Che pena il panorama che ci conduce al voto

Che pena il panorama che ci conduce al voto

Chi ha seguito il confronto fra i candidati sindaci in sala Manzoni si è potuto fare un'idea della debolezza intrinseca di questa tornata elettorale. Si chiude il decennio della realtà aumentata e cosa si apre?

Strana città Rimini. E’ tutta colpa di Gnassi ma poi quelli dell’alternanza non riescono ad elaborare un progetto di altro segno e spessore e a farlo correre sulle gambe di una classe dirigente alternativa. Rimini non ce la sta facendo nemmeno stavolta ad imprimere quella spinta che il futuro reclama. Prevalgono gli insulti, i toni grevi e gli slogan. Non mancano candidati degni di nota, ma il problema è un altro.
Seduta da decenni sul modello turistico che mostra vistose crepe dagli anni 80, pronta a criticare Bologna ma incapace di una reazione costruttiva verso l’egemonia emiliana, adesso si è accasciata sul sogno felliniano adorato un po’ feticisticamente, forse per farsi perdonare la disattenzione e sottovalutazione mostrate troppo a lungo verso il Regista. Ma la nebbia non favorisce l’incontro, tutti noi cerchiamo il sole e sul sole abbiamo costruito una ricchezza diffusa. Il garbino, magari, ma la nebbia no. Tanto meno se posticcia e sotto forma nebulizzata.

Il turismo culturale che alla fine dell’800 affollò Rimini e i luoghi del sole in Italia, e che va sotto il nome di “Grand Tour”, era attratto dalla bellezza dei luoghi e dei monumenti, dalla Storia. Oggi invece qualcuno che assicura di averci preparato la strada del successo per l’avvenire, ha puntato tutto sull’apparenza e sui giochi circensi, sbertucciando i giganti del nostro Rinascimento. E’ una prospettiva, ma è l’unica?

Chi ha seguito il confronto fra i candidati sindaci in sala Manzoni si è potuto fare un’idea della debolezza intrinseca di questa tornata elettorale. Promesse vacue e pensieri balbettati. I poteri che contano danno l’impressione di avere già deciso chi dovrà tenere ancora le redini del comando, ed hanno infilato qua e là i loro avatar. L’evidenza è una: la città – per la solita abitudine alla rendita, che non è solo un virus che ammorba l’economia ma anche la politica – non ha saputo esprimere un Draghi di provincia e metterlo a capo del quinquennio impegnativo che ci attende, all’altezza delle sfide. Qui, al contrario, i partiti hanno imposto le loro bandiere, sia a sinistra (da Roma) che a destra (da Forlì).
Un po’ per le risposte cronometrate, un po’ perché le domande sono di solito più importanti delle risposte, un po’ per tutto quanto detto sopra, lo spettacolo dei candidati impacciati e zoppicanti è stato davvero deludente e all’altezza di una campagna elettorale giocata al ribasso, priva di visioni, di polemiche sostanziose, di bilanci approfonditi e di colpi di genio.

Quella impresa di ripensamento della città di Rimini, cominciata nel 2007 col piano strategico, nel 2010 ha portato ad approvare in consiglio comunale un documento che nelle sue prime righe lo definiva «strumento unico e unitario nel quale vengono fatte le scelte più rilevanti del governo locale». Invocava «modalità strutturate di partecipazione» nella «consapevolezza, da parte di tutti gli attori pubblici e privati, della forte interdipendenza che ai fini di un reale sviluppo locale esiste tra i diversi settori della Politica Amministrativa e della operatività d’impresa».

Rimini veniva indicata come città:
1. che valorizza il patrimonio storico, culturale, paesaggistico e le tipicità;
2. delle relazioni internazionali e porta dell’Adriatico;
3. delle reti e delle infrastrutture tecnologiche;
4. mobile senz’auto;
5. delle imprese innovative e di qualità;
6. creativa e della conoscenza;
7. che soddisfa i bisogni di tutti i cittadini;
8. destinazione turistica del benessere.

Che ne è stato di questi pilastri a dieci anni dall’entrata in vigore del manifesto “futurista” di Rimini? «Lo sviluppo locale è sempre di più il frutto dell’azione sinergica di più attori: privati, pubblici, sociali, economici, culturali, ecc. che devono reciprocamente auto-condizionarsi per adottare una strategia comune», sermoneggiava lo stesso piano strategico. Chi l’ha vista l’interdipendenza? O l’azione sinergica? O la partecipazione? Un unico attore si è ritenuto strategico dal 2011 ad oggi, ed è stato il sindaco Andrea Gnassi. Il quale ha attinto al piano strategico quando coincideva con la propria idea elaborata a tavolino, ma l’ha soprattutto contraddetto nel metodo e negli obiettivi di fondo. E’ stato il decennio del solista e della realtà aumentata. E, arrivato al termine del suo mandato, non ha nessuna voglia di farsi da parte, e imperversa manovrando il fido Jamil e indicandogli la rotta obbligata col solito cartello stradale “RIMINI”. Il simbolo un po’ comico di questa campagna elettorale è stato proprio quel cartello stradale “a due piazze” fatto posare per molte fotografie: dove prima si appoggiava solo Gnassi, adesso si è aggiunto Jamil (la cancellazione del cognome Sadegholvaad dalla comunicazione elettorale del candidato di centrosinistra è probabilmente la più brutta operazione di auto-censura mai messa in atto).

Il centrodestra ha una grandissima responsabilità. Comunque vadano le elezioni del 3 e 4 ottobre, un progetto alternativo non si è visto. Avrebbe dovuto prepararlo per tempo, con una modalità partecipativa, con un vero coinvolgimento della società civile. Invece il dilemma che ha occupato mesi di dibattito sulla scelta del candidato – civico o politico? boh! – è stato risolto come tutti sappiamo. Un po’ poco. Davvero troppo poco.

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