“Se il sindacato dei giornalisti fa chiudere un giornale”. Davide Brullo ci scrive

“Se il sindacato dei giornalisti fa chiudere un giornale”. Davide Brullo ci scrive

Sulla fine della Voce di Romagna si apre, inevitabilmente, il confronto. Dopo l'opinione di Franco Fregni, quella della firma culturale della testata.

Sembra inverosimile, editorialmente è un caso quasi unico in Italia. E il caustico silenzio che ha ammantato la morte de La Voce di Romagna, da parte di tutti, è il degno segnale che il quotidiano ha fatto bene il suo lavoro.

Sembra inverosimile, editorialmente è un caso quasi unico in Italia. Il Sindacato dei giornalisti fa chiudere un giornale. Garantendo un futuro oscuro ai propri assistiti. Il fatto è di dominio pubblico dal 7 marzo scorso, quando il Tribunale di Rimini – per firma del Giudice Rossella Talia – dichiara fallita Edizioni delle Romagne Srl, l’editore de La Voce di Romagna, che da quel giorno non va più in edicola.
La Voce, diffusa nel triangolo geografico che unisce Imola a Ravenna e Cattolica, fondata nel 1998 da Giovanni Celli, ha ospitato, negli anni, firme illustri, da Renato Farina a Nicholas Farrell, da Gianfranco Morra a Gianfranco Angelucci e Giuseppe Ghini. Poteva piacere o attirarsi diversi nemici – come tutti i quotidiani fatti per bene, fatti con passione, senza pregiudizi. Quest’anno il quotidiano, che ha avuto, quanto meno, il ruolo di diversificare e ‘muovere’ l’informazione romagnola, sostenuto da una scrittura arguta e da inchieste accattivanti e cattive, avrebbe compiuto vent’anni di attività. Puntellato da diverse redazioni, tra Rimini, San Marino, Forlì, Cesena e Faenza e da un nutrito numero di giornalisti, La Voce ha subito, un po’ come tutti i quotidiani, una crisi profonda. Culminata, nel 2015, con il fallimento dell’Editrice La Voce, la messa in cassa integrazione di diversi giornalisti e l’affitto d’azienda a Edizioni delle Romagne per garantire la continuità al quotidiano. Dopo quasi due anni di attività, senza contributo pubblico, i problemi economici si sono dilatati. Ma i giornalisti – ormai ridotti a una decina – hanno deciso di continuare a lavorare, schiena dritta e sguardo lungo, sperando nella possibilità – che stava concretizzandosi – di un compratore in grado di mettere in acque più sicure il giornale. E qui ci si è messo, è assurdo ma è così, il Sindacato dell’Ordine dei Giornalisti nella figura della Casagit (Cassa Autonoma di Assistenza Integrativa dei Giornalisti Italiani). La pretesa – legale quanto irrisoria a fronte delle pretese economiche del corpo redazionale residuo – di 30.550,08 euro ha mandato a gambe all’aria le speranze dei giornalisti e l’uscita giornaliera de La Voce di Romagna. Come si sa – tanto per acutizzare il paradosso – la Casagit aiuta i giornalisti quando hanno bisogno del dottore, consente “un concorso alle spese mediche sull’intero ventaglio delle prestazioni sanitarie”. Insomma, se hai bisogno del dentista e fai parte della casta dei giornalisti, arriva la Casagit. Solo che adesso chi li cura più i giornalisti – e le rispettive famiglie – che sono precipitati per strada grazie alla Casagit? Vivi complimenti ai Sindacati e agli organi di previdenza sociale e agli Ordini professionali, provvidenziali solo per alcuni e mortiferi per altri. La battaglia giornalistica contro ogni ‘casta’ e ogni ‘ordine’ deve partire dal proprio interno – dalla soppressione dell’Ordine dei giornalisti. Soltanto così, liberi da tasse, da vincoli e dalla ‘provvidenza’ sindacale, i giornalisti possono essere davvero liberi. Per altro, il caustico silenzio che ha ammantato la morte de La Voce di Romagna, da parte di tutti, è il degno segnale che il quotidiano ha fatto bene il suo lavoro. Nessun amico, tanti nemici. Che si sono fatti il selfie di fianco a un corpo agonizzante. Applausi, giù il sipario.

Davide Brullo

COMMENTI

DISQUS: 0