Se a Rimini il popolo delle primarie è in fuga c’è più d’un motivo

Il flop in tutta la regione delle primarie merita una riflessione molto seria e senza alibi. Specialmente a Rimini dove la mancata partecipazione è st

Il flop in tutta la regione delle primarie merita una riflessione molto seria e senza alibi. Specialmente a Rimini dove la mancata partecipazione è stata un vero disastro. Erano primarie di coalizione e invece il numero di partecipanti è lontano anche dal numero degli iscritti al PD. Di fronte a ciò l’esultanza per la vittoria di questo e di quel candidato mi appare decisamente fuori luogo e, se non fosse una cosa seria, perfino ridicola.
La verità è che bisognerebbe sapere ascoltare.
In questo caso provare a capire il silenzio di chi ha disertato i seggi. Il messaggio a mio avviso è chiaro e suona inquietante per le elezioni di fine Novembre.
La continuità del modello emiliano impersonata da Bonaccini non ha convinto e ha finito per allontanare il popolo delle primarie.
Troppi gli interrogativi sulla mancata trasparenza del rapporto tra singoli esponenti del PD ed istituzioni che si sono accumulati dalla vicenda Del Bono in poi. Troppo facile l’impostazione autoassolutoria. Troppo centrale la dichiarazione di diversità positiva di un modello di sviluppo che mostra invece evidenti crepe e contraddizioni.
Per capirci, andando ad un altro tornante di crisi conosciuto dalla sinistra nella nostra regione, ben più complessa, profonda e travagliata era stata le ricerca per battere strade nuove, dopo la vetrina infranta di Bologna nel ‘77.
Purtroppo l’alternativa di Balzani è vissuta ai margini del partito e non è stata sufficientemente credibile per scardinare quella disillusione.
Da molti anni gli eredi del PCI hanno smarrito una costituzione “plurale” del gruppo dirigente e le voci dissonanti sono state costrette ad assumere sempre più il carattere del “dissenso”, piuttosto che quello dell’alternativa. Ai margini, appunto.
Il carattere “plurale” era invece una delle peculiarità della sinistra in Emilia Romagna, quella cioè, in mancanza di una alternanza al governo della rete istituzione della regione, di essere alternativi a se stessi.
Nelle sensibilità programmatiche, nell’attenzione agli insediamenti sociali, nella selezione del personale politico.
Questa mutazione genetica è stata resa ancora più evidente dalla facile constatazione che il PD ha lanciato negli ultimi mesi messaggi decisamente contrapposti tra il livello nazionale e quello locale.
Mentre a Roma Renzi si batte come un leone per cambiare e non teme di sfidare potenti lobby e storici tabù, qui da noi il PD descrive la società regionale come  il migliore dei mondi possibili.
Il partito di Renzi che lotta contro l’establishment viene invece percepito in Emilia Romagna come il partito cardine dell’establishment reale e sembra che la sua principale preoccupazione sia quella semplicemente di conservare lo status quo.
Se si parla di Roma la spending review è la speranza del PD per cambiare, quando atterriamo a Bologna o a Rimini diventa il peggiore dei mali. Così, è evidente, non può funzionare.
Le amministrative di primavera avevano invece già evidenziato quanto forte fosse la domanda di cambiamento. Il confronto con i dati delle Europee nel riminese è stato addirittura imbarazzante.
Si è preferito fare finta di niente, attribuendo le sconfitte alla litigiosità di alcuni protagonisti, senza compiere un serio esame autocritico.
La verità è che se la gestione pubblica fa fallire un aeroporto non puoi prendertela con il tribunale e che se l’edilizia è bloccata qualcuno comincia legittimamente a chiedersi perché gli strumenti urbanistici siano congelati da anni.
Gli esempi come è noto potrebbero continuare e non c’è perciò da stupirsi se il PD viene coinvolto nel generale sentimento di antipolitica che attraversa il paese.
Dopo la lezione ricevuta in primavera, se il gruppo dirigente di un partito appare del tutto sordo al messaggio lanciato dall’elettorato, l’interrogativo legittimo per il popolo delle primarie è diventato se valesse davvero la pena di andare a votare.
Credo che, seguendo le battaglie di Renzi, molti comincino a convincersi che anche in Emilia Romagna il nodo principale da tagliare sia la sovrapposizione tra partiti ed istituzioni. L’ingerenza nella vita economica di soggetti pubblici che limitano la concorrenza e l’apertura dei mercati. Il peso della burocrazia tollerato dalla cattiva politica che soffoca le imprese ed aumenta la discrezionalità del decisore politico.
Insomma un sistema di potere che pregiudica lo sviluppo e che andrebbe felicemente rottamato a Rimini come a Bologna.
Invece l’unico segnale pervenuto a Rimini è stato il rilancio fuori tempo di un campanilismo stantio contro il capoluogo regionale.
Infine ha certamente influito anche il fatto che sono intere settimane che l’attenzione dei dirigenti locali è monopolizzata dal posizionamento in vista delle elezioni regionali, per designare i candidati riminesi. Una lotta sorda, un braccio di ferro infinito tra dirigenti e capicorrente vari che finisce per coinvolgere ed avvilire anche i quadri intermedi.
Un odore di battaglie personalistiche ed autoreferenziali che puzza da lontano e dal quale la gente preferisce starsene giustamente alla larga.

Sergio Gambini

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