Benso Becca, incredibile e vispo futurista riminese

Benso Becca, incredibile e vispo futurista riminese

Buffo, pallido e strabico, al fronte andava all'assalto con una bacchettina di bambù, perché con il suo difetto visivo avrebbe sparato ai suoi invece che al nemico. Ci ha lasciato una antologia postuma. Merita il nostro ricordo.

Complice l’arrivo di un libro edito nel 1956 che da tempo desideravo, giuntomi ben protetto da un imballaggio commovente: il primo strato con un foglio del Corriere della Sera (attualmente è l’uso ottimale che si può fare della gloriosa testata), poi un buon spessore di cartone ondulato, per finire con il caldo avvolgimento protettivo della carta ondulata a singolo strato, ritento l’accrocco letterario che funzionò vent’anni fa con Giuseppe Vannicola, cercando di sottrarre all’oblio un burlone e rompiscatole riminese vissuto negli anni Trenta, Benso Becca.
Come per molti, anche per lui, si può dire che il capolavoro fu la morte, ad un tavolo d’osteria mentre dava le carte a scopa, aveva sessant’anni, si nutriva di parole e andava a dormire con la stravaganza, compagna infida ma necessaria per qualsiasi “bastian contrario”. Per una efficace “riscoperta letteraria” basta seguire il consiglio che Umberto Eco diede nel suo Come si fa una tesi di laurea (sempre incollato sul comodino dei curiosi), occuparsi di “un argomento marginale su cui è stato scritto pochissimo”, e così ho scoperto un riminese buffo, pallido e strabico, che al fronte andava all’assalto con una bacchettina di bambù, perché con il suo difetto visivo avrebbe sparato ai suoi invece che al nemico.
Benso Becca collaborò alle riviste umoristiche riminesi Il Pesceragno e il Gazzettino Azzurro e con un paio di amici (Giacomo Donati e Addo Cupi) riuscì a far uscire solo due numeri della rivista futurista L’Arco nell’aprile del 1915; fu “tirato giù a legnate” dai tavoli del Caffè Commercio mentre arringava gli avventori per l’intervento in guerra, dove partì solo armato della sua bacchetta e ovviamente tornò a casa con una pallottola in corpo. Dopo due anni in Africa in una piantagione di caffè, il nostro “individualista di stile” (Mario Lizzani) andò prima a Milano dove per un piatto di spaghetti scese “sulla strada al più basso livello della strada” (Mario Lizzani), poi a Roma, con il suo unico paia di scarpe in compagnia di matita e foglietti per poter esibire la sua bellissima calligrafia. Un elzeviro di Orio Vergani del maggio 1955 uscito sul Corriere della Sera (che ho trovato all’interno di Vita sprecata di un italiano insieme ad una bella recensione di sei pagine di Mario Lizzani da La parola e il libro del gennaio 1956) lo presenta così:
“Benso Becca – nome ai più sconosciuto, amato in quella estrema boheme del Novecento italiano che non ha trovato ancora il suo storico o il suo cronista: personaggio che avrebbe fatto la fortuna di un diarista nel genere di Jules Renard – era uno dei pochi scrittori italiani, l’unico forse, che scrivesse non per metafora, come Marino Moretti, con il lapis. Usava piccoli fogli, poco più grandi di una cartolina postale, disposti sotto alla mano con diligenza. Data la grande fatica che gli costava decidersi a prendere la matita in mano, a questa fatica si preparava con molta diligenza: forse per allontanare ancora un poco, con quelle ultime attenzioni, l’impegno di allineare, su argomenti che spesso dovevano sembrargli futili, parola dopo parola. (…) Aveva dunque l’abitudine di scrivere a matita, forse anche perché denaro per regalarsi una penna stilografica non l’aveva mai avuto nella vita, ma soprattutto perché, lavorando poi con una pallina di gomma da cancellare, poteva far sparire dalla cartella ogni traccia delle parole rifiutate”.
Giuseppe Longo che con gli amici raccolse in una antologia postuma, in “Vita sprecata d’un italiano”, le più belle e significanti pagine di Benso Becca, ebbe ad esprimere in cinque righe l’essenza del nostro vispo futurista riminese:
“Nulla c’era che egli temesse di più della vecchiaia e ne ha potuto appena toccare la soglia. Sì che è morto integro di tutte le facoltà raziocinanti, con intatto fino all’ultimo, l’acume critico per cui andò famoso fra i suoi amici; impietoso sfatatore di mitizzanti personalità e delle formule che vedeva costruire intorno alla fabula de lineis ed coloribus”.
L’apoteosi letteraria di Benso Becca andò in scena il 24 gennaio 1955 all’Osteria di Quinto in via del Lavatore a Roma, mentre dava la seconda mano di carte ai suoi amici in una partita a scopa, colpito da trombosi cerebrale : “devo essere raggiante di pallor”.

Silvano Tognacci

Fotografia: Anonimo – Benso Becca, Mario Bassi e Elviro Polverelli davanti al Caffè Commercio, 1923.

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