La valle del Rubicone e il suo ruolo strategico

La valle del Rubicone e il suo ruolo strategico

A partire dalla sfida enologica tra San Clemente e Montepulciano, con la località toscana che ha avuto la meglio aggiudicandosi il riconoscimento di "Città europea del Vino 2024", Alfredo Monterumisi, forte anche di alcune evidenze scientifiche, invita a mettere da parte il campanilismo tra territori romagnoli e a privilegiare la Valle del Rubicone. Dai confini di Santarcangelo di Romagna ai limiti sud di Cesena si estende un'area che alla coltura della vite unisce la cultura del vino. Un patrimonio di enorme importanza per il comparto turistico.

Il paesaggio rurale europeo è un patrimonio importante, con un alto valore aggiunto. Le aziende vinicole, le persone e le tecnologie ad esse collegate sono componenti importanti della nostra cultura, tramandate anche sotto forma di tradizione orale. La qualità della vita nelle aree rurali può anche essere considerata un modello per il futuro e un patrimonio da tutelare.
Questo postulato è nelle righe di esordio sul sito di Iter Vitis (Il cammino della vite) a cui si è accennato appena, nella recente intervista ad Alfredo Monterumisi, ambasciatore delle Città del Vino d’Europa.
Iter Vitis è un organismo (parte del Consiglio d’Europa) che usa la coltura della vite e la cultura del vino quale grimaldello di entità attrattiva e potenza tale, da suscitare un salutare riverbero sull’intero comparto turistico locale ed europeo. Per molti addetti ai lavori, questa non è affatto una novità. Esiste un notevole fermento intorno all’universo vitivinicolo che da secoli scandisce e affianca lo sviluppo socio economico dei popoli. Non è da escludere che il successo e il fascino del vino dipenda anche delle complesse procedure che sono necessarie per produrlo. Sparse per il mondo ci sono poi vestali, che sotto forma di enti e associazioni ne tengono vivo il sacro fuoco, carico di significato, colori, stile di vita e fertili risorse culturali.

L’Associazione Nazionale Città del Vino, dopo avere esaminato le candidature pervenute e che vedevano in gara anche San Clemente (Rimini) e Montepulciano (Siena), ha conferito al territorio dell’Alto Piemonte e al Gran Monferrato il riconoscimento di Città europea del Vino 2024. L’evento si è svolto a Bruxelles dal network RECEVIN (Rete Europea delle Città del Vino). La cordata vincitrice, costituita da 20 città piemontesi unite sotto un’unica sigla e con un programma condiviso di eventi, meeting, degustazioni e convegni, ha ottenuto sia l’ambìto titolo che visibilità sul palcoscenico internazionale dedicato all’enologia per il 2024.
All’assessore regionale alla Cultura, Turismo e Commercio del Piemonte, l’avvenimento ha consentito di affermare con legittima soddisfazione che “non uno, ma venti Comuni entrano nella Hall of fame (Sala d’onore; ndr) dei luoghi più rinomati al mondo da cui diffondere la cultura del vino. Un riconoscimento che attesta ancora una volta il primato piemontese in questo settore, che attira migliaia di turisti e investitori. E ne attirerà ancor di più grazie alla programmazione nelle nostre venti città che dal prossimo anno formeranno idealmente una macro regione del vino”.

Il Piemonte ha enologicamente sbaragliato Emilia-Romagna e Toscana. Adopero il funambolismo lessicale di un noto politico e ti chiedo: c’è da imparare qualcosa dal fatto che abbiamo “non vinto”?
«Direi decisamente di sì. E ti spiego perché. Con il comitato promotore del “Progetto Enoturistico e Culturale” che fa capo all’Ambasciata del Vino, da tempo mi sto spendendo per fare in modo che Iter Vitis omologhi l’itinerario “Colli di Rimini & Valle del Rubicone”. Per fare questo, vorrei tanto che ci lasciassimo alle spalle il consueto, trito e controproducente campanilismo. Dei tre fiumi solitamente in lizza e oggetto del contendere circa l’evento storico (Fiumicino, Uso, Pisciatello-Urgòn), ognuno immagini quale fosse il corso d’acqua che preferisce nel momento in cui veniva attraversato da Caio Giulio Cesare, tuttavia ciò che ci interessa e per ben altri motivi, è la valle del Rubicone. In due parole, mi riferisco a quel felice territorio che si estende dai confini di Santarcangelo di Romagna ai limiti sud di Cesena, prendendo come riferimento la pedecollinare via Emilia in mezzo a colline generose che spiano il mare tra filari di viti e tronchi contorti di ulivi».

La Romagna nella mappa del 1783, esposta in casa di Alfredo Monterumisi.

In merito a quanto sostieni, nella lunga pagina che dedica alla Romagna, perfino la Treccani scrive di “dispute secolari fra borgo e borgo, tutti ambiziosi dell’onore di essere stati per primi attraversati dal grande romano, quasi che non spettasse tale onore a Rimini, che forse per prima udì le parole cesariane d’incitamento ai soldati”. Finite le polemiche, cominciamo a ragionare alla piemontese?
«Sicuramente, anche perché in base ad alcune ricerche scientifiche, pare che il fiume Rubicone, così come lo videro Giulio Cesare e Cesare Augusto, dovrebbe essere stato parzialmente cancellato da una calamità naturale verificatasi nel VI secolo dopo Cristo. I sospetti sono iniziati da un’indagine durata venticinque anni. In questo periodo ho visto emergere tre indizi che, se messi insieme, potrebbero rappresentare una prova».

Anfore vinarie romagnole.

Quali sarebbero gli indizi che hai raccolto?
«Il primo si materializza nel 1995 durante un convegno organizzato presso la chiesa romanica del VI secolo a Santarcangelo di Romagna. Uno studioso di archeologia presenta i risultati di uno scavo effettuato nei pressi della pieve. Là si portarono alla luce alcune fornaci di epoca romana che facevano parte di un insediamento artigianale conosciuto come “Pagus Acerbolanus”, nei pressi dell’alveo del fiume “Ariminus”.
In quel luogo venivano fabbricate anche “anfore vinarie” con il caratteristico fondo piatto che gli esperti archeologi classificano come “romagnole”. Al convegno, lo studioso sostiene che la chiesa fu eretta come ex voto dagli artigiani del villaggio per ringraziare dello scampato pericolo dopo la violenta pioggia durata molti mesi e causa di allagamenti nei piccoli centri urbani di pianura, nei campi adibiti all’agricoltura e anche negli insediamenti artigianali come “Pagus Acerbolanus”. La pieve, luogo devozionale, fu dedicata a San Michele Arcangelo da cui in seguito prenderà il nome la località. Durante l’alluvione, gli abitanti del villaggio si rifugiano in cima al colle, che essendo ricoperto da un fitto bosco, fornisce da sempre il legname da ardere nella fornace che è vicino al centro artigianale. In cima allo stessa altura, secoli prima, era stato eretto un piccolo tempio pagano dedicato a Giove e per questo chiamato “Colli Jovis”».

Alcuni fanno ascendere le origini del vitigno e il nome Sangiovese dal Monte Giove o Colli Jovis, taluno dice che già lo avesse menzionato Plinio il Vecchio in alcuni scritti, altri ancora smentiscono l’attribuzione del Tribunato dei Vini di Romagna e citano documenti del XVII secolo. In definitiva, il campanile continua a imperversare. Meglio passare alla seconda traccia.
«Il secondo indizio prende forma durante un interessante documentario mandato in onda sul canale televisivo “La7” nel programma “Atlantide” curato da Andrea Purgatori. Il documentario si occupava di alcuni disastri naturali avvenuti in epoche remote in paesi allora sconosciuti dalle civiltà dell’antico continente europeo. In America Centrale, nel VI secolo dopo Cristo avviene un’eruzione vulcanica che provoca una glaciazione. Con il passare del tempo e il ritorno a temperature normali, questi si sciolgono, causano tremende inondazioni, grandi carestie e ulteriori danni, con malattie e morti anche in Europa. Allagamenti, frane, smottamenti di terreno cancellano interi villaggi, spianano colline terrose, distruggono campi agricoli e spazzano via gli argini dei fiumi non protetti da rive rocciose. Questo evento modifica la conformazione del suolo. A quell’epoca il fiume “Rubicone” è un breve ma impetuoso corso d’acqua torrentizio protetto da sponde argillose e sabbiose. La sorgente rimane nelle prime colline appenniniche e dopo poche decine di miglia sfocia nel mare Adriatico in un’area paludosa, mentre l’altro storico fiume, l’Ariminus, fa un lungo percorso che inizia nell’Appennino toscano protetto da sponde rocciose. È grazie a questo che riesce a resistere al disastro. Nella storica valle del Rubicone, in epoca bizantina rimangono tre piccoli fiumiciattoli chiamati Uso, Fiumicino e Pisciatello, due dei qual, con il termine diminutivo, non paiono di certo adatti per definire i confini di un Impero. L’epoca confermerebbe il periodo in cui venne eretta la pieve dedicata a San Michele Arcangelo, che rimaneva proprio nei pressi del villaggio artigianale “Pagus Acerbolanus”».

L’eruzione del vulcano Ilopango citata nel documentario presentato da Andrea Purgatori più di dieci anni fa ha lasciato tracce importanti, ma non nel periodo indicato all’epoca. Ho contattato uno scienziato che con altri ricercatori ha studiato il fenomeno in oggetto. L’indagine ne riordina effetti e cronologia. Nel box a piè di pagina, il dottor Antonio Costa illustra a me (profano) e ai lettori, alcuni aspetti delle ricerche vulcanologiche e le terribili conseguenze patite dal clima a causa di alcune eruzioni, vedi la “piccola era glaciale della tarda antichità”. Ora, lancia l’ultimo indizio della triade.
«II terzo indizio emerge durante un’indagine effettuata da alcuni archeologi e studiosi di storia sui resti di una arcata medievale nei pressi della chiesa di San Vito, sorta sulle fondamenta di un’antica pieve lungo il primo tratto della consolare “Aemilia” fra Rimini e Santarcangelo di Romagna. I sondaggi effettuati nella zona limitrofa ai resti dell’arcata, indicano che possa esserci sepolto un ponte di epoca romana di almeno otto campate. Si tratterebbe del ponte voluto da Cesare Augusto per ricordare il coraggioso gesto di Gaio Giulio Cesare nel 49 a.C. e per celebrare il restauro della consolare “Aemilia”. Sempre Augusto, nel 14 d.C. inizia a far costruire il ponte di cinque arcate a Rimini, poi terminato da Tiberio nel 21 d.C.. Esso collegava la via Emilia con la “Flaminia”, via consolare che conduceva a Roma, capitale dell’Impero.
Il Ponte, così come l’Arco d’Augusto (porta d’ingresso di Ariminum), sono significativi componenti diacronici avuti poi in eredità dalla Romagna. Gli elementi esposti sono rivolti a dimostrare che l’attuale “Rubicone”, scelto dal Duce Benito Mussolini durante il ventennio fascista con altri simboli romani per mera propaganda politica, non poteva di certo essere il limite di un impero della grandiosità di Roma».

Dunque l’antico Rubicone, come sostenuto dallo studioso di storia riminese Giovanni Rimondini, confortato anche dagli scavi del 2004 diretti da Marcello Cartoceti, andrebbe identificato con il fiume Uso. Forse ciò archivia le annose polemiche da campanile. In un articolo del 2013, con saggia lungimiranza, Rimondini consigliava le città interessate a “formare un consorzio per la valorizzazione dell’area complessiva del Rubicone, un’area da attrezzare anche dal punto di vista turistico”. Naturalmente, la conditio sine qua non esigerebbe di riprendere gli scavi.
«Anche dopo oltre un decennio, non posso che essere d’accordo con l’amico professore. Speriamo solo che prima o poi ascoltino il suo ottimo suggerimento. Dato che ho esordito parlando dal paese di papa Clemente XIV, per meglio definire il mio pensiero su come dovremmo adoperare al meglio le non indifferenti risorse locali che abbiamo la fortuna di avere, vorrei fare ancora un paio di considerazioni. Il territorio che si sta valutando, ossia i confini fra i Colli di Rimini e la Valle del Rubicone, sono densi di eventi storici, che hanno visto la civiltà villanoviana ed etrusca, l’incontro tra due popoli di culture e colture differenti come quella greco-romana e la celtica, fino ad arrivare intorno all’anno mille, quando sul colle si hanno le prime notizie di un Castrum medioevale che in seguito prenderà il nome del santo a cui si dedica la Pieve. Nel borgo sorto in cima al Colle Giove, furono scoperti alcuni strani ipogei scavati nella pietra arenaria. Anticamente, alcuni di essi furono adibiti alla celebrazione di riti dedicati al mitraismo, culto di origine ellenica. Questo, almeno, è quanto sempre strenuamente sostenuto dal celebre ricercatore locale, Luigi Renato Pedretti (1885-1973). Sicuramente, innumerevoli ipogei non erano e non sono altro che cantine, col tempo chiamate grotte vinarie. Luoghi dove venivano collocate migliaia di botti vinarie, protette e al sicuro. In pratica, da questo fenomeno è sorta una cittadella sotterranea riservata al vino. Gli ipogei sono tuttora collegati fra loro attraverso corridoi sotterranei che si sviluppano su vari piani, raggiungibili anche con le ripide scalinate delle contrade».

L’antico palmento in località Torricella.

Il viaggio che fai intorno al mondo del vino per raccontare la valle del Rubicone, in sostanza è Storia.
«A conforto di quanto dici, la coltura del vino della Magna Grecia, la parte più meridionale della penisola italica chiamata “Enotria”, a quell’epoca arrivò fino alla valle del fiume Ariminus percorrendo la lunga cresta rocciosa appenninica. Questa zona del riminese, dai tratti montagnosi rocciosi, vanta notizie molto antiche sul vino. Nel Comune di Novafeltria nello storico Montefeltro della Romagna, in località Torricella di recente è stato scoperto un monumento rupestre raro per l’area geografica in cui si trova. E’ un antico palmento che rimane nella zona conosciuta sin dall’epoca Romana come “Cisalpina”. I monti che sovrastano il territorio di Torricella, fanno da spartiacque tra la Valle Ariminus e la romana Valle del Rubicone. I palmenti si creavano scolpendo massi rocciosi di pietra arenaria di modeste dimensioni. Quello di Torricella si rivela essere quale arcaico armamento agricolo per pigiare l’uva e ricavare il mosto da cui si otteneva il vino. Gli Ellenici appresero questa usanza in Armenia e in Georgia, zone ai confini con la terra conosciuta come la “Mezza Luna Fertile”, area tra i fiumi Nilo, Giordano, Tigre ed Eufrate, considerata la “culla della civiltà”. Queste e altre notizie, che per brevità non cito, fanno parte della storia e dell’identità della Romagna, da sempre riconosciuta come terra ospitale. Se tutto il materiale conoscitivo qui riportato fosse utilizzato con buon senso potrebbe dare valore al territorio e al Borgo Tematico sul Vino chiamato Enopolis e le Grotte di Giove, un luogo storico enogastronomico che si sviluppa nel borgo medioevale e nell’antico cuore di Santarcangelo di Romagna, località da cui inizia la mitica Valle del Rubicone considerata la madre della Wine Valley RoMagnaCoast Profumo di Sangiovese, e dove inizia il Distretto Turistico Integrato dotato del percorso storico».

Riguardo al ponte di otto arcate di epoca augustea che giace tuttora sepolto a San Vito di Rimini, le note che riporta il dottor Costa riguardo agli sconvolgimenti meteorologici avvenuti nel VI secolo d.C., fanno ritenere che all’epoca la natura rimescolò disordinatamente le carte morfologiche anche nel nostro territorio.
Come accennato da Monterumisi, non si esclude che il Rubicone di allora, come del resto altri fiumi, non siano più gli stessi del 49 a.C. quando Caio Giulio Cesare fece l’attraversata, avvalorando così ancor più la tesi di Giovanni Rimondini. Sono sicuro che abbiano ragione Marcello Cartoceti che si occupò del ponte a San Vito e il professor Rimondini, al punto che sarei pronto a scommetterci una cifra.
Sarei perfino disposto a perdere e andare a dormire sotto un ponte. Ma solo se fosse romano!

L'inverno vulcanico che sconvolse il pianeta

Il Dottor Antonio Costa è un fisico dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Bologna, città in cui è anche professore a contratto presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Alma Mater Studiorum. Attualmente in Colombia per una collaborazione scientifica con l’Università di Nariño, il ricercatore è stato così disponibile e cortese da darmi preziose delucidazioni in videoconferenza. Cercherò di riferire il contenuto dell’intervista nel miglior modo consentito dalla mia scarsa dimestichezza in materia sicché vado direttamente al sunto delle risposte che mi ha dato.

Depositi dei flussi piroclastici della Tierra Blanca Joven, 30 km a ovest rispetto al cratere del vulcano Ilopango. Foto del Dr. Dario Pedrazzi.

«Quello che è chiamato inverno vulcanico, ha sconvolto l’emisfero nord del pianeta tra il 536 e il 539/40 d.C.. Le cause di questa anomalìa climatica sono probabilmente da attribuire proprio a eruzioni che fino a pochi anni fa vedeva come uno dei principali indiziati il vulcano Ilopango, nello stato di El Salvador, in America centrale. Pare che quei critici anni del VI secolo siano stati i peggiori, tra quelli vissuti dal nostro pianeta a livello climatico. Oltretutto il lasso temporale si sovrappone quasi esattamente alla peste che funestò l’Impero romano d’Oriente di Giustiniano I (527 – 565 d.C.; ndr). Le prove sono emerse dai carotaggi effettuati nel ghiaccio della Groenlandia. Ad alcune quote sono state rilevate tracce di composti dello zolfo, elemento in grado di alterare l’albedo atmosferico e diminuire l’arrivo dei raggi solari sulla terra (albedo: frazione delle radiazioni totali riflesse da una superficie che varia in base a nuvolosità, inclinazione dei raggi solari, pulviscolo atmosferico, ecc.; ndr). Quindi, quando si verifica l’immissione di tali composti dello zolfo (anidride solforosa ecc.) nella stratosfera, si verifica un raffreddamento. Il fenomeno si è visto in altre occasioni, ad esempio, dopo l’eruzione nel 1991 del vulcano Piñatubo (Filippine). L’anno successivo, la temperatura media della terra si è abbassata di mezzo grado. Naturalmente, questa non è una regola fissa poiché gli effetti dipendono dalla grandezza dell’eruzione e dai composti che vengono rilasciati. Ora, per questo periodo critico dell’umanità, quello della cosiddetta peste di Giustiniano, nei ghiacci si sono individuati tre livelli di ceneri dovute ad altrettante grosse eruzioni, abbastanza ravvicinate. Per i colleghi americani, il sospettato numero uno era il vulcano Ilopango. La datazione, nel caso di specie complicata dalla curva di calibrazione del carbonio-14, purtroppo piatta nel periodo in esame, costrinse gli statunitensi a situarla nello spazio temporale piuttosto ampio, compreso tra il 420 e il 540 d.C. circa. Grazie anche a un poco di fortuna, la spedizione italiana è riuscita a collocarla con maggiore precisione. Oltre alla misurazione degli anelli arborei e all’utilizzo del radiocarbonio, in frammenti di vetro vulcanico rinvenuti nelle carote di ghiaccio prelevato in Groenlandia, abbiamo avuto la buona sorte di trovare ceneri esattamente di quella specifica composizione. Forti di questo, siamo pressoché certi, con uno scarto di due anni in difetto o in eccesso, che l’eruzione sia avvenuta nell’anno 431 d.C.. Attraverso modelli numerici computazionali, siamo stati in grado di riprodurre i volumi eruttati e l’altezza della colonna di gas e cenere. Le indagini, pur rilevando che l’Ilopango provocò un impatto globale e un raffreddamento terrestre, provano che la sua eruzione non causò affatto il cosiddetto inverno vulcanico. Quel tragico evento è invece individuabile tra il 536 e il 540 d.C., epoca in cui più eruzioni, presumibilmente avvenute a nord dell’equatore, hanno interessato l’intero pianeta, ma in modo particolare l’emisfero boreale, compresa l’Italia. Questi fenomeni sono stati imputati a diversi vulcani tra cui un paio di essi in terra americana e forse uno in Messico (“El Chichón”), che ha eruttato anche nel 1982. Le ricerche sono ancora aperte, ma la cosa di cui siamo sicuri è che tutti i rapporti geologici ambientali ci dicono che in quel periodo si è avuto un freddo talmente intenso da azzerare l’estate per diversi anni. Si stima che la temperatura media sia calata di tre gradi. Non a caso, l’epoca in questione viene chiamata “piccola era glaciale della tarda antichità”, la quale purtroppo ha scatenato alluvioni e allagamenti, distruzioni e carestie, poi epidemie e morti in tutta Europa. Si noti che al tempo non c’erano ancora responsabilità antropiche».

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