Aiuto! La sanità è in “burn out”

Aiuto! La sanità è in “burn out”

I nostri amministratori ci ripetono da sempre che la sanità emiliano romagnola è tra le migliori d’Italia. Un giudizio in parte condiviso anche dall’opinione pubblica. Ma in questo autunno, dopo quasi tre anni di emergenza Covid, si alzano forti critiche e polemiche. L’impressione è che un sistema pubblico di buon livello stia attraversando fortissime tensioni e che il punto di rottura sia vicino.

Il lessico medico, e di conseguenza la lingua italiana, attingono sempre nuove parole e nuovi modi di dire dal mondo anglosassone. Recentemente abbiamo sentito parlare di sindrome da “burn out”. Un termine utilizzato per descrivere una situazione logorante per un lavoratore.
L’hanno provata in tanti: è quella sensazione di non farcela più, quando lo stress, le preoccupazioni, le nuove incombenze portano un imprenditore, un manager, un dirigente, un dipendente a sentirsi insoddisfatto e incapace di cambiare la propria condizione. Ci si sente “bruciati”, “finiti”. “Bruciato” è la traduzione letterale di “burn out”.

La sanità emiliano romagnola – da sempre fiore all’occhiello della nostra amministrazione regionale e anche motivo d’orgoglio per noi cittadini – sta vivendo una situazione simile. Per una serie di cause che andremo ad analizzare, molti operatori del settore, a qualsiasi livello, sentono una pressione enorme e si sentono “bruciati” e gli stessi utenti – a parte i casi eclatanti di malasanità che sono eccezioni – non sono pienamente soddisfatti.
E’ cose se un intero organismo – quello della nostra sanità pubblica – provasse i sintomi della sindrome da “burn out”. Come è potuto succedere?

Partiamo dai numeri. Ogni anno la Regione Emilia Romagna destina oltre nove miliardi di euro alla sanità. Si tratta, circa, dell’80% dell’importo complessivo delle risorse stanziate nel bilancio regionale. Non sono cifre di poco conto.
Di questi 9 miliardi quasi 2 vengono destinati all’Ausl Romagna che, dopo il recente accorpamento tra le diverse Ausl del nostro territorio, è diventata una delle più importanti della regione.
Se si vuol capire quanto spende ogni anno una Regione per la sanità dei cittadini si entra in un dedalo di informazioni difficili da decifrare con esattezza. Diciamo che i valori variano da Regione a Regione e la nostra sanità regionale è situata in una situazione mediana con circa 2000 euro per cittadino e la nostra amministrazione regionale mostra conti formalmente in ordine. La Regione Emilia Romagna si è distinta invece nelle spese per affrontare l’emergenza Covid, superando percentualmente le altre Regioni.

Nel dibattito pubblico nazionale l’immagine che offre la nostra sanità regionale è positiva. Tantissime volte abbiamo sentito amministratori, ma anche commentatori, spiegare che la sanità in Emilia Romagna, come in altre regioni d’Italia prese ad esempio (vedi Veneto e Lombardia) funziona e funziona bene. Il che è, in gran parte, vero.
La nostra sanità offre un buon servizio diffuso, con un accesso che mette alla pari tutti i cittadini ai servizi offerti, grazie anche alla forte sensibilità civica che ha sempre contraddistinto la nostra regione. Inoltre molti residenti di altre regioni vengono (il fenomeno è stato rallentato dal Covid) in Emilia Romagna per cercare cure che ritengono migliori rispetto ai luoghi d’origine.

Eppure, nonostante una serie di dati positivi, sempre più spesso si sentono lamentele sul servizio sanitario ed emergono problemi per gli utenti (in particolare quello dei servizi di Pronto Soccorso e delle liste d’attesa per le visite specialistiche) e per degli operatori.

Quindi abbiamo una situazione paradossale: da una parte si parla di un sistema sanitario regionale ottimo in un paese come l’Italia che è spesso preso come modello internazionale, dall’altra non mancano problemi che emergono da utenti e operatori. Qual è la realtà?

La realtà è quella di un sistema “sotto pressione”, una pressione molto forte che è emersa durante questi anni di pandemia, ma che non è stata provocata dalla pandemia. E’ come se il Covid avesse fatto venire a galla problemi che esistevano sottotraccia da tempo.

Bruciati. In tutti i nostri ospedali, e lo sanno bene medici e infermieri, si riscontrano attualmente problemi enormi che spesso sono stati superati grazie all’impegno di gran parte degli operatori. Ma tutto questo non basta più e i problemi si sommano.
Le ondate di casi Covid che si sono susseguite in questi anni hanno avuto caratteristiche e conseguenze diverse.
La prima ondata, quella dell’inverno-primavera 2020 è stata molto intensa e ha messo il sistema di fronte a nuovi problemi: in sostanza bisognava capire come muoversi contro un nuovo avversario di cui si sapeva poco o nulla. E’ stato un periodo di impegno straordinario – alcuni operatori hanno lavorato più di 300 ore al mese – e questo impegno di infermieri e medici è diventato proverbiale ed è stato riconosciuto dalla pubblica opinione, ma non è stato riconosciuto a sufficienza a livello salariale. In quei mesi erano tutti “angeli”, alle prese con un morbo sconosciuto, pronti a sacrificarsi per tutti noi.
A questa prima ondata ha fatto seguito per la popolazione un periodo estivo più tranquillo che però non è stato tale nel servizio sanitario. Il primo impatto del Covid ha infatti costretto a trascurare le terapie “normali” e i mesi estivi sono stati dedicati a cercare di recuperare cure e visite sospese. Poi sono arrivate le altre ondate (Ottobre 2020, febbraio 2021, inizio 2022, giugno 2022) che hanno creato ulteriori emergenze, ulteriori sacrifici e ulteriori problemi (tra cui la ridotta valorizzazione dell’impegno profuso). In sostanza gli operatori non hanno mai potuto riposare, come in uno stato di guerra che si protrae per anni. Ed è cambiato anche il sentimento dell’opinione pubblica. I nostri operatori non erano più “angeli”, ma crescevano le critiche e le polemiche. Risultato: aumento delle richieste di trasferimento a reparti dove non fosse previsto il contatto con i problemi legati al Covid. Un problema che non è ancora risolto.

Il grande addio. In questa situazione molti operatori hanno scelto di chiedere il trasferimento soprattutto dalla medicina d’urgenza ad altri reparti. I casi classici, emersi anche dalle cronache, sono quelli di medici e infermieri che hanno lasciato i Pronti Soccorso per rivolgersi alla medicina generale, cioè sono diventati medici di base o hanno continuato a fare gli infermieri in altri reparti, in altre strutture o addirittura hanno cambiato lavoro.
Questo fenomeno ha creato il problema attualmente sotto gli occhi di tutti dei Pronti Soccorso, in particolare a Rimini, che è diventato argomento di dibattito pubblico. In questa situazione, stante la difficoltà di reperire “manodopera”, cioè nuovi medici e infermieri, si è data una risposta d’urgenza che ha aggravato la situazione e l’insoddisfazione.
In pratica si è “ordinato” ai vari reparti di fornire personale per i Pronto Soccorso. La tensione è aumentata anche perché la dirigenza dell’Ausl ha intimato ai vari primari di “comandare” i propri medici alla medicina d’urgenza.
E sono venuti a galla tutti i problemi strutturali, come ed esempio quelli della mancanza di posti letto nei reparti internistici rispetto alle esigenze dell’ospedale, con i pazienti che vengono ricoverati, ma in reparti diversi dalla medicina interna (ad esempio chirurgia) realizzando i cosiddetti ricoveri “fuori reparto”, ricoveri extra che vanno ad aggiungersi a quelli già presenti. E si badi bene, se questi pazienti sono assistiti dagli infermieri dei reparti in cui si trovano fisicamente, i medici che si occupano di loro sono sempre quelli della medicina interna: risultato
ancora carichi di lavoro altissimi e altro stress.

La nuova complessità. Un altro problema strutturale a cui non è stata data ancora una risposta adeguata è quello dell’aumentata complessità delle cure. In molti settori medici la ricerca e la possibilità di cure differenti sono aumentate notevolmente in questi ultimi decenni. Per fare un esempio: un tempo avevamo la cura A o la cura B per determinate malattie. La ricerca ci ha regalato altri tipi di cure (C, D, E, F…) e ci propone altre analisi necessarie per comprendere al meglio il disturbo; il tutto si traduce con maggiori possibilità di cura. Ma questa attività di individuazione esatta del disturbo e delle cure più adeguate per risolvere i problemi, implica una maggiore attività. La conseguenza logica è che servirebbero nuove risorse e ulteriore personale per fare fronte a questa complessità. Gli ultimi anni, e parliamo anche dell’epoca pre-Covid, sono stati invece caratterizzati dal taglio di risorse con conseguente ulteriore pressione sul personale sanitario che si vede costretto a lavorare di più con le stesse risorse.

L’Ausl unica. Un altro tema che impatta sulle difficoltà dei nostri ospedali è la creazione di una Ausl unica. Un processo difficile che ha incontrato tante resistenze. In sostanza negli ospedali questa trasformazione è stata vissuta con conflittualità e non funziona al meglio perché questa conflittualità persiste.
Ci sono state delle singole parti del progetto che hanno funzionato bene, come la creazione di un laboratorio unico per le analisi a Pievesestina di Cesena che fornisce un servizio migliore ai vari ospedali. Ma per altri reparti il meccanismo non ha funzionato.
L’Ausl unica ha tentato di creare una rete dove venissero sviluppati centri d’eccellenza. Un esempio: un determinato disturbo veniva curato in tutti gli ospedali romagnoli, poi si è deciso, nell’ottica dall’Ausl Romagna, di potenziare un centro rispetto agli altri.
Il problema è che in alcuni casi questa decisione era supportato da una serie di dati oggettivi, ma nella maggioranza di situazioni tutto è stato deciso utilizzando il parametro della “vocazione” che sottintendeva logiche politiche o clientelari. In mancanza di parametri oggettivi a molti risultava difficile comprendere perché Forlì, Ravenna o Rimini (in rigoroso ordine alfabetico) avessero una particolare “vocazione” nella cura di una malattia. In realtà a questa operazione era sottintesa una logica di risparmio, che nelle aziende non sanitarie viene chiamata “sinergia”. Una bella parola che significa solo una cosa: quello che prima facevano in tanti lo farà uno solo. E se non esiste un parametro oggettivo per dire chi è il più qualificato per fare quel lavoro, la vicenda diventa un casino…
Inoltre, a giudizio di molti medici riminesi, in questo “processo” la sanità locale della nostra provincia è stata svuotata, con molti medici utilizzati per chiudere i buchi in altre realtà. E la stessa cosa dicono i colleghi ravennati e forlivesi.
Il dato di fatto è che per anni abbiamo avuto primari ad “interim” o “facenti funzioni”. Basti pensare che al termine del mandato della direzione precedente, alla conclusione di questo progetto, una settantina di posizioni di primario erano vuote, con insoddisfazioni diffuse e ben poche soddisfazioni.

Prima parziale conclusione: un sistema complesso – la nostra sanità pubblica – da tempo è stato gestito in maniera semplicistica e con vecchi parametri burocratici, senza tener conto delle novità tecnologiche, di analisi e possibilità di cure che ci ha offerto il settore medico in questi anni.
Inoltre il periodo pre-Covid è stato caratterizzato da un generale taglio delle risorse (i famosi problemi di bilancio che abbiamo sentito citare per anni). In questa situazione è planato il famoso “cigno nero” del Covid che ha portato alla luce ciò che non funzionava. Il risultato è che ora il sistema nel complesso soffre di sindrome da “burn out” ed è sul punto di rottura.

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