Renato Zangheri e Rimini: un profilo frutto di frequentazioni, ricerche e inediti

L'intellettuale e il politico. Il ruolo decisivo giocato nella nascita della Provincia di Rimini e nella vicenda delle mucillagini. Le partite a tenn

L’intellettuale e il politico. Il ruolo decisivo giocato nella nascita della Provincia di Rimini e nella vicenda delle mucillagini. Le partite a tennis con Claretta Petacci e gli incontri romani con gli amici romagnoli (Sergio Zavoli, Alberto Sughi, Federico Fellini e Tonino Guerra). Sergio Gambini svela per la prima volta i contenuti dell’intervista mai nata con Zangheri.

renato-zangheriQuesta è la storia di un libro mai scritto ed è il mio ricordo personale di Renato Zangheri che ho pensato di stendere, per una forma di riguardo che faccio fatica a spiegarmi, a molti giorni di distanza dalla sua scomparsa. D’altra parte le cose davvero importanti sono già state dette e Renato è stato ricordato come meritava per il grande contributo che ha fornito lungo la sua vita alla cultura ed alla politica del nostro paese.
Renato era un uomo dalla grande immagine pubblica che nulla faceva però per coltivarla, legato ai tempi ed ai toni dello studioso, amante della vita e dell’arte, si era già “ritirato” dalla vita politica attiva e dopo anni di ribalta pubblica aveva scelto, da molti punti di vista, un profilo appartato.
Non credo di tradire la sua decisione di non proseguire con la stesura del libro se oggi presento il lavoro preparatorio cui mi ero dedicato. E’ un punto di vista sulla sua figura molto riminese che non poteva essere certo rievocato da chi lo ha ricordato nelle settimane passate per il suo profilo nazionale. Un punto di vista che tuttavia ritengo possa aggiungere qualcosa per chi lo ha conosciuto nella nostra città ed anche per chi non aveva memoria del suo rapporto con Rimini.
Me lo ha detto con quel suo modo cortese e naturalmente elegante, ma anche con il tono e le parole di un parere conclusivo. Ci aveva pensato su e non vedeva le ragioni per cui qualcuno avrebbe dovuto interessarsi ad un libro-intervista sui suoi rapporti con Rimini. Mi ringraziava per la proposta che gli avevo avanzato, si scusava se il lavoro preparatorio che avevo intrapreso, anche su sua indicazione, sarebbe andato sprecato, ma non riteneva di iniziare le interviste.
Ho dissimulato un po’ la mia delusione e abbiamo continuato a chiacchierare di politica. Renato Zangheri, acuto come sempre, guardava quei primi mesi di speranza del secondo governo Prodi con partecipazione, ma anche con la consapevolezza del Tallone d’Achille rappresentato da una coalizione molto eterogenea, cui era esposto il ritorno al governo del centrosinistra.
A ripensarci il mio intento gli deve essere apparso inutilmente celebrativo, troppo lontano dalle sue scelte di vita, dallo stile e dalla misura, che anche in un panorama politico assai più sobrio di quello attuale, ne hanno sempre distinto la personalità.
Non ero, se non altro per il divario di età, quello che si può definire un suo amico. L’ho ammirato, questo sì, come può avere fatto un allievo delle sue lezioni, mi è capitato infatti per ragioni di lavoro e di comune militanza politica, di avere il privilegio di incontrarlo e di discutere con lui. Quando veniva a Rimini, a volte comuni amici creavano l’occasione per vederci e passare piacevoli ore assieme. Ne conservo una memoria per me molto importante.

Per seguire le sue prime tracce riminesi avevo ricercato documenti negli archivi del PCI locale presso l’Istituto storico della resistenza a Rimini ed a Roma, su sua indicazione, in quelli della direzione nazionale del PCI, all’Istituto Gramsci.
Il suo riferimento romano era Emilio Sereni, storico (memorabile la sua “Storia del paesaggio agrario italiano”) e dirigente politico, allora responsabile culturale del PCI. Renato aveva il medesimo incarico in sede riminese.
Negli archivi romani è rimasta traccia di una corrispondenza fitta, legata all’organizzazione di conferenze e di incontri, alla valutazione di scritti per riviste, alle proposte editoriali per la traduzione di studi storici dall’inglese, ma soprattutto alla richiesta di Sereni perché Zangheri si trasferisse a Roma come funzionario di partito della Commissione Cultura.
Una chiamata mai andata in porto e, nonostante si fosse giunti fino a parlare dell’alloggio romano, rinviata di mese in mese.
Siamo alla fine dei suoi studi universitari e traspare una titubanza nel compiere un passo che avrebbe aperto una sicura e ravvicinata carriera politica di grande prestigio in quel clima di ricerca culturale vivace ed appassionata dei primi anni del dopoguerra, ma che avrebbe definitivamente allontanato Renato dall’ambito accademico.
E’ un tema del rapporto epistolare che si conclude nell’ottobre del ’49, con la richiesta di un parere ad Emilio Sereni circa l’opportunità di accettare la proposta che gli era nel frattempo pervenuta per un incarico all’università di Perugia, in Storia economica, con il professor Luigi Dal Pane.
L’accettazione di quell’incarico, che inaugura il percorso di studioso e docente di storia, causerà inevitabilmente un progressivo allontanamento dalla vita politica riminese, di cui era stato uno dei protagonisti nel campo della battaglia delle idee nonostante la giovanissima età.

E’ difficile descrivere il clima politico e culturale di quegli anni. Soprattutto di quelli immediatamente successivi alla Liberazione. Chi ha occasione di leggere la stampa di quei mesi ha la sensazione che tutto fosse possibile, che nulla nella vita politica, ma anche in quella delle persone concrete, fosse davvero ancora deciso.
Nel ’46 ritroviamo Renato Zangheri, che ha solo 21 anni, condirettore di Città Nuova, un foglio locale che si definisce “settimanale indipendente di ricostruzione”.
Le liste del “blocco socialcomunista” nelle prime elezioni amministrative avevano raggiunto un notevole successo, ma il clima era ancora quello della collaborazione unitaria delle forze dell’antifascismo, un crogiolo dal quale si sarebbero definitivamente scolpite le adesioni personali alle diverse formazioni politiche, nel quale tuttavia i giovani intellettuali, che erano cresciuti negli anni del consenso al regime, ricercavano comunemente e con avidità, nelle nuove condizioni di libertà di pensiero, attraverso testi ed autori fino ad allora inaccessibili, le ragioni ed i nuovi orizzonti della democrazia.
Rispondevano così a nuovi interrogativi, costruivano letteralmente, giorno per giorno, scoperta dopo scoperta, la propria identità, consolidavano convinzioni e punti di vista che, nei convulsi mesi successivi alla caduta del fascismo e prima della liberazione di Rimini, avevano soltanto potuto intuire o apprendere nella versione più assertiva trasmessa dagli opuscoli della propaganda clandestina.
Veniero Accreman, nel suo libro “Le pietre di Rimini”, descrive bene i protagonisti ed il clima che si viveva tra i giovani intellettuali negli anni della guerra e nei mesi più difficili in cui ciascuno fu chiamato a compiere scelte decisive.
Renato era appena più giovane e non aveva vissuto da protagonista quella fase precedente alla Liberazione, tuttavia aveva già compiuto una scelta di fondo sulle orme del padre. Ora era partecipe di quel nuovo entusiasmo che costruiva sulle ceneri del fascismo la nuova democrazia italiana, nel quale pochi tra i giovani antifascisti avrebbero saputo e voluto tirare una rigida riga di separazione o di contrapposizione tra comunisti, socialisti, azionisti e cattolici democratici.
Si doveva ancora scegliere tra monarchia e repubblica e al governo Togliatti lavorava fianco a fianco con De Gasperi, Nenni e Parri.
I partiti si riorganizzavano sul territorio ed il PCI era la forza che prima di altre, anche in virtù della rete che aveva animato la resistenza, era riuscita a tessere una struttura organizzata, che aveva attirato e conquistato l’impegno di molti giovani intellettuali.
Chi aveva scelto il PCI lavorava tuttavia assieme a molti altri che stavano maturando un diverso orientamento e, pur avendo già nelle proprie corde l’impulso al proselitismo che veniva dal partito, lo faceva senza distinzioni o preclusioni, in un crogiolo appunto, stimolante ed aperto, fatto di confronto reale e contaminazioni.
Ad esempio su uno dei numeri del settimanale nei primi mesi del ’46, a fianco di una poesia di Paul Eluard, tradotta da Gianni Baldinini, che era già un giovane dirigente comunista, compare un bell’articolo sui temi dell’estetica e dell’impegno civile per una nuova cultura, firmato Sergio Zavoli. L’articolo prende le mosse da una mostra dei pittori riminesi, in esso valorizza con sobrietà la nuova poetica introdotta dagli artisti di sinistra e precisa che lo fa pur collocandosi nella posizione di “uno che non ha tessere”. Nel suo articolo Sergio Zavoli aveva anche accennato una critica alla visione consolatoria del cristianesimo e su questo punto si becca però la replica, a difesa dei valori cristiani, affidata ad un corsivo della redazione.
In questo orizzonte per molti versi in formazione, Renato si impegna nella Commissione Cultura del PCI e quando verranno costituiti gli organismi di zona ne diventerà responsabile.

Le cose ovviamente cambiano dopo la rottura dell’unità antifascista del ’47 ed ancor più dopo l’esito elettorale del 18 Aprile 1948. Gli steccati diventano invalicabili e prevale, anche per Renato, l’impegno politico esclusivo nel suo campo.
I verbali dei diversi organismi del partito in quegli anni ne fanno fede. Avrei voluto interrogarlo su di un punto che considero fondamentale per la vicenda riminese anche nei decenni successivi e che si affaccia in una sua riflessione ad una delle riunioni con all’ordine del giorno il lavoro nei confronti degli intellettuali.
Siamo nel maggio del 1949, la segreteria federale si riunisce per discutere sul tema, è invitato anche Renato Zangheri che svolge la relazione introduttiva. Il verbalizzante sintetizza un concetto che Renato pone in apertura. “Il problema degli intellettuali è mutato più di tutto il resto del riminese e ciò dipende secondo lui dai particolari rapporti di produzione, per cui si verifica questa moltiplicazione dell’importanza degli intellettuali, quale categoria che vive stabili rapporti tra campagne e vecchia classe dirigente. Fenomeno tipico del riminese è che un certo gruppo di intellettuali è entrato nel partito e questo gruppo non ha sempre mantenuto i contatti con l’ambiente.”
In questo sintetico approccio che ci è restituito dal verbale, sono evidenti gli echi delle prime letture dei Quaderni dal Carcere di Antonio Gramsci, la cui pubblicazione era iniziata per Einaudi nel ’48, ma ci sono due annotazioni molto interessanti tutte riminesi. Il mutamento del ruolo degli intellettuali nella società riminese ed il distacco tra il cospicuo gruppo di loro che aveva aderito e costituito il gruppo dirigente del PCI locale ed il loro ambiente d’origine.
Siamo agli albori del boom turistico, la società freme di iniziative, tutto è in movimento, il tradizionale ruolo di mediazione delle figure intellettuali è stravolto dalla crescita che si affaccia e che è fondata sul fiorire di una miriade di nuove attività e su un’imprenditorialità diffusa che ha poco tempo per la cultura e poco bisogno di competenze.
Nello stesso tempo sta accadendo qualcosa di abbastanza raro, se non unico, nel panorama nazionale. Gli organi dirigenti locali del PCI vengono costituiti attingendo principalmente da giovani intellettuali che non hanno memoria degli anni precedenti alla dittatura, che non hanno un’estrazione operaia, che non hanno un curriculum prestigioso di lotta nelle fila della Resistenza, caratteristiche invece distintive dei gruppi dirigenti locali del PCI in quegli anni. Essi scoprono nell’attività politica una dimensione più “alta” dell’impegno intellettuale ed in conseguenza di ciò si allontanano progressivamente dal contesto dell’intellettualità locale.
Viene fotografato un mondo intellettuale sottoposto ad un grande cambiamento e disorientato, che è stato mutilato di una sua componente altamente coesiva la quale ha scelto invece la strada esclusiva e totalizzante della politica.
La discussione in segreteria prende tuttavia altre strade, più organizzative, propagandistiche e legate alla intensificazione del lavoro ideologico. In qualche modo una ricetta che piuttosto che arginare i pericoli evidenziati da Renato ne accentua i rischi, tanto che in replica non può esimersi dal porre “in rilevo la differenza che passa tra lavoro culturale e ideologico.”
Confesso che mi sarebbe molto piaciuto essere spettatore di quella riunione, coglierne le molte sfumature che la sintesi di un verbale non può certo restituire, ascoltare i diversi interventi, tra di essi quello di un intellettuale di livello internazionale come Gino Pagliarani, che lasciata Rimini, sarebbe diventato il padre fondatore della psicosocioanalisi italiana, anche lui invitato alla riunione, ma anche le rigide conclusioni del “vecchio” Pietro Tabarri, il comandante partigiano che era stato inviato dal centro del partito a guidare la neonata federazione comunista riminese ed i suoi giovani intellettuali.
Quello del rapporto tra Rimini e gli intellettuali è un gran bel tema, sono personalmente convinto che incrocia alcuni aspetti che compongono l’identità più profonda della nostra comunità, come lo sviluppo peculiare del ’68 riminese ed il suo lascito politico, la nascita ed il radicamento locale di CL o la fragilità del senso di comunità ed il deficit di coesione sociale che accompagna gli anni che stiamo vivendo. Su di esso Renato Zangheri aveva lavorato, indagando una fase di svolta e di gestazione particolarmente importante e rimpiango davvero di non avere insistito per raccogliere la memoria delle sue valutazioni, al di là del progetto del libro-intervista.

Quando avviene il trasferimento dall’università di Perugia a quella di Bologna, il rapporto con Rimini va rapidamente ad esaurimento. Sarà sotto le due torri che dal ‘52/’53 si svolgerà non solo la sua attività accademica, ma anche quella politica.
Sono anni di lavoro duro e di grande impegno che precedono l’ingresso nella giunta comunale di Bologna e l’incarico di assessore. Di mezzo c’è il terribile ’56, con l’invasione sovietica dell’Ungheria e la diaspora di molti intellettuali comunisti.
Non avrei citato quell’anno decisamente indimenticabile, anche in ragione del travaglio che scosse il mondo della cultura italiano ed il ruolo in gran parte egemone che in esso allora giocava il PCI, se non avessi raccolto da Renato, nei giorni in cui era in gestazione il progetto del libro, la delusione per le parole usate a proposito della sua posizione in quel drammatico frangente da amici riminesi, nel corso di una conferenza.
Uomini non certo inclini alla semplificazione come Pietro Ingrao, che allora dirigeva l’Unità, non esitarono a schierarsi “dalla parte della barricata” dell’URSS. Ma ci furono anche quelli, come Renato Zangheri, che scelsero una posizione più problematica e più scomoda.
Sono mesi drammatici. L’anno si apre con le rivelazioni del XX Congresso del PCUS ed il rapporto segreto di Krusciov. E’ la fine dello stalinismo, con tutto ciò che significa per i partiti comunisti anche nell’occidente. Seguono i sommovimenti in Polonia e poi nell’autunno il dramma dell’Ungheria, cui si affianca l’avventura anglofrancese nel canale di Suez.
Un confronto appassionato ed acceso coinvolge il mondo dell’informazione e della cultura di sinistra, con episodi contraddittori nei quali si mescolano la ricerca delle ragioni più profonde del dramma che si sta consumando, l’autentico sgomento di fronte all’intervento militare sovietico, ma anche la fedeltà alle scelte di campo, ripensamenti tormentati rispetto alla indignazione delle prime ore e perfino calcoli cinici di più basso profilo.
Renato firmò un appello, assieme ad altri storici, a sostegno del segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio che si era rifiutato di considerare gli scioperi operai che avevano acceso la miccia della rivolta ungherese come un rigurgito controrivoluzionario, fomentato dalle mire imperialiste dell’Occidente.
Il testo invitava Di Vittorio, allora presidente della federazione sindacale mondiale, ad attivarsi per aprire un dialogo con gli operai insorti. L’evolversi della vicenda ungherese che vide un susseguirsi di aperture e di dure repressioni, come è noto, non consentì poi che l’intervento di Di Vittorio potesse concretamente avere luogo e d’altra parte la sua posizione nel gruppo dirigente del PCI era di fatto rimasta sempre più isolatala.
La firma di quel documento non portò Renato fuori dal PCI, come accadde invece ad alcuni dei firmatari di un appello successivo, quello dei 101 intellettuali romani. Certamente fu comunque un gesto di autonomia e di libertà che non venne mai rinnegato e che descrive una personalità poco incline ad adeguarsi supinamente alle direttive del partito.
Anche lui, come ha riferito in chiave autocritica Pietro Ingrao recentemente, pensava che il PCI avesse compiuto un gravissimo errore politico ed anche personalmente pensava che avrebbe potuto fare di più, tuttavia si sentiva orgoglioso di quella firma e gli dispiaceva che persone amiche avessero così travisato la sua posizione.

I rapporti con Rimini per molti anni mantengono esclusivamente un risvolto di carattere personale, legato agli affetti della sua famiglia, ma anche questa parte di storia avrebbe meritato di essere raccontata. Sono gli anni della grande trasformazione della città, della sua crescita tumultuosa e disordinata e mi sarebbe piaciuto capire l’impressione che destavano quegli straordinari cambiamenti agli occhi distanti di un protagonista della Rimini precedente, quella dell’immediato dopoguerra, che viveva ormai lontano. Nel mio lavoro preparatorio del libro avevo pensato di affidare interamente questa fase del suo rapporto con Rimini alle domande ed alle risposte dell’intervista perché non avevo ritrovato tracce documentali sulle quali lavorare.
Il salto documentaristico mi portava invece alla seconda metà degli anni ’80, quando Zangheri era impegnato in parlamento e ricopre l’incarico di presidente del gruppo parlamentare del PCI.
Avevo perciò ricercato altri elementi del suo rapporto con la nostra città negli archivi, ora più facilmente consultabili per via elettronica, della Camera dei Deputati. Un lavoro decisamente più semplice, che aveva potuto giovarsi della mia personale memoria, anche perché il suo impegno di parlamentare ha coinciso per larga parte con il mio mandato da Segretario di federazione del PCI.
Avevo un buon ricordo del ruolo giocato da Renato nell’ottenimento del rango di Provincia al territorio riminese e posso testimoniare che, al di là di quanto trasmesso dagli atti parlamentari, il suo ruolo è stato decisivo.
Lo è stato per fare maturare all’interno del principale gruppo di opposizione un orientamento fattivamente favorevole al riconoscimento.
Fattivamente perché in Parlamento, lo dico anche sulla base dell’esperienza personale, c’è modo e modo per approcciare i diversi temi e le scelte che ne conseguono.
In quegli anni, quando ancora la promozione a provincia di un territorio era un’aspirazione politicamente accettabile, all’apertura di ogni legislatura si registravano dozzine di disegni di legge dei parlamentari locali per promuovere il territorio di provenienza a provincia. Molti di questi erano decisamente privi di ogni fondamento e avevano l’unico scopo di solleticare il campanilismo e di promuovere una dilatazione della spesa pubblica.
I gruppi parlamentari, anche quello del PCI, lasciavano fare, consentendo che nelle realtà locali i singoli parlamentari potessero intestarsi l’iniziativa, ben consapevoli che in realtà, alla fine dei conti non se ne sarebbe fatto nulla. D’altra parte i parlamentari delle provincie madri, appartenenti magari allo stesso partito, nei loro territori, giuravano che si sarebbero opposti strenuamente. In questo misero gioco delle parti tutti potevano staccare il proprio dividendo di consensi ai danni della credulità popolare.
In questo modo tuttavia anche le realtà le cui rivendicazioni avevano buone ragioni e che proponevano un obiettivo miglioramento del funzionamento degli organi decentrati dello Stato e delle istituzioni rappresentative locali, finivano nel limbo politico di una discussione che neppure iniziava.
Per Rimini (ma anche per Prato, Biella, Lodi, Lecco, Verbania e Crotone) le cose andarono però diversamente.
Il primo ostacolo era stato sormontato a livello locale portando la federazione riminese del PCI a superare una storica posizione che la vedeva agnostica, se non contraria al tema della provincia. Parallelamente si trattava di ottenere il voto dei Consigli Comunali che avrebbero fatto parte della nuova provincia e quello più difficile del Consiglio provinciale di Forlì.
Una trama politica delicata che non avrebbe avuto senso intraprendere senza il preventivo consenso del gruppo parlamentare che rappresentava le forze di maggioranza sul territorio sia della provincia madre che di quella di cui si rivendicava la nuova istituzione.
Il PCI era a Roma solo forza di opposizione, ma queste erano scelte che potevano essere intraprese esclusivamente con un consenso ampio e trasversale, soprattutto se interessavano aree nelle quali l’opposizione parlamentare era la principale forza di governo locale.
Invitammo Renato a Rimini e ne parlammo assieme a Giovanna Filippini, il nostro deputato, per evitare che l’iniziativa legislativa fosse una delle tante destinate a morire nel nulla.
Il PCI non era come il Partito Repubblicano pregiudizialmente contrario alle province, ma certamente guardava con diffidenza la frammentazione istituzionale ed il moltiplicarsi dei centri di spesa pubblica. Per di più il peso politico del partito forlivese era tradizionalmente superiore a quello di Rimini e sapevamo tutti che il semaforo verde, accordato a denti stretti da Forlì, manteneva un contenuto di ambiguità legato alla convinzione che sarebbero state tali le difficoltà del percorso parlamentare da rendere assai improbabile l’ottenimento del risultato. Al momento opportuno la freddezza dei forlivesi avrebbe potuto rappresentare la manciata di sabbia in più in mezzo ad ingranaggi decisionali già molto farraginosi, capace di fermare la scelta.
Non fu tuttavia difficile ottenere il consenso di Renato perché la proposta era sicuramente motivata e lui conosceva bene le peculiarità che caratterizzavano il territorio riminese rispetto alla provincia di Forlì. Non so se in quel momento ne avesse memoria e se ciò abbia influito sulla sua scelta, ma è utile ricordare che il settimanale locale di cui era stato condirettore aveva sostenuto nel ’46 la costituzione della provincia riminese ed aveva registrato con delusione la decisione contraria.
La cosa che si rilevò particolarmente preziosa fu il suo suggerimento e la sua disponibilità ad individuare un ristretto gruppo di territori, che aspiravano a diventare provincia e che avevano buone ragioni per questa richiesta, con i quali allearsi, escludendo la pletora di proposte di legge prive di fondamento.
Giovanna iniziò a tessere la tela parlamentare, ma la regia di Renato Zangheri fu decisiva e consentì, superando difficili passaggi e blocchi prevedibili, un largo accordo parlamentare ai massimi livelli, che concluse il suo iter formale nel ’92. Era stato necessario, nel frattempo, allargare l’iniziale ristrettissimo numero di territori candidati alla istituzione di nuove province, per coinvolgere adeguatamente le diverse formazioni politiche, ma il risultato venne alla fine raggiunto.

L’altro episodio, di cui avevo perso la memoria personale e che ho invece ritrovato attraverso la ricerca documentaristica, è stato l’impegno nella difficile vicenda delle mucillagini in Adriatico dell’estate ’88, che aveva rappresentato uno shock ambientale ed una catastrofe economica per le attività turistiche della riviera. I primi drammatici eventi risalivano già all’estate del 1986, ma la discussione parlamentare negli anni precedenti aveva purtroppo mantenuto i toni della routine e gli interventi del governo erano stati episodici se non contraddittori.
Dovevano essere assunte urgentemente decisioni capaci di incidere immediatamente per arrestare i fenomeni di fioritura algale e consentire che la successiva stagione, in coincidenza con il periodo di maggiore riscaldamento del mare, non portasse ad una accelerata riproduzione del fenomeno.
La regione Emilia Romagna, attraverso l’assessorato all’ambiente guidato da Giuseppe Chicchi e con il sostegno delle sue agenzie, aveva individuato la base scientifica degli interventi necessari ed immediatamente possibili che avevano però principalmente un profilo di carattere nazionale.
Si trattava di abbassare il contenuto di fosforo dei detersivi, imporre un’adeguata depurazione delle acque degli allevamenti suinicoli insediati nel bacino del fiume Po, costituire un’unica autorità per l’intero bacino. Si dovevano sconfiggere interessi cospicui e potenti resistenze non solo culturali.
Nelle consolidate consuetudini parlamentari non è comune che il presidente di uno dei gruppi principali intervenga su di una questione così specifica.
Nella seduta del 21 Settembre, dedicata alla discussione delle mozioni sull’emergenza Adriatico, Renato Zangheri invece, con il suo intervento in aula, volle marcare con forza il carattere di autentica emergenza nazionale che assumeva la questione.
Non si trattò di un intervento formale, in ballo c’era la consapevolezza che soltanto interventi che competevano al governo centrale, sarebbero stati davvero efficaci ed avrebbero potuto incidere in maniera immediata. D’altra parte il dramma dell’Adriatico rappresentava l’emblema di una questione ambientale che il nostro Paese aveva per troppi decenni ignorato.
Oggi a trent’anni di distanza, al di là della effettiva capacità di promuovere uno sviluppo sostenibile, i temi ambientali fanno parte del linguaggio comune della cultura e della politica anche in Parlamento.
Allora invece il presidente del maggior gruppo di opposizione, di una forza tradizionalmente industrialista, che si alzava nell’aula della Camera per fare un discorso ambientalista, rappresentò un grande segnale di innovazione e di rottura.
Posso personalmente testimoniare che ancora nove anni dopo, quando capitò a me, al Senato, di presentare la Conferenza sui Cambiamenti Climatici di Kyoto, per gran parte dei parlamentari quella era materia marginale e quasi sconosciuta.
Non sono in grado di dire quanto abbiano inciso le sue origini riminesi nella decisione di tenere quel discorso, certamente rappresentò, al di là dei risultati specifici che pure vennero conseguiti, un punto di svolta nella consapevolezza ambientalista della sinistra italiana.

Un libro intervista è fatto anche di chicche. In genere si tratta di approfondire episodi più o meno sconosciuti, tracce carpite in conversazioni o ricordi di altri che hanno frequentato l’intervistato. Colore, ma non solo. Situazioni inattese sulle quali gettare la luce del protagonista, che consentono di capire di più della persona al di là del ruolo pubblico che ha rivestito.
Io in serbo ne avevo tre che potevano servire a raccontare qualcosa di Renato e del suo rapporto con Rimini che non tutti sapevano.
La prima era sfuggita quasi casualmente a lui stesso. Eravamo a cena insieme ad altri compagni in un qualche ristorante della Val Conca. Amava le occasioni conviviali, nelle quali poteva rilassarsi e gli piaceva tornare con la memoria alla Rimini che aveva conosciuto.
Non ricordo come ci siamo arrivati, ma ad un certo punto ci ha raccontato che quando era molto giovane giocava a tennis, e questo, nella Rimini a cavallo dell’entrata in guerra dell’Italia doveva già essere una eccezione. La scena di gioco che ci raccontava, al campo di tennis del Grand Hotel, era però ancora più stupefacente, si trattava di una serie di allenamenti con Claretta Petacci.
Era lì che alloggiava la donna di Mussolini, mentre il dittatore dell’Italia fascista stava a Riccione con la famiglia. La chiacchiera era che gli amanti si incontrassero al largo, portati da due motoscafi mentre le lunghe giornate solitarie della Petacci, preparatorie di quegli incontri segreti, trascorrevano a Rimini alla ricerca di qualche passatempo. Il ragazzino talentuoso della Rimini bene era alla fine un ideale sparring partner per riempire le ore di attesa con un’attività sportiva.
Come e quando era potuto accadere tutto ciò? In quale contesto? Avevano potuto conversare? Che impressione aveva ricavato Renato da quegli incontri? Sono tutte domande che purtroppo non hanno avuto una risposta, non so neppure sinceramente se avrebbe gradito parlarne.
Sfogliando un recente libro di Luciana Castellina che racconta un episodio simile, con lei compagna di tennis a Riccione della figlia di Mussolini, mi sono ancora più convinto però che sarebbe stato interessante scavare in questo ricordo, per tratteggiare insieme a lui il clima ed i costumi della Rimini che precede gli anni più drammatici della guerra, il rapporto contrastato con il fascismo, il percorso personale di un giovane cresciuto in quel contesto.

Il secondo episodio, che avrei voluto raccontare e che avrei voluto sottoporre a Renato per raccogliere la sua testimonianza, mi veniva da un ricordo di Walter Ceccaroni che era emerso in una delle tante conversazioni con il sindaco più amato di Rimini.
Siamo a San Marino, a Borgo, è la fine della primavera del ’44. Walter Ceccaroni fa parte della rete clandestina della Resistenza, ha un appuntamento con il padre di Renato, devono scambiarsi alcune informazioni.
Non so di cosa si trattasse, immagino facesse parte di quell’attività di collegamento per tenere assieme la rete antifascista, che nel contesto riminese così condizionato dallo sfollamento della città a seguito dei bombardamenti alleati e dall’allestimento della linea gotica da parte dell’esercito nazista, caratterizzava l’impegno principale dell’azione clandestina.
Walter ha qualche anno in più di Renato, quattro per la precisione. A quell’età ed in quell’epoca, sono anni che fanno la differenza per come ciascuno percepisce se stesso.
Quando mi ha raccontato l’episodio Walter sorrideva, perché lui si sentiva già un uomo, per giunta impegnato in una attività che comportava il rischio della propria vita e allora ricordava divertito il se stesso di tanti anni prima che reagiva indispettito di fronte al ragazzo che era ancora Renato Zangheri, che si era presentato all’appuntamento al posto del padre.
Possiamo immaginarci la scena. Il sole sulla piazza, le mura di pietra, poca gente. La fatica per arrivare in bicicletta al luogo dell’appuntamento. Le rigide regole della clandestinità, la necessaria circospezione, la disciplina che Walter aveva adottato in quei mesi drammatici facendo la scelta dell’impegno nella resistenza. Il ragazzo che si presenta nel luogo nel quale avrebbe dovuto essere stato presente il padre. Un ragazzo che lui conosceva, come allora tutti si conoscevano a Rimini e che però, per l’età, non aveva mai considerato come un possibile compagno di cospirazione.
Walter apprese in seguito che Renato era lì per comunicare che il padre non poteva essere presente all’ora convenuta e che avrebbe tardato, ma non gli consentì di riferire il messaggio.
Fece finta di non conoscerlo e fece di tutto per evitare che gli si avvicinasse. Dopo un po’ decise di abbandonare il luogo dell’appuntamento, lasciando solo il ragazzo che ai suoi occhi aveva preteso di fare una cosa da grandi.
Cosa avrà pensato Renato del fallimento della sua missione? Come era giunto in quel luogo? Quale percorso personale lo aveva portato lì? Come era maturato nella sua famiglia l’impegno nella resistenza e come era cresciuta in lui la decisione di fare qualcosa, anche una piccola cosa comunque rischiosa come farsi latore di un messaggio della rete clandestina?

La terza scena è invece molto più recente e la devo a Teo Ruffa. Teo era, durante la mia permanenza alla Camera dei Deputati, il direttore dell’apparato del gruppo parlamentare dei DS. Lo era stato anche di quello del PCI quando Renato Zangheri ne era il presidente.
Teo sapeva tutto della vita e dell’impegno dei singoli parlamentari del gruppo e credo mi considerasse uno sul cui lavoro si poteva contare, magari non sempre allineato, ma affidabile anche per incarichi impegnativi. Tuttavia, come capita spesso, più o meno meritatamente, ai riminesi d’esportazione, anche io mi portavo addosso un’aurea di leggerezza, di interessi che andavano al di là del lavoro parlamentare e di una sana refrattarietà alle consuetudini da maso chiuso che troppo spesso caratterizzano la parte romana della settimana dei deputati DS.
Credo sia stata questa la ragione per la quale decise di raccontarmi di come Renato, che stimava molto, considerava sacri, nella formulazione dei suoi calendari di lavoro, gli spazi dedicati agli incontri che periodicamente aveva con gli amici romagnoli che vivevano o passavano a Roma.
Era un rito legato ad un ristretto gruppo di amici di cui facevano parte lui, Sergio Zavoli, Alberto Sughi, qualche volta Federico Fellini e Tonino Guerra quando veniva a Roma. Mostre, eventi culturali, conferenze, incontri conviviali, appuntamenti che si ripetevano senza regolarità, ma a cui Renato era fedele.
L’idea che questo piccolo nucleo di grandi riminesi, con l’aggiunta del forlivese Sughi cercasse comunque di passare delle ore assieme nonostante i reciproci impegni e che ancora ritenesse importante condividere pensieri ed emozioni, misurandoli con le proprie radici, mi faceva impazzire dalla curiosità.
Ho avuto un piccolo assaggio del clima di quel cenacolo, accompagnando in una occasione, quando ancora ero deputato, Sergio Zavoli da Alberto Sughi, nella sua splendida casa studio. Il tono della conversazione, la vastità degli argomenti, gli episodi evocati, tutto era davvero speciale.
Avevo immaginato molte domande per Renato innanzitutto per avere conferma del racconto di Teo Ruffa, ma certo la più semplice era quella che mi interessava di più: perchè?
Perchè a distanza di tanti anni da quando si erano conosciuti nella piccola Rimini di prima della guerra, oppure incontrati in seguito, incrociando le rispettive esperienze e carriere, perché non si erano mai persi e sentivano il bisogno di ritrovarsi ancora?

E’ la stessa domanda in fondo che mi ha spinto a raccontare di questa intervista mai nata e del lavoro di preparazione che avevo intrapreso.
Non ho personalmente conosciuto tutti i grandi riminesi che si sono allontanati dalla città nella loro giovinezza, in alcuni casi si è trattato soltanto di un breve incontro, ma la loro attività, almeno quella che è stata accessibile al pubblico, attraverso gli scritti, i film, i libri, le interviste l’ho sempre sentita come una parte di noi che se ne andava in giro per il grande mondo.
Forse sarà la narrazione di Fellini che ha dato questa impronta immaginaria di una identità che non si disperde, di un legame che non si spezza, ma ho vissuto con l’idea che c’era qualcuno cui rivolgersi, di cui ascoltare la voce attraverso le opere o l’impegno civile che poteva spiegare qualcosa di più di questa nostra comunità.
E’ un’idea passatista, che non ha più senso nell’era di internet e della globalizzazione? Sinceramente non lo so.
So per certo invece che il senso di perdita ed il dolore che ho avvertito per la sua scomparsa, va al di là del piccolo legame che avevo personalmente costruito. Renato mi mancherà e mancherà a tutti noi.

Sergio Gambini

COMMENTI

DISQUS: 0