Sembra inverosimile, editorialmente è un caso quasi unico in Italia. E il caustico silenzio che ha ammantato la morte de La Voce di Romagna, da parte di tutti, è il degno segnale che il quotidiano ha fatto bene il suo lavoro.
Sembra inverosimile, editorialmente è un caso quasi unico in Italia. Il Sindacato dei giornalisti fa chiudere un giornale. Garantendo un futuro oscuro ai propri assistiti. Il fatto è di dominio pubblico dal 7 marzo scorso, quando il Tribunale di Rimini – per firma del Giudice Rossella Talia – dichiara fallita Edizioni delle Romagne Srl, l’editore de La Voce di Romagna, che da quel giorno non va più in edicola.
La Voce, diffusa nel triangolo geografico che unisce Imola a Ravenna e Cattolica, fondata nel 1998 da Giovanni Celli, ha ospitato, negli anni, firme illustri, da Renato Farina a Nicholas Farrell, da Gianfranco Morra a Gianfranco Angelucci e Giuseppe Ghini. Poteva piacere o attirarsi diversi nemici – come tutti i quotidiani fatti per bene, fatti con passione, senza pregiudizi. Quest’anno il quotidiano, che ha avuto, quanto meno, il ruolo di diversificare e ‘muovere’ l’informazione romagnola, sostenuto da una scrittura arguta e da inchieste accattivanti e cattive, avrebbe compiuto vent’anni di attività. Puntellato da diverse redazioni, tra Rimini, San Marino, Forlì, Cesena e Faenza e da un nutrito numero di giornalisti, La Voce ha subito, un po’ come tutti i quotidiani, una crisi profonda. Culminata, nel 2015, con il fallimento dell’Editrice La Voce, la messa in cassa integrazione di diversi giornalisti e l’affitto d’azienda a Edizioni delle Romagne per garantire la continuità al quotidiano. Dopo quasi due anni di attività, senza contributo pubblico, i problemi economici si sono dilatati. Ma i giornalisti – ormai ridotti a una decina – hanno deciso di continuare a lavorare, schiena dritta e sguardo lungo, sperando nella possibilità – che stava concretizzandosi – di un compratore in grado di mettere in acque più sicure il giornale. E qui ci si è messo, è assurdo ma è così, il Sindacato dell’Ordine dei Giornalisti nella figura della Casagit (Cassa Autonoma di Assistenza Integrativa dei Giornalisti Italiani). La pretesa – legale quanto irrisoria a fronte delle pretese economiche del corpo redazionale residuo – di 30.550,08 euro ha mandato a gambe all’aria le speranze dei giornalisti e l’uscita giornaliera de La Voce di Romagna. Come si sa – tanto per acutizzare il paradosso – la Casagit aiuta i giornalisti quando hanno bisogno del dottore, consente “un concorso alle spese mediche sull’intero ventaglio delle prestazioni sanitarie”. Insomma, se hai bisogno del dentista e fai parte della casta dei giornalisti, arriva la Casagit. Solo che adesso chi li cura più i giornalisti – e le rispettive famiglie – che sono precipitati per strada grazie alla Casagit? Vivi complimenti ai Sindacati e agli organi di previdenza sociale e agli Ordini professionali, provvidenziali solo per alcuni e mortiferi per altri. La battaglia giornalistica contro ogni ‘casta’ e ogni ‘ordine’ deve partire dal proprio interno – dalla soppressione dell’Ordine dei giornalisti. Soltanto così, liberi da tasse, da vincoli e dalla ‘provvidenza’ sindacale, i giornalisti possono essere davvero liberi. Per altro, il caustico silenzio che ha ammantato la morte de La Voce di Romagna, da parte di tutti, è il degno segnale che il quotidiano ha fatto bene il suo lavoro. Nessun amico, tanti nemici. Che si sono fatti il selfie di fianco a un corpo agonizzante. Applausi, giù il sipario.
Davide Brullo
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