Una vasca-piscina absidata, intorno alla quale si sviluppava una “Domus” di ben sedici ambienti, dei quali nove pavimentati a mosaico (due in bianco e nero, sette policromi), sculture frammentarie in marmo greco, databili dall’età repubblicana alla prima età imperiale, ceramiche e tanto altro. Tutto questo venne alla luce nel 1964. Beni di immenso valore che in parte andarono distrutti nella costruzione del Mercato coperto tra le vie Castelfidardo e Michele Rosa. E proprio nello stesso sito l’amministrazione comunale ha autorizzato la costruzione della nuova struttura.
Nella terza puntata della storia del Mercato coperto riminese (qui), abbiamo ricordato la lettera che il direttore degli Istituti Culturali del Comune di Rimini, Mario Zuffa, inviò al Sindaco nella quale accusava gravi problemi monumentali derivanti da quella costruzione. Ricordava che “questi ed altri rilievi furono già da me prospettati tempestivamente in una lunga relazione alla S. V. che non si ritenne di prendere in considerazione”. Ebbene, dopo varie ricerche nel carteggio degli Atti d’ufficio della Biblioteca Gambalunga, abbiamo ritrovato quel documento e non solo. La storia è importante e complessa, e per poterla bene comprendere nel suo insieme, necessiterà di pazienza che il lettore attento a questi temi avrà la bontà di usare.
LA RELAZIONE DI MARIO ZUFFA
In una comunicazione indirizzata al Sindaco e al Soprintendente ai Monumenti di Ravenna, avente per oggetto “Progettazione Musei e Mercato Ortofrutticolo centrale”, Mario Zuffa entrava nel merito della questione così esordendo: “Poiché si sa essere intenzione di codesto Comune di accelerare i tempi riguardo alla progettazione di un mercato centrale nella stessa piazza S. Francesco…”, e prevedendo interferenze con l’attività museale in corso, riteneva superato l’accentramento di una struttura simile nel centro storico, a vantaggio di pari attività sparse per il territorio comunale. Inoltre, nell’allora previsione della ricostruzione del complesso ex S. Francesco da adibire a museo, riteneva quella struttura non pertinente rispetto al flusso turistico che avrebbe attratto.
Inoltre, qualora si fosse comunque dovuta realizzare la struttura commerciale, consigliava di non renderla accessibile da Via Dante poiché in vicinanza dell’accesso al Museo; oltre alla “poco decorosa promiscuità tra storia, arte e …generi alimentari…”. Concludeva infine indicando altri suggerimenti logistici e chiedendo spazi, in previsione del nuovo museo, per ospitare i materiali lapidei pesanti. Ma c’era anche altro poiché, si sapeva, che quel sito era ad alta densità archeologica. Infatti già nel 1937 in edifici privati al confine con la via Michele Rosa furono trovati dei mosaici, ed altri frammenti in occasione della costruzione di negozi lungo il perimetro dell’area ex S. Francesco.
L’ARTICOLO DEL RESTO DEL CARLINO DEL 7 OTTOBRE 1964
La storia comincia con un articolo assai lungo ed esaustivo, nella cronaca riminese del Resto del Carlino, su ciò che in quel tempo stava accadendo all’area dell’ex Convento S. Francesco in relazione dell’erigendo nuovo Mercato.
Il quotidiano esordiva affermando che a seguito dei primi lavori, erano insorte molte polemiche e discussioni in Consiglio Comunale e sulla stampa, a motivo dei resti e “reliquie dell’antica età” che stavano emergendo.
I Consiglieri comunali Mario Macina e Benito Lombardi, rivolsero al Sindaco un’interrogazione «per conoscere quali provvedimenti abbiano preso per tutelare il patrimonio storico ed artistico presente in detta zona». E poi entrambi proseguivano con queste testuali parole: «I sottoscritti… si sentono inoltre in obbligo di segnalare come da parte di più studiosi è sostenuto come molto probabile, nell’area del San Francesco, la presenza di resti archeologici dell’epoca romana…».
Ma nel frattanto, si riportava sempre nella cronaca giornalistica, i nostri “eroi del tempo” avevano indirizzato una lettera al Consiglio Superiore delle Antichità e belle Arti a Roma, nella quale denunciavano l’inizio della «costruzione di un Mercato generale coperto nelle vicinanze del Tempio Malatestiano, su area sottoposta a vincolo per la tutela dei monumenti in base alla legge 1° giugno 1939, n. 1089». Proseguivano dichiarando l’inutilità di detta costruzione, data la densità di attività commerciali già esistente nella zona, e in base «ai nuovi metodi di distribuzione delle merci al minuto» che si stavano affermando. Inoltre sottolineavano che l’area era da sempre stata zona di rispetto nei riguardi del monumento, e soprattutto per il fatto che in quel sito sarebbe dovuta risorgere la sede museale e della Pinacoteca cittadina. Facevano quindi presente che tutto ciò avrebbe investito molti «resti archeologici ed opere d’arte di notevole valore», col pericolo – reale – di essere fagocitate o distrutte. Quindi rimarcavano l’eventualità dell’esistenza di pavimentazioni romane, come in seguito effettivamente si accertò. Infine invitavano a istituire un’indagine approfondita sulla modalità in cui è stata svolta la pratica, e un riesame della medesima, chiedendo altresì l’invio di organi ispettivi a Rimini per appurare quello che stava accadendo.
Oltre a menzionare un già avvenuto sopralluogo del 19 settembre precedente del Soprintendente alle Gallerie ed opere d’arte di Bologna, durante il quale aveva appurato lo stato di ciò che era rimasto dell’antico refettorio del Convento, ed in particolare la situazione in cui versava l’affresco cinquecentesco dell’“Ultima Cena”, mal conservato e soggetto a infiltrazioni di acqua e destinato alla rovina. L’articolo si completava con una bella fotografia panoramica della situazione.
IL CONTESTO ARCHEOLOGICO
La storia proseguirà con una lettera datata 8 ottobre 1964 inviata dalla Soprintendenza alle Antichità, e indirizzata all’Ispettore Onorario Mario Zuffa. La missiva, a firma del Soprintendente Gino Vinicio Gentili, con oggetto “Piazza S. Francesco – Strutture romane nel costruendo mercato coperto”, era del seguente tenore.
Si chiedeva di conoscere “con ogni possibile urgenza” notizie relative alle costruzioni di età romana, emerse durante gli scavi in corso per la costruzione del nuovo Mercato. Si citava per questo il predetto articolo apparso sul Resto del Carlino del 7 ottobre 1964, dal titolo “Sorge in una zona archeologica il mercato coperto di Piazza S. Francesco”. Nella missiva si riportava il testo giornalistico inerente alla denuncia di Macina e Lombardi, che così terminava: «…la zona è infatti in pieno centro storico ed a poche centinaia di metri dall’Anfiteatro romano, opera anche questa lasciata nel più completo abbandono. Tanto che invece di venire conservata e valorizzata si permette che su di essa vangano costruite opere in muratura». La lettera si chiudeva con una riserva del Soprintendente di effettuare al più presto un sopralluogo, per dirimere il caso.
Mario Zuffa con la solita tempestività e solerzia che lo distingueva, riscontrava il giorno 15 successivo scrivendo del ritrovamento di un “muro perimetrale di una piscina”. Poi affermava che altri reperti minori, “ceramiche, resti di intonaco, pietra, mattoni e tegole” emergevano nell’area, ma anche laddove si stava scaricando la terra di scavo di risulta, ovvero per “la copertura della Fossa Patara… e greto dell’Ausa…” (sic!); deposito alla portata di tutti, dove ognuno poteva liberamente trovare e prelevare ciò che voleva. Concludeva infine che, riguardo l’Anfiteatro, l’esecuzione delle opere in muratura era “cosa vecchia” (ma tuttora attuale ed irrisolta) risalente agli anni ’53 o ’54.
Ricordiamo inoltre che in varie corrispondenze, emergeva anche la preoccupazione per i resti archeologici lapidei accatastati piuttosto confusamente nella zona, e per il fornice superstite della Porta Montanara poi “genialmente” e per lungo tempo oltrepassata al suo centro da un muro (!). La fervida fantasia nei riguardi dei nostri monumenti, ha radici profonde, e si tramanda “orgogliosamente” nel tempo da amministratore ad amministratore.
I RITROVAMENTI
Ma in realtà cosa fu trovato nell’area del Mercato? La risposta è contenuta in una relazione degli scavi effettuati dal 22 ottobre 1964 al 24 Febbraio 1965 a cura della dott.ssa Giuliana Riccioni, trasmessa in data 18 aprile 1965 a Mario Zuffa e corredata, tra l’altro, anche di una planimetria contenente la posizione dettagliata dei ritrovamenti.
Fatta salva la premessa, relativa al sopralluogo del Soprintendente che aveva impartito gli ordini del caso, arriviamo al dunque.
Lo scavo stava rendendo notevoli risultati documentati da rilievi grafici e fotografici, questi ultimi trovati sempre in Biblioteca Gambalunga, e di cui ve ne mostriamo orgogliosamente alcuni, dopo la predetta planimetria tanto da potere comprendere la situazione nel suo insieme.
La fotografia “1” mostra una panoramica dell’area “ante scavi” come si presentava allora, ma soprattutto cosa si sarebbe potuto realizzare nella stessa a quel tempo. Nella Fotografia “2” risalta la vasca-piscina absidata, intorno alla quale si sviluppava una “Domus” di ben 16 ambienti. La fotografia “3” riporta nel particolare alcuni ambienti intorno alla stessa vasca-piscina.
Ebbene tutto ciò, che per il motivo di cui in seguito daremo conto, fu presumibilmente distrutto poiché interferente con il vano seminterrato dell’attuale pescheria; consta però che i mosaici furono recuperati e conservati in Museo. Vi è da aggiungere che nella restante area, con tutta probabilità, furono effettuati scavi puntiformi e isolati solo laddove occorreva realizzare i plinti di fondazione, perché il fabbricato esistente ha un sistema fondale di tale progettazione.
UN RITROVAMENTO ECCELLENTE, SIMILE A QUELLO CHE PORTÒ ALLA LUCE LA “DOMUS DEL CHIRURGO”
Ed ora arriviamo alla relazione.
Già all’esigua profondità di poco più di un metro erano emersi mosaici, ma lo scavo era arrivato a sondare profondità maggiori fino ad oltre tre metri. Ma, a giudicare dalla planimetria dello stato di consistenza, e dalle fotografie, tale fondo scavo era stato raggiunto – come accennato – solo nella parte dell’attuale pescheria, al di sotto della quale vi è un piano seminterrato; per la restante attigua area, a parte il sedime dei plinti di fondazione, pare che non si sia proceduto con altri scavi e conseguenti indagini. Poi il resoconto entrava finalmente nel dettaglio riportando le scoperte, che vogliamo letteralmente riportare data la loro importanza, consistenti in:
1. in posizione centrale all’area i resti di “una grande piscina rettangolare con elemento absidato lungo uno dei lati lunghi”, del tipo di quella trovata in via Melozzo da Forlì nel 2021 (qui), di importanti dimensioni: “lung. m. 9,70 x larghezza (in corrispondenza dell’abside m. 5,10)”;
2. L’esistenza di ben 16 ambienti circostanti la piscina, “dei quali 9 pavimentati a mosaico. I mosaici, in gran parte geometrici, due in bianco e nero, sette policromi; i primi due si riferiscono alla prima età imperiale, gli altri risalgono al IV secolo d.C. e indicano l’ultima attività edificatoria in quest’area”;
3. messa in luce dei larghi resti di una precedente fase edilizia riferibile ad epoca tardo-repubblicana e proto-imperiale (porzione di pavimento ad opus signinum a losanghe e resti di pavimentazione a cubetti di terracotta, ad esempio nel vano H.”);
4. “messa in luce di piccole vasche, pavimentate a “spina di pesce” al di sotto dello strato dei mosaici del IV sec. d.C.”;
5. “ricupero di numerose sculture frammentarie in marmo greco, databili dall’età repubblicana alla prima età imperiale, riadoperate nella costruzione dei muri del IV secolo d. C. del vano H”;
6. “ritrovamento di abbondante e vario materiale minuto, con particolare riguardo alla ceramica a vernice nera (campana) e dipinta presente negli strati profondi da m. 2 a m. 3,50, entro lo strato di argilla alluvionale in quasi tutti gli ambienti della domus scavata”;
7. rilevamento e ricupero di numerose tombe “alla cappuccina” o “a cassetta” formate da embrici e coppi, impostate sul piano dei pavimenti musivi tardo-imperiali e riferibili ad età barbarica”.
Tutto ciò, concludeva la relazione, “per assicurare agli studi archeologici… atte a ricostruire le vicende dell’importante centro di Ariminum”.
In sostanza si trattava di un importante ritrovamento molto simile, seppur minore, a quello della Domus del Chirurgo di Piazza Ferrari.
L’EPILOGO DELLA VICENDA
Il Soprintendente alle Antichità dell’Emilia Romagna in data 9 gennaio 1965 scriveva al Ministero della Pubblica Istruzione e a vari Enti competenti, per relazionare circa i risultati degli scavi eseguiti in quel sito, e per quanto esposto dai Macina e Lombardi, e precisamente in ordine ai due rilievi:
Problema urbanistico;
Resti archeologici e monumentali.
Sul primo punto, abbastanza ovviamente, si dichiara l’incompetenza dell’Ufficio interpellato. Sul secondo invece si entrava nel dunque, trascrivendo la relazione della dottoressa Riccioni che aveva condotto gli scavi. Il resoconto infine terminava con il seguente assunto: «…finora non si sono mostrati (i ritrovamenti) di tale importanza da imporre la conservazione in situ,…» (sic!).
Nonostante i resti di una domus di tali caratteristiche, la stratigrafia storica e il materiale trovato, non fu ritenuto di musealizzare il sito archeologico per cui tutto sommato si ritenne che avesse un valore prossimo allo zero. E, forse, come già accennato, nella parte dell’immobile privo del vano seminterrato non furono neppure eseguite indagini approfondite.
I lavori quindi proseguirono ostinatamente, come peraltro accadrà prossimamente, senza porsi alcun dubbio; e se da una parte trionfò la dimostrazione di autoreferenzialità, di forza e ostentazione del potere, un mostrare i muscoli insomma, nonostante le molte autorevoli voci discordi, dall’altra trionfò l’insensibilità verso il nostro patrimonio culturale e una sconfitta che tuttora si perpetua “sic et simpliciter”.
Ma a distanza questo episodio, immagino sconosciuto a molti, me compreso, dopo oltre 50 anni si è ripetuto lo stesso triste copione con la sciagurata manomissione di Piazza Malatesta che fu pesantemente cementificata e ridotta ad una landa desolata e spoglia, che trasuda tristezza solo a percorrerla; ma perché? Anche in questo caso, nonostante i notevoli e importanti ritrovamenti di età romana e medievale, si sancì che nulla era tanto importante da musealizzare il contesto. Questa volta però, se ricordate bene, fu a causa del mancato ritrovamento della “tomba di Dracula” (sic!), così almeno qualcuno disse.
È una sorta di tradizione nera riminese, importantissima città romana poi rinascimentale ricca di spunti storici altamente spendibili a fini culturali, dove però, a differenza di altre, ogni ritrovamento guarda caso e chissà perché non è mai importante tale da essere posto in risalto ed oggetto di un progetto culturale stabile. E dove ancora non si comprende il valore di quell’area vocata alla fruizione pubblica e culturale, meritevole di ulteriori indagini ed approfondimenti, e che assieme al restauro degli ultimi resti del Convento potrebbe riservare altre piacevoli e clamorose sorprese.
Infine, dopo avere raccontato la storia di questo edificio commerciale e l’area in cui sussiste, mi pongo alcune ingenue domande. La prima è come si possa continuare a negare a quell’area valore storico-archeologico, e i resti del Convento alla fruizione della cittadinanza, come se nulla avessero insegnato gli errori passati, e sebbene inoltre esista una valida alternativa allo spostamento del Mercato coperto. La seconda è come tutto questo sia possibile e concepibile, in una città che ha l’ambizione di divenire Capitale della Cultura.
Perché ammesso che i nostri amministratori conoscano la città e la sua storia, questo sarebbe stato ridondantemente bastevole per generare qualche valido spunto per una riflessione circa il da farsi, diversamente da ciò che avverrà.
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