Col sempre più probabile passaggio di Carim al Crédit Agricole (che ha ufficializzato di aver avviato, attraverso la sua controllata Cariparma, le discussioni preliminari con Bankitalia e Fondo Interbancario di tutela dei depositi in vista di una possibile acquisizione dell'Istituto di piazza Ferrari, insieme a CariCesena e Carismi), si volta una pagina iniziata nel 1841. Nel disinteresse, pare, generale.
Trenta aprile o trenta maggio, che differenza fa? E’ un cinico calembour, o se preferite un equivoco beffardo, quello che sta portando alla morte della Cassa di Risparmio di Rimini. Perché – al di là delle parole rassicuranti dei top manager, parole in questo momento senza alternative – la verità vera è che la banca non sarà più la “cassa di Rimini”. E’ troppo crudele parlare di morte? Chiamiamolo suicidio assistito. Che differenza fa?
Detto questo, poniamoci altre domande, che ai riminesi dovrebbero essere care: di chi era questa banca? come è nata, e come trapasserà? Pensiamo infatti che senza avere un quadro chiaro delle proprie origini, sia impossibile avere un disegno nitido del futuro.
La Cassa di Risparmio di Rimini sorge (1841) in un momento di sviluppo del territorio: un anno prima erano state impiantate tre fabbriche (fornace di laterizi, vetri, fiammiferi), due anni dopo sarà aperto il primo Stabilimento dei Bagni.
La Fondazione Carim scrive nel sito web che la banca è «nata per la libera associazione di 89 cittadini che si sono volontariamente prefissati l’obiettivo di promuovere il risparmio e la diffusione del benessere, dando vita al prestito di denaro, come recita lo Statuto del 1840, “a modico interesse”». Certo che sì. E’ vero anche che le Casse di Risparmio e le Banche del Monte «erano enti creditizi con una forte connotazione solidaristica, sorti per lo più agli inizi dell’Ottocento sulla spinta di meccanismi di auto organizzazione e di auto tutela delle comunità, in una fase critica di passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale».
Però è giusto anche dare alle cose il loro nome e cognome, quando possibile, e non solo una qualifica sociologica.
Si chiama Gregorio XVI (immediato predecessore del ben più noto Pio IX) il papa che rese possibile la nascita delle Casse di Risparmio in territorio romagnolo.
Citiamo da una cronaca dell’epoca: «La storia riconoscente, che nota i beneficii de’ principi all’umanità, scriverà tra le lodi del regnante sommo pontefice Gregorio XVI quella peculiare e sfolgorantissima di avere approvata e promossa la istituzione delle casse di risparmio nello stato. La prima fu in Roma del 1836, ed altra in Bologna l’anno appresso. L’esempio di queste grandi città fu presto imitato; per cui 15 casse di risparmio si hanno già ne’ pontificii dominii, otto delle quali nelle legazioni (la Romagna, ndr). Prosperano generalmente queste benefiche istituzioni […]», come dimostrano i resoconti di bilancio (D. Vaccolini, in “Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti”, vol. XCVI, Roma 1843, pp. 113-118).
Fu quindi un impulso preciso della Santa Sede a far sorgere in decine di città grandi e piccole queste attività bancarie «a favore la più parte delle classi meno agiate» ed in una cornice di regole che «escludono l’abusiva speculazione» (Vaccolini cit., p. 114).
Ma va precisato che l’ondata degli anni ’30-’40, favorita dal papa, il bellunese card. Cappellari “amico” dell’Austria, fu preceduta da quella appunto asburgica che vide nel 1819 nascere a Vienna la prima Sparkasse, e poi nel lombardo-veneto negli anni ’20 le casse di Padova, Vicenza, Venezia, Marca Trivigiana, Province Lombarde: in genere fondazioni civiche con funzioni di appoggio ai Monti di Pietà di origine quattrocentesca, nati a loro volta dalla predicazione francescana.
Che si guardi di qua o di là, sempre di finanza cattolica si tratta, o perlomeno di ispirazione cattolica nel trattare il problema dei soldi. Proprio ciò che, fatalmente, è destinato a liquefarsi con il prossimo passaggio di proprietà di Carim (30 aprile o 30 maggio), benché le tante trasformazioni precedenti abbiano già largamente contribuito a laicizzare la banca.
Non sarà più la Fondazione Carim (da sempre a guida “democristiana”, salvo parentesi limitate nel tempo) a detenere la maggioranza delle azioni della cassa e ad orientarne la politica creditizia.
Ci sarà chi esulta: finalmente fuori dalle scatole i cattolici e i democristiani! anche perché, poco o tanto, se lo meritano. Tuttavia il tema merita di essere dibattuto andando oltre brontolii di pancia e arrabbiature di cervello. In gioco non ci sono solo gli interessi cattolici, o presunti tali, ma qualcosa di ben più vasto che riguarda tutti. I soldi, di chi sono? Dei “mercati”?
E le banche, a chi devono rispondere? Alle regole di “Basilea 3” e basta?
Spazzolando via la Carim, la globalizzazione selvaggia s’impadronisce di mezza Rimini. Vogliamo parlarne?
Noi sì. Nella prossima puntata scriviamo un altro capitolo della storia dello sgombero della finanza cattolica dalla città e dalle sue campagne.
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