I comunisti mangiano i poeti. A Rimini si parla (finalmente) degli orrori della Rivoluzione russa

I comunisti mangiano i poeti. A Rimini si parla (finalmente) degli orrori della Rivoluzione russa

Presentato il cartellone teatrale riminese. Ecco la lista degli spettacoli che, sulla carta, ci piacciono di più. Tra questi, “La scienza dei commiati” rievoca i fasti tenebrosi della Rivoluzione d’ottobre, a un secolo di distanza. Ovvero: come Lenin e i suoi successori hanno sterminato una generazione di artisti geniali.

Ultimi anni al ‘Novelli’
Presentata la stagione teatrale del ‘Novelli’ che è poi il presentimento di ciò che accadrà quando aprirà il ‘Galli’. Già, cosa accadrà, allora? La cosa certa è che il Comune, DUP alla mano, si leverà di torno facendo fare a terzi. Non se ne parla, comunque, prima di due, tre, chissà quanti anni. Volete il mio parere? Eccolo. Rimini è una città che, storicamente, volta le spalle alla storia – anche alla propria – per fermentare l’avvenire. Chiudersi al ‘Galli’ facendo finta di essere all’epoca di Verdi mi pare una minchiata romagnola. Fosse per me, mi giocherei tutto il teatro che resta in spazi off, sbrindellati, sbilanciati. Lasciando il ‘Galli’ all’opera lirica – ma hai di fianco il Rof di Pesaro, una potenza – e alle mostre ‘spot’. Detto questo, godiamoci gli ultimi cenni di ‘Novelli’ – il teatro più brutto che c’è – e di stagione ‘stalinianamente’ costruita in casa, dall’amministrazione, dall’onnipresente kapò Giampiero Piscaglia e dai suoi.

Il meglio? Laclos, Bergman e Laura Morante
Che c’è di bello? Vedete voi, qui, fate prima del mio coccodè. Io andrei a vedere la revisione goldoniana Locandiera B&B (15-17 novembre) solo perché c’è la regia di Roberto Andò e soprattutto la presenza scenica dell’assoluta Laura Morante. Poi andrei a vedere Le relazioni pericolose (5 dicembre) se non altro perché Laclos è Laclos e Elena Bucci è la più interessante attrice del momento. Poi andrei a vedere Copenhagen (28-30 gennaio 2018) con Umberto Orsini e Massimo Popolizio, perché la storia dell’incontro-scontro tra Niels Bohr e Werner Heisenberg, l’Aristotele e il Platone della meccanica quantistica, è affascinante. Poi andrei a vedere Genesi N. 2 (23 febbraio 2018) perché dicono che Ivan Vyrypaev sia un grande scrittore di teatro e perché Dany Greggio è un ottimo, squinternato musicista. Poi andrei a vedere Ingmar (28 marzo 2018) perché sono i 100 anni dalla nascita di Ingmar Bergman, chissenefrega, soprattutto perché l’ho scritto io e so che è bello, ferocemente lucido. Il resto, vedete voi.

Per Stalin “ogni morte è una fragola”
La cosa più interessante – mica la più bella, la più interessante – accade però il 9 marzo 2018. I motivi interessanti sono tre. Intanto, l’ingresso è gratuito, il che non fa male. Poi ci sono io, che scrivo tonnellate di articoli contro la Giunta Gnassing Bis, e in particolare contro la gestione delle cose culturali, e mi danno pure un palco, mica male questi ‘rossi’. Poi, soprattutto, perché c’è Silvio Castiglioni, che è l’attore italiano più colto che c’è in giro, sa interpretare i testi fino a farti intirizzire le ossa. Ma il vero motivo interessante è il quarto. Lo spettacolo si intitola La scienza dei commiati, che è poi il primo verso di Tristia (“Io so la scienza dei commiati, appresa/ fra lamenti notturni a chiome sciolte”), che è poi la più bella tra le poesie di Osip Mandel’stam, il poeta straziato dallo stalinismo – il duce Iosif, scriveva lui, è “il montanaro del Cremlino” per cui “ogni morte è una fragola” – e imprigionato e morto, nel 1938, mentre, come un cane, era trascinato da un campo di concentramento all’altro. Di lui dissero: “Si sparse la notizia di un poeta che consolava i detenuti cantando le sue traduzioni di Petrarca, vicino al fuoco”. Roba da fare impazzire dall’emozione e dalla forza. Il sottotitolo dello spettacolo è I poeti che fecero la Rivoluzione, perché in fondo si parlerà di quei poeti che cento anni fa, insieme, amici, geniali, vissero l’epopea del 1917, un’epoca che “bisogna scriverne in modo da mozzare il fiato, da far inorridire”, scrisse Boris Pasternak.

Un risarcimento alla meraviglia nella Rimini ‘rossa’
Che ci frega di ciò che accade un secolo fa? Ci fregano due cose. Primo: avercene di poeti così. In un lasso strettissimo di tempo, in un decennio, si consumarono le opere più alte della poesia occidentale del Novecento. A infilzare i nomi dei poeti c’è da rabbrividire: Pasternak, Achmatova, Cvetaeva, Chlebnikov, Blok, Belyj, Gumilev, Majakovskij… E poi ci frega un dato storico. La Rivoluzione, anelata dai poeti come rivoluzione delle arti e dello spirito, si rivelò, subito, un mattatoio. Appena i bolscevichi presero il potere, nell’ottobre del 1917, costrinsero i poeti a una scelta durissima: o con noi, megafoni del regime, o in esilio. Attraverso alcune risoluzioni muscolari, Lenin fa chiudere, nella primavera del 1918, diverse riviste letterarie, compresa quella dell’amico e sodale Maksim Gor’kij, perché, dice il guru, “allo stato attuale delle cose, e con l’urgenza di portare l’intero paese a difendere la Rivoluzione, ogni forma di pessimismo intellettuale è oltremodo nociva”. L’anno dopo vengono chiuse tutte le case editrici private, libere, sostituite dall’unica casa editrice di Stato, la Gosizdat, atta a svolgere un compito eminentemente censorio. Nel 1920 Boris Pasternak, il poeta più vertiginoso della sua generazione, lo scrittore del Dottor Zivago, che nel 1958 sarà costretto, sotto minaccia sovietica, a rifiutare il Premio Nobel per la letteratura, scrive a un amico: “Il potere dei Soviet si è gradualmente trasformato in una specie di sudicio ospizio ateo. Pensioni, razioni, sussidi… tengono la gente a digiuno e la obbligano a professare la propria miscredenza – pregando per la propria salvezza dai pidocchi – a togliersi il berretto al canto dell’Internazionale ecc. Ritratti dei membri del Comitato Esecutivo Centrale di Tutte le Russie, corrieri, giorni feriali e giorni festivi… Tutto qui è morto, morto, e bisogna andarsene via al più presto. Dove, ancora non lo so, il prossimo futuro me lo indicherà”. Perché il potere, in ogni sua forma, sente l’esigenza di uccidere il poeta? Perché i governanti devono divorare l’artista? Nell’immagine che suggella lo spettacolo, appare il corpo di Sergej Esenin, la rockstar della poesia russa, l’amante di Isadora Duncan che si aggirava nudo negli alberghi di Parigi dopo sregolate notti a base di sesso e di vino. Il giorno di Natale del 1925, in un hotel di Leningrado, il poeta si impicca. “Non è nuovo morire, in questa vita/ ma più nuovo non è nemmeno vivere”, ha scritto, poco prima, con il sangue. Odiava le meschinità dei ‘rivoluzionari’, è una delle tante icone di un’era grigia. Anche questo verrà raccontato, come un risarcimento alla meraviglia, nella rossa Rimini. Che a qualcuno serva da lezione.

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