lavoro Pari Opportunità – Consiglio nazionale Ordine dei Giornalisti.
Eppure non tutte le soluzioni e i suggerimenti proposti dalla professoressa Cavagnoli trovano unanime condivisione. Non siamo linguisti e non possiamo certamente dirimere questioni che necessitano di una competenza specifica. Tuttavia, avendo come strumento di lavoro il vocabolario, ci troviamo ora quantomeno in imbarazzo dinanzi a indicazioni contrapposte.

Un esempio per tutti: la professoressa Cavagnoli indica per una donna il titolo di “ingegnera” mentre nel vocabolario, alla voce ingegnere, si legge: “usato di norma nella forma masch. anche se riferito a donna” (Vocabolario Treccani on line). Come considerare dunque quanto si legge nell’autorevole fonte? Forse la mera presa d’atto di un costume diffuso o piuttosto la licenza di applicare alle donne un titolo al maschile? Durante il corso il problema non si è neppure posto; in casi del genere la colpa, se così può chiamarsi, è di lessicografi di chiara matrice maschilista.

Un’analisi accurata meriterebbero anche le parole “sindaco”, “ministro” e simili, che nell’incontro sono sempre state definite professioni. A ben guardare, più che di professioni si tratta di cariche, di funzioni, termini che, sempre nel vocabolario, sono indicati come sinonimi di “ufficio”. Può dunque ben sussistere, almeno come dubbio, che l’ufficio di Sindaco tale rimanga anche se ricoperto da una donna. E come dobbiamo trattare il Vice-Sindaco e in generale ogni altro Vice? Se parlando di Gloria Lisi scrivessimo Vice Sindaca faremmo probabilmente intendere che il primo cittadino di Rimini è donna, ma indicandola come Vice Sindaco non ne renderemmo percepibile il genere.

Ma è proprio sicuro che attorcigliarsi in questioni come queste giovi alle donne? Forse che Samantha Cristoforetti deve la propria riconoscibilità come donna a un apostrofo? Già, perché il genere dei sostantivi che finiscono in -a, come giornalista, si riconosce dall’articolo. Se dunque Paolo Nespoli è un astronauta, Samantha Cristoforetti è un’astronauta e l’eventuale omissione dell’articolo femminile, che rimane un errore grammaticale, non sminuisce certo le eccezionali capacità che, prima donna italiana, l’hanno portata nel cosmo e resa universalmente nota.

Anche l’uso del termine uomo nel senso di genere umano è visto, se non come discriminatorio, certamente con scarso favore. Il suggerimento è di preferirgli la parola umanità. Così anche rivolgersi genericamente agli studenti, ai professori, eccetera, tutti sostantivi al plurale maschile, tenderebbe ad occultare le donne e quindi è preferibile utilizzare espressioni composte come “corpo insegnante” o indicare entrambi i generi, ad esempio studenti e studentesse, professori e professoresse.
Di questo passo, con uno zelo che a qualcuno è apparso eccessivo, si è arrivati all’assessore della Giunta riminese che, secondo quanto ci ha segnalato un lettore, ha salutato l’uditorio con un “buongiorno a tutte e a tutti”, come se “tutto” non fosse un termine già abbastanza inclusivo.

E pazienza se ad essere tanto zelante è un politico. Qualche domanda in più suscita invece lo scrupolo di distinguere il genere anche durante la Santa Messa. Al termine della liturgia delle Palme appena trascorsa, il foglietto La Domenica, a conclusione della preghiera dei fedeli riportava questa orazione: “O Dio, nostro Padre, per il sacrificio del tuo Figlio Gesù, esaudisci la nostra supplica, e concedi a ogni uomo e donna di conoscere il tuo amore …”.
Durante la Quaresima non si recita il Gloria e quindi il contrasto non sarà apparso così evidente. Ma tra qualche giorno, dalla veglia di Pasqua in poi, il sacerdote al termine del rito penitenziale di inizio Messa tornerà a proclamare “Gloria a Dio nell’alto dei cieli” cui adesso, per coerenza, ci aspettiamo di dover rispondere “e pace in terra agli uomini e alle donne di buona volontà”, correggendo così gli Angeli che hanno dato al mondo il lieto annuncio della nascita del Redentore, usando un linguaggio discriminatorio.

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