Dalla Via dei Fori Imperiali alla passerella dei Cicli sindachesi

Dalla Via dei Fori Imperiali alla passerella dei Cicli sindachesi

Le dimensioni dello stradone fascista e della passerella diessina sono, ovviamente, diverse. Ma la concezione di Via dei Fori imperiali e di quella che qui ribattezziamo Passerella dei Cicli sindachesi è la medesima. Dello spirito dei nuovi barbari non occorre cercare esempi nelle storie remote e in luoghi lontani, perché li offrono quelli dei giorni nostri e dei luoghi dove viviamo. Moreno Neri li "bolla" con puntiglio e ironia. Perché è ora di passare alla resistenza e alla lotta di liberazione da coloro che hanno la forza ma non la ragione.

Se a Pasqua mi sono sentito contento, come sanno i miei venticinque lettori di manzoniana memoria, il 25 aprile mi sono confermato resistente. Anzi ho deciso da quel giorno di sacrificarmi alla resistenza e alla lotta di liberazione da coloro che hanno la forza ma non la ragione.
Quel giorno avevo, infatti, letto che Castel Sismondo si sarebbe «incendiato» con i deejay. Ad appiccarne il fuoco, per fortuna metaforico, sarebbe stata la maratona musicale del Music inside festival – un festival di musica elettronica –, che si sarebbe svolta, come accaduto, alla Rocca malatestiana disegnata da Filippo Brunelleschi che, il 29 aprile, ha spalancato le sue porte e dove si è ballato dalle 18 fino a mezzanotte.
L’Amministrazione che lo ha permesso è la stessa che ha disposto che venisse ancorata alle mura malatestiane una orrenda passerella “di fatto” ciclabile. Che le due grandiose imprese barbariche che «incendiano», bruciando simbolicamente il passato, procedano dalla stessa Amministrazione e siano in un certo modo i suoi attributi, inspiegabilmente, mi appaga e, al tempo stesso, mi inquieta.

Gli spiriti barbarici si manifestano con così vigore che non solo sbeffeggiano e opprimono gli uomini che la cultura e l’educazione rappresentano, ma si volgono a sfregiare e sfigurare, rammodernandole, le opere che sono e sono state per questi ultimi strumenti di altre opere, distruggono le mura storiche, deturpano il paesaggio, rovinano il delicato sistema idrogeologico sotto il Ponte di Tiberio, abbattono alberi perché l’ombra deve essere solo quella dei dehors e a sostentamento economico degli esercenti dell’alcool, demoliscono baretti addossati a mura storiche e, per altro verso, chiudono gli occhi sull’orrendo palazzo che le stesse deturpa o nulla fanno per abbattere gli edifici sopra l’anfiteatro romano, lasciano che le scuole della città cadano a pezzi e le normative antisismiche siano per esse un sogno irrealizzato, privano di qualsiasi investimento (anche per l’acquisto di nuovi libri) la nostra Biblioteca Gambalunga che il prossimo anno compirà 400 anni, distruggono ogni sistema di pensiero culturale in virtù di una presunta «riqualificazione» e in nome dell’utilitarismo turistico.
Dello spirito dei nuovi barbari non occorre cercare esempi nelle storie remote e in luoghi lontani, perché li offrono quelli dei giorni nostri e dei luoghi dove viviamo con così abbondanza che perfino l’indignazione si attutisce e quasi si fa il callo agli scempi.

È di qualche giorno fa la notizia che, nell’ambito di quell’iniziativa pur meritevolissima di plauso che è Mare di Libri, Castel Sismondo ospiterà, in occasione del ventennale dell’edizione italiana del primo libro della saga di Harry Potter, una festa in onore del maghetto con scenografie e attività a tema. Come pure recente è la notizia che il 18 e 19 maggio lo chef Gino Angelini organizzerà nel castello «una cena tutta dedicata a Sigismondo Malatesta, in cui farà dialogare, insieme ad una brigata di chef davvero unica, la cucina del Quattrocento con quella contemporanea».
«La Rocca è un’opera straordinaria ma di fatto è un contenitore – ci aveva chiarito il magnifico sindaco Andrea Gnassi non meno di due mesi fa – cosa dovremmo farci? Il Museo della tortura o quello delle cere?». E infatti nella Rocca ci si mettono i deejay, i cosplay e gli chef, umiliata a set da disco-nightlife, trasformata nel castello di Hogwarts e promossa a location gastronomica. A evidente dimostrazione della specchiata coerenza del sindaco e che il rimangiarsi le proprie parole non gli dà l’indigestione né il reflusso gastroesofageo.
Unica coerenza è la fedeltà al fatto che la cultura, la conoscenza e il patrimonio storico devono creare profitto, far girare l’economia. È quello che ci dicono e ci ripetono, sulla scia dell’uso franceschiniano del patrimonio storico. Le “sane” regole dell’economia e dell’impresa non sembrano, tuttavia, aver avuto alcun valore né per il nostro aeroporto né per la nostra banca a quanto si è visto e ora chi ci amministra pretende di applicarle al nostro patrimonio culturale. Evidentemente per polverizzare anche questo e per svenderlo come è già accaduto ai due volani dell’economia riminese. D’altra parte quando, qualche giorno fa, abbiamo saputo che la guida del Borgo San Giuliano è stata appaltata a un birrificio, abbiamo pensato che si è ormai toccato il fondo … della bottiglia, con il titolo della memoria felliniana asservita a una birra (per altro di dubbia artigianalità). Ma sono pronto a cancellare il mio pregiudizio se mi sarà data la possibilità di leggerla.
Io non dimentico coloro che ci hanno chiamato Monuments Men, difensori di un marginale “feticcio” e perciò ho facoltà di chieder loro se è stata promossa, in questi suoi anni di celebrazioni bimillenarie, la conoscenza del Ponte di Tiberio, codesto «patrimonio invidiabile totalmente ignorato da cittadini e turisti, pregevole solo nelle dissertazione tra dotti, marginale nella vita dei cittadini marginale nei percorsi turistici».

Occorre sempre più e ancora richiamarsi alla Costituzione, anima della Resistenza e della lotta di Liberazione. Il rapporto che lega le scelte dei Costituenti alla stagione della lotta partigiana traspare anche dall’art. 9 della Costituzione che non solo sancisce la necessità di tutelare il patrimonio storico e artistico del nostro paese, ma anche l’obbligo di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca tecnica e scientifica. In altre parole non c’è tutela senza conoscenza, la memoria culturale non si mantiene viva se non con un circolo virtuoso tra patrimonio e cultura.

In questi anni di celebrazione del Ponte di Tiberio gli unici a promuoverne la conoscenza (e i rischi a cui è soggetto a cominciare dalla spessa riga nera che ne ha intaccato i pilastri e dall’acqua ferma e salmastra piena di alghe putrescenti che lo circonda) sono stati due raffinati ricercatori come Giovanni Rimondini e Giulio Zavatta, che hanno tenuto in vita dentro di loro cultura e conoscenza, spesso a costo di sacrifici, esclusione e auto-censure. Per gli altri, per cittadini e turisti, il godimento di tale bene è una superflua corvée sulla passerella dalla quale, di fronte al ponte, non sapranno altro che non fotografarlo con un selfie. Non sapendo nemmeno che la passerella non è ciclabile, nulla sanno del Ponte di Tiberio.
Posso anche ammettere che ci siano persone che possano dare il benvenuto a valorizzazione, riqualificazione e utile economico. Il punto è che il fine essenziale del nostro patrimonio storico e artistico è formare cittadini colti e consapevoli, cioè liberi. Tanto meglio se questa azione educativa, che è però del tutto assente nella nostra città, produce anche reddito, soprattutto attraverso il turismo. Ma la produzione del reddito non può venire prima della tutela, cioè prima delle garanzie di conservazione del patrimonio. Il patrimonio non è nella nostra disponibilità, ne siamo solo custodi in nome e per conto delle future generazioni.

In occasione della Festa della Liberazione il nostro sindaco ha dichiarato che «Non possiamo limitarci alle parole. Per un sindaco opporsi alla grettezza, alla volgarità, al fascismo, alla prevaricazione vuol dire prima di tutto costruire una città più bella e accogliente. Io credo di interpretare i valori scaturiti dalla lotta al fascismo, al nazismo, alla violenza quando mi batto per una città che non escluda, per un welfare di comunità, per luoghi più belli e più fruibili».
Ci sarebbe di che ridere a crepapelle o piangere amare lacrime – questa o quella reazione pari sono – di fronte a una dichiarazione simile, che, contrariamente a quanto si afferma, è puro nominalismo e artificio retorico, ricordando quello che scriveva nel lontano 1975 Pier Paolo Pasolini in Scritti corsari: «Se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo… Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo… Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società».
Per Pasolini la borghesia, in quanto classe al potere – oggi diremmo il PD, il partito degli arroganti e antipatici concentrato su se stesso e da lunga pezza dimentico del popolo – è sempre fascista e, quando dice il contrario, è cripto-fascista.
Se del fascismo attendiamo il ritorno nelle forme vetuste – che pure c’è ma con risultati marginali e che non si ripeteranno mai più – non capiamo che la società si sta fascistizzando in altri modi. Una forma imprevedibile di questi modi diversi di declinare il fascismo è ormai realizzata nella nostra città: il disprezzo per il Consiglio comunale, quasi «un’aula sorda e grigia» ormai sprangata e infrequentata, un dispotismo temperato dalla costante inosservanza delle leggi, l’aver mussolinianamente capito la cosa fondamentale che aveva notato Leo Longanesi nel 1982, ossia che per piacere agli italiani bisogna dare a ciascuno di essi una piccola fetta di potere col diritto di abusarne. E questo è il fascismo odierno, locale. E non fosse che è proprio dalle nostre parti che il fascismo si è incubato, partorito e donato al mondo, meglio sarebbe farsi qualche controllo periodico.
Un accertamento che si può fare è andarsi a rileggere Mussolini urbanista, un libro di Antonio Cederna del 1979, laddove criticava aspramente l’operato di Mussolini che, negli anni Trenta, per collegare Piazza Venezia con il Colosseo, fece spianare la Velia (uno dei colli di Roma) distruggendo antichi quartieri, ma soprattutto facendo costruire Via dei Fori Imperiali che troncava in modo netto e irrimediabile l’area del foro romano dall’area dei fori imperiali di Cesare, di Augusto, di Nerva e di Traiano. «Mai operazione urbanistica di sventramento venne condotta con maggior sprezzo dei dati elementari di conoscenza e cultura» scriveva Cederna.
Le dimensioni dello stradone fascista e della passerella diessina sono, ovviamente, diverse. Ma la concezione di Via dei Fori imperiali e di quella che qui ribattezziamo Passerella dei Cicli sindachesi è la medesima.

L’impresa e le imprese di casa nostra sono in formato lillipuziano dato che – come giustamente diceva il nostro sindaco alle sue origini (nel lontano maggio del 2011), prima di perdere il senno e il senso delle proporzioni – Rimini è un «minuscolo puntino sul Mare Adriatico».
Il Mussolini urbanista che cianciava di romanità senza capirla o, meglio, solo per farne sfondo al suo potere e che demoliva il tessuto storico compreso tra piazza Venezia e il Colosseo per costruire la sua strada dei trionfi ad uso retorico delle celebrazioni di regime, ha la sua piccola eco nel Gnassi che ritiene più importante la Notte Rosa di eventuali elezioni col Rosatellum, in quel medesimo Gnassolini che taglia trionfalmente il nastro di una passerella, nella meno peggiore delle ipotesi ornamentale e nella realtà orrenda anche cosmeticamente, funzionalmente già sconnessa nelle sue assi e, principalmente, diseducativa, sia per il senso civico sia per i valori culturali di una comunità cittadina.
Siamo tornati al fascismo, con una società pre-democratica dove contano solo i soldi, con i gerarchi che ci favoleggiano, con la retorica dominante, che il nostro patrimonio storico si apre alle innovazioni. Salvo dimenticare che quel patrimonio, bistrattato da questa litania di cialtronerie e che va sempre più perdendo la sua funzione culturale, lo manteniamo noi, con le nostre tasse e lo valorizzano solo chi lo studia.
Bisogna dunque resistere. In qualche modo. Perché le chiavi della cultura e del nostro patrimonio storico siano restituite – amorevolmente – ai cittadini, e negate, per sempre, ai signori del totalitarismo economicista con i loro scempi e le loro scempiaggini.

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