Regolarizzare i nomadi. Ma si può?

Regolarizzare i nomadi. Ma si può?

Il dibattito sulle "casette" ai sinti è fondato su un presupposto sbagliato. Il diverso per eccellenza, il nomade, lo zingaro, l’irregolare, espressione di culture e civiltà estranee alla modernità, per ciò stesso “trasgressive”, non può, e non deve, essere regolarizzato.

Al di là degli interrogativi etici su come affrontare la cosa, concernenti più la dimensione missionaria che caritativa della Chiesa, la questione dei Sinti a Rimini pone un problema culturale come al solito sfuggito ai più.
Si tratta di quella sindrome da “insopportabilità del diverso” di cui soffrono le nostre società tayloriste e unidimensionali per cui anche il diverso per eccellenza, il nomade, lo zingaro, l’irregolare, espressione di culture e civiltà estranee alla modernità, per ciò stesso “trasgressive”, devono venire regolarizzate a tutti i costi.
Perché?
Perché, nel loro essere Altro, gli zingari (“Chi zìngne!”, come diceva mia nonna) danno fastidio.
Di qui le improbabili disposizioni abitative e lavorative (da Arbeit Macht Frei in salsa democratico-aperturista) della giunta Gnassi.
Che vuole a tutti costi stabilizzare gli anomali dandogli case a tasso agevolato (che il nomade non potrà né vorrà mai ripagare, per sua stessa indole e vocazione) e un lavoro a buon mercato cui non vorrà mai attendere se non smentendo la propria identità.
Seguendo una normativa UE ancor più alienofoba delle pur blande e divertenti cabrate pietistico-assistenziali dell’opificio comunale.
Con una logica non diversa da quelle unioni civili che, nella loro omofobia genetica, non fanno altro che voler eliminare la trasgressione.
Come?
Istituzionalizzandola per via legislativa.
Quando (come orgogliosamente e soffertamente diceva il mio amico Testori) il bello della trasgressione è che è trasgressiva, se la vuoi normare riducendola alle dimensioni del matrimonio borghese, che gusto c’è?
Che questa malattia dell’intelligenza più che dell’anima abbia contaminato anche i nostri amministratori, lo dimostra la paranoia in burlesque di quelle Molo Street Parade che stanno devastando il tessuto produttivo dell’ex capitale del divertimentificio, dove ormai non c’è più una discoteca aperta.
Inquantoché lo strapotere Keynesiano del sindaco Gnassi ha esautorato, istituzionalizzandolo, un settore (quello dell’effimero e del trasgressivo) che se lo istituzionalizzi, che trasgressione è?
Keynes funziona infatti per grandi opere pubbliche (autostrade, dighe e ponti dove la moltiplicazione di posti di lavoro è reale), ma, applicato al divertimento, produce solo sazietà e disincanto.
Oltreché la distruzione dell’investimento privato per concorrenza sleale del pubblico.
Il quale pubblico va bene se investe in cultura (sia pure dello svago e spettacolo, come musica colta, cinema, teatro ecc.), ma che senso ha volere a tutti i costi irregimentare il divertimentificio alla panem et circenses Neroniani?
E’ come voler omologare gli zingari perché non sopportiamo la loro diversità endogena.
Magari ammantandoci di accoglientismo dolciastro e altruismo struzzesco (“autruchisme”, come diceva Lacan) per non dover guardare in faccia il marchio a fuoco della diversità ontologica che noi per primi siamo a noi stessi.
Ma si può?

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