Antonio Paolucci e Rimini

Antonio Paolucci e Rimini

Si è spento Antonio Paolucci, raffinato e dottissimo storico dell'arte, capace di incantare i suoi ascoltatori e lettori. Era nato a Rimini, che gli conferì il Sigismondo d'oro, e il Comune di San Leo la cittadinanza onoraria, il 29 settembre 1939. Quel che è stato e che si trova scritto nel suo chilometrico curriculum e nella voluminosa bibliografia può essere facilmente rintracciato e tutti lo stanno ricordando. Noi riproponiamo un suo magistrale articolo che uscì per la prima volta sulle pagine dell'Osservatore Romano, dedicato al Tempio Malatestiano. In esso si trovano riunite tutte le caratteristiche dell'uomo e dello studioso, la sua capacità di affascinare parlando d'arte e il suo amore per Rimini e i beni culturali che esprime. Eccone un passaggio: "Se è vero che la storia dell’arte altro non è se non la storia che si fa figura e attraverso le figure ci apre la mente e ci tocca il cuore, allora il Tempio Malatestiano è un capolavoro con pochi e forse nessun confronto in Italia".

Questo articolo venne pubblicato in origine su «L’Osservatore Romano» in data 6 marzo 2010 col titolo “La mirabile anomalia. Il Tempio Malatestiano di Rimini è un “unicum” nel panorama artistico europeo”, poi in Antonio Paolucci (a cura di), “Il Tempio Malatestiano a Rimini”, “Mirabilia Italiae”, 16, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2010, e in Antonio Paolucci, “Pensieri d’arte. Dentro e fuori i Musei Vaticani”, a cura di Paola Di Giammaria, Libreria Editrice Vaticana, 2012.

La mirabile anomalia. Il Tempio Malatestiano di Rimini è un “unicum” nel panorama artistico europeo

Una chiesa che non sembra una chiesa ma piuttosto uno spazio esoterico, un luogo filosofico molto antico dedicato a culti precristiani o forse addirittura acristiani. Nihil antiquius, non si può immaginare nulla di più antico, scriveva il Valturio. Non è una chiesa cattolica ma piuttosto un edificio pagano destinato a riti idolatrici, affermava, non senza qualche ragione, Pio II Piccolomini. Una cattedrale che ha obliato e sepolto il titolo patronale di San Francesco per assumere quello laico di Tempio insieme al nome di un sanguinario scomunicato tiranno, è difficile da immaginare. Non esiste nulla di paragonabile in Italia e in Europa.
Nel panorama universale delle arti, nel cuore del secolo che i manuali chiamano “del Rinascimento”, il Tempio Malatestiano di Rimini è una mirabile anomalia. Ed è anche un insieme altrettanto mirabile di contraddizioni.
Che cosa è la cattedrale dei Riminesi? È davvero il “revival” dell’Antico che l’umanista Basinio al servizio del principe, descrive con appassionata veemenza?
Nel suo latino duro e scintillante, bisogna riconoscere che i versi di Basinio hanno una capacità straordinaria di suggestione simbolica. Quel mirabile Templum che un duce vittorioso votum dum solvit (…) marmore de pario construxit trasfigura la chiesa di Sigismondo nel monumento votivo voluto da un eroe di Tito Livio o da un imperatore di Svetonio.
È veramente questo, celebrato dall’umanista encomiasta, il Tempio Malatestiano? È la gloria di Roma antica riemersa come per miracolo in vista del Mare Adriatico? Sembrerebbe di sì se ci mettiamo di fronte all’edificio, se percorriamo la sequenza degli archi e delle tombe dislocate sui fianchi. È difficile immaginare qualcosa di più “romano” del portale di ingresso e dei sepolcri degli umanisti e dei sapienti.
Eppure se entriamo all’interno vediamo il Rinascimento virare in chiave feudale e cortese, vediamo “l’ornata prospettiva” raccomandata da Leon Battista Alberti declinare in oltranza decorativa e cromatica, diventare iperbolica imagerie feudale da corte del gotico internazionale nel moltiplicarsi degli scudi, dei blasoni, dei cimieri, dei mimetici addobbi di stoffe operate, delle insegne araldiche, degli emblemi, degli animali simbolici. Mentre Agostino Di Duccio piega il linearismo della tradizione toscana e i virtuosistici effetti “schiacciati” appresi alla scuola di Donatello nel più stupefacente risultato “liberty” avanti lettera che mai si sia visto nell’Italia del Quattrocento.
Tutto questo si spiega e si può capire. Sul fianco destro della chiesa, di fronte alla solenne teoria delle arche dei sapienti, Sigismondo Malatesta doveva sentirsi come uno Scipione che medita in silenzio sulla brevità della vita e sulla lunga durata della fama. All’interno, nella vasta aula scintillante d’oro e d’azzurro, fra lo splendore dei marmi policromi, gli stemmi, i monogrammi, le imprese, egli voleva essere quello che era e che tutti erano tenuti a riconoscere: Sigismondo Malatesta autocrate di Rimini e delle Romagne, vicario del Papa, capitano di Santa Chiesa, cavaliere del Sacro Romano Impero, generale potente e vittorioso.
Ci sono, nel Tempio, alcune chiavi per capire la personalità del committente e insieme lo spirito che ha animato la costruzione e la decorazione dell’edificio. Il signore di Rimini era un uomo colto. “Era molto vigoroso nel corpo e nella mente, e dotato di grande eloquenza e abilità militare. Conosceva le storie e aveva non poco dimestichezza con la filosofia”. Questo scrive di lui Pio II Piccolomini. L’apprezzamento è credibile sia perché si colloca all’interno del celebre ritratto “nero” nel quale il Papa accusa il suo nemico dei più efferati delitti, dall’omicidio allo stupro, dalla rapina all’incesto, all’idolatria, sia perché (ragione ancora più valida) viene da uno dei più grandi intellettuali del secolo.
Quindi Sigismondo che conosceva la storia, che nella filosofia era più che un dilettante, che si riteneva discendente della stirpe degli Scipioni, che era un signore di una nobile città romana, deve essere entrato a poco a poco nel progetto (e nel mito) del “novello Augusto” capitano vittorioso, legislatore e fondatore.
Di questa immagine che di se stesso e della sua città aveva il tiranno Malatesta, abbiamo splendida conferma nel bassorilievo celebre di Agostino di Duccio scolpito nella Cappella dei Pianeti. Fra tutti i “ritratti” di Rimini consegnatici dalla storia, questa restituzione della città a volo d’uccello (restituzione che è anche interpretazione simbolica) è la più affascinante.
Sovrastata da un enorme granchio, segno zodiacale di Sigismondo e quindi sottomessa alla sua signoria, la città di Rimini si distende fra il mare, il fiume e le colline sullo sfondo. Come il granchio è una riproduzione naturalistica della specie più comune nell’Adriatico, così la città si conforma in una struttura altrettanto familiare. Si riconoscono il castello, formidabile macchina da guerra dei Malatesta, la fontana di piazza, il Palazzo Comunale, il Borgo di San Giuliano. Ci sono, sulla sinistra, edifici timpanati e preceduti da colonne simili al Pantheon, edifici mai esistiti nella realtà e tuttavia significativi delle intenzioni dell’artista che vuole mettere in speciale evidenza i due monumenti romani “veri”: L’Arco di Augusto dove termina la Via Flaminia e il Ponte dell’Imperatore Tiberio dove ha inizio la Via Emilia. Collocata al punto di congiunzione delle due grandi strade consolari, significata da monumenti illustri (l’arco e il ponte) che figurano nel sigillo dei Malatesta, la Rimini rappresentata da Agostino di Duccio e vagheggiata da Sigismondo si presenta a noi orgogliosa della sua storia e del suo destino “romani”.
Il rilievo di Agostino di Duccio nella Cappella dei Pianeti parla dunque di un Malatesta legislatore e fondatore, “novello Augusto”, araldo di una rinnovata romanità, testimone dei “Tempi che ritornano”. Ciò nonostante Sigismondo era un uomo del suo tempo e la cultura artistica da lui voluta e rappresentata porta con sé le contraddizioni dell’epoca e del luogo. Lo “strappo” umanistico che mette Rimini, per una breve manciata di anni, vertiginosamente all’avanguardia nel panorama delle corti padane e centro italiane, poteva convivere con le nostalgie gotiche, con l’oltranza decorativa, con i modelli architettonici “cortesi” e pittoreschi che caratterizzano il castello.
Il sogno di Sigismondo non avrebbe mai preso forma se non avesse incontrato Leon Battista Alberti. Più che l’incontro fra un committente e un architetto, fu l’incontro fra due utopie. Mai più nella sua vita l’Alberti avrà occasione di incontrare un “cliente” altrettanto disposto a dar forma alle sue idee del costruito.
Se Sigismondo vuole fama eterna il Tempio sarà il luogo della sua gloria. Credo sia stato facile, per l’architetto, convincere di ciò il signore di Rimini. “Non esiste – scrive infatti l’Alberti nel De re aedificatoria – alcuna opera architettonica che richieda maggiore impegno, sollecitudine, solerzia e accuratezza di quanta ne occorra per costruire e ornare il Tempio” e non “c’è vanto maggiore e più nobile che possa avere una città”. L’edificio dovrà essere semplice al suo interno perché i “sommi dei gradiscono assai la purezza e la semplicità del colore allo stesso modo che quelle della vita”. Ne consegue che “all’interno del Tempio – è ancora l’Alberti a parlare – piuttosto che affreschi sulle pareti, sono preferibili pitture su tavola, anzi mi piacerebbero ancora più di queste dei rilievi”. E infine “voglio inoltre raccomandare che sia sulle pareti, sia nel pavimento del Tempio tutto ispiri filosofica saggezza”. Tutte queste cose si possono realizzare – avrà detto Leon Battista Alberti a Sigismondo – lavorando sul vetusto San Francesco secondo il criterio di “addossare una parete a un’altra come una pelliccia infilata sopra un vestito” (L’Architettura, VI, cap. XII, p. 514). Accade così che nel giro di pochi anni il Tempio nuovo si innesta sulla crisalide dell’antico, lo sopraffà e lo consuma, assumendo le forme che conosciamo. Forme che si ispirano alle teorie albertiane. E infatti non ci sono affreschi dentro l’aula del Tempio e neppure tavole dipinte ma rilievi, i melodiosi sinuosi “schiacciati” di Agostino di Duccio. Tutto, all’interno, è ispirato a filosofica saggezza secondo quella idea di sapienza platonizzante e sincretista, un po’ cristiana e un po’ esoterica che albergava nei circoli umanisti dell’epoca. La scienza astrologica occupa la Cappella dei Pianeti. Nella Cappella delle Arti Liberali domina la Teosofia greca che rappresentazioni delle Arti e delle Scienze esprimono. Nella Cappella detta degli Antenati la teologia ebraico cristiana racconta il tempo dell’Attesa, la prefigurazione di Cristo e il mistero del Verbo Incarnato. La mistica del Sole Invitto è significata nella Cappella di Sigismondo che del Sole dux et moderator luminum reliquiorum è specchio e figura.
Che la paternità del progetto iconografico sia del Malatesta stesso come dichiara il Valturio o – come è più probabile – dei suoi intellettuali di corte, è meno importante. Più importante è sottolineare come sia stato rispettato l’invito di Leon Battista Alberti a fare dello spazio sacro un luogo di filosofica meditazione. Il motto sapienziale, tratto dall’Ecclesiaste, che compare un po’ dappertutto all’interno del Tempio (tempus loquendi tempus tacendi) è significativo di una idea di religione depurata da esteriorità e superstizioni, contemplativa e silenziosa: la religione degli umanisti.
È stato detto tante volte che Leon Battista Alberti, a Rimini come altrove, non svolse funzioni di architetto di cantiere, demandando l’esecutività concreta a Matteo de’ Pasti, suo arredatore, e il decoro interno alla squadra di lapicidi guidati dal geniale Agostino di Duccio. È perfettamente vero ma in ciò consiste, a mio giudizio, il fascino del Tempio Malatestiano.
Nel fatto ciò che il grande progettista si sia limitato a dare l’idea, ma che poi l’”idea”, affidata a maestranze diverse per provenienza e talenti, nel clima di serra dell’umanesimo riminese di metà Quattrocento, all’ombra di un signore utopista e megalomane, sia cresciuta autonomamente su se stessa diventando quella “cosa” mirabilmente contraddittoria che conosciamo.
“Definiremo la bellezza – scriveva l’Alberti nel suo trattato – come l’armonia fra tutte le membra in un complesso di cui fanno parte, fondata su una legge precisa in modo che non si possa aggiungere o togliere o cambiare nulla, se non in peggio”. Se noi osserviamo il Tempio Malatestiano alla luce di questa urea massima che sembra discendere dall’Iperuranio di Platone, dovremmo dedurre che il grande architetto ha fallito il suo obiettivo. E infatti non c’è coerenza fra l’interno e l’esterno. La compiuta bellezza dell’idea risulta mutilata dalla mancanza della tribuna e della cupola.
Eppure questo edificio, contraddittorio e non concluso, esercita su di noi un fascino che è direttamente proporzionale alla sua meravigliosa incoerenza. Se è vero che la storia dell’arte altro non è se non la storia che si fa figura e attraverso le figure ci apre la mente e ci tocca il cuore, allora il Tempio Malatestiano è un capolavoro con pochi e forse nessun confronto in Italia.
C’era un signore della guerra che diceva di discendere dagli Scipioni e che voleva emulare le gesta raccontate da Plutarco e da Tito Livio, c’era una città piccola e gloriosa dove ancora splendevano nel sole i venerabili marmi di Roma, c’era una corte di latinisti e di antiquari ma anche di nobili e di soldati dove la cultura umanistica e l’etichetta feudale, l’erudizione classica e la tradizione cavalleresca, il capriccio del despota e il paternalismo del signore, convivevano e felicemente si mescolavano. C’era un ambiente sociale e culturale permeato di tradizioni e di sensibilità gotiche pronto ad accogliere tuttavia con vorace deformante passione le idee, le forme e gli autori dell’umanesimo classico. In questa città e in questo ambiente l’idea “iperurania” dell’Alberti sortì un effetto simile a quello che producevano a Padova, negli stessi anni, su pittori e scultori, gli insegnamenti di Donatello: una ammirazione destinata a diventare di fatto reinterpretazione e reinvenzione.

Antonio Paolucci

6 marzo 2010

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