Il passato sotto i piedi: per una storia delle strade urbane di Rimini nel secolo XIX

Il passato sotto i piedi: per una storia delle strade urbane di Rimini nel secolo XIX

La "breccia", il “sasso del monte di Pesaro” e il “sasso del Marecchia”, i lastroni di granito del ponte di Tiberio. Il sistema dei sassi di selce venne abbandonato nel '900, quando si cominciò ad usare il manto stradale. Rimangono per fortuna il pavimento a cubetti di granito rosso in piazza Cavour e il pavimento lungo il Corso di Augusto dalla piazza fino al ponte romano. Auguriamoci ancora a lungo.

Un raro spazio a breccia (cementata) si vede a lato di via Tonini, dopo il cancello di ingresso di un cortile del museo.

LA BRECCIA NELLE “STRADE POSTALI”

La “breccia” di ghiaie piccole e di medie dimensioni è di uso antico e rinnovato nei secoli per le strade esterne e interne. All’inizio dell’800 la breccia sembra essere usata dovunque ma certamente non era sempre stato così e vi erano tratti di vie a mattoni messi in coltello e “a sassi del Marecchia” dovuti alle iniziative dei proprietari delle case che davano sulle vie – si veda il primo volume de L’Abitazione Riminese nel ‘400 di Oreste Delucca -. Le “strade postali” – lungo le quali transitano a cavallo i cavallari con le sacche di cuoio della posta – sono anzitutto la via Flaminia e la via Emilia e il tratto che attraversa la città per unirle – l’attuale Corso d’Augusto e l’attuale piazza tre Martiri -. Sono a spese dello stato anche le brecce da pressare le strade minori nel tratto urbano collegate con la postale, per un tratto di circa 8 metri.
Nel tratto brecciato della via Emilia che attraversa il Borgo San Giuliano, poco distanti dalle case c’erano nel 1812 alcune buche da grano. Conservare il grano sottoterra è un segno inquietante dell’arcaismo della società romagnola. Le buche da grano sono una persistenza della protostoria se non della preistoria. Al centro della Capanna delle Vestali a Roma, dell’VIII secolo avanti Cristo, Andrea Carandini ha scoperto la buca dove erano conservati oggetti cultuali e viveva un serpente sacro. A lungo vennero usate a Rimini.

Traccia di una buca da grano, inquadrata da mattoni a coltello, in piazza Malatesta, davanti alla Banca Valconca.

Nel consiglio comunale del 13 marzo 1865, si prendono provvedimenti per le fosse da grano aperte sotto i portici: “Sono eccettuate le operazioni che si praticano per le fosse da grano ‘esistenti’ [forse non se ne permettevano più di nuove?] le quali saranno tollerate sino ad emanazione di speciali provvedimenti al riguardo per delibere del Consiglio. Tali fosse esistenti non potranno lasciarsi aperte di giorno senza valido riparo, e nella notte dovranno essere chiuse con sovrapposto selciato.”
Le buche da grano sono state in anni recenti trasformate in fosse per un tipo di formaggio.
Ma nel 1812 le buche da grano nel Borgo di San Giuliano sulla strada postale, che venivano coperte con un tumulo di terra e creavano ingombro e fango, sono fatte chiudere per ordine del Vice Prefetto Luigi Pani. Quello che è rimasto del Regno napoleonico mostra uno stato ben organizzato e funzionante che cancella sistematicamente il passato che intralcia il presente.

Il piancito di granito di Bevano che ha sostituito la breccia dal 1883 nel selciato del ponte.

LA BRECCIA SUL PONTE DI AUGUSTO E TIBERIO E IL PIANCITO DI GRANITO

E’ brecciato da secoli anche il piancito del ponte di Augusto e Tiberio. Un dramma lungo di instabilità strutturale. Non si contano gli interventi nei consigli comunali, perché il Comune si considera comproprietario del ponte, ma non vuole sostenere le ingenti spese di manutenzione. Anche gli esperti pareri dei periti di Legazione lamentano le cattive condizioni del piancito e la necessità di rifarlo con “selci”, non con “sasso di San Marino” meno costoso ma di immediata consumazione. Tutti gli esperti sconsigliano di mettere sul piancito originario la ghiaia o “breccia”, responsabile del passaggio delle acque sulle strutture sottostanti degli archi, ma sempre, spaventati dal costo notevole delle “selci”, i cardinali legati decidono di rinnovare la breccia.
Nel consiglio comunale del 13 ottobre del 1775, tanto per citarne uno, si discute del riattamento del “Ponte di San Giuliano nel piancito sopra gli archi”; è prevista una spesa ingente per i “selci” di 1000 scudi. Il parere votato dal Consiglio generale di Rimini venne certamente trasmesso a Forlì e messo agli atti.
Durante il Regno d’Italia napoleonico, un documento del perito d’ufficio Matteo Crudomiglia del 4 maggio 1810, comunica agli ex Cittadini ora di nuovo Signori Consiglieri, che “il selciato del ponte così detto di San Giuliano formato di grossi selci quadrati è talmente rovinato che meriterebbe di essere rifatto nuovamente” ma la spesa occorrente di £ 118 non è stata calcolata nel budget del Comune. Il Comune si trova ad avere una parte dei 50 selci ritenuti necessari per riparare le “buche” più grandi. Il Prefetto approva la spesa e il pavimento viene riparato con le selci del Comune a altre “provenienti dalle Alpi”, ma non devono essere stati grandi lavori se poi sopra il piancito rimettono la breccia.
Il 16 dicembre 1843 l’ingegnere aspirante Pastorelli spiega al cardinale legato che bisogna far levare la breccia, responsabile delle filtrazioni d’acqua negli archi sottoposti al selciato. Circa dieci anni dopo, il problema è di nuovo all’ordine del giorno. Gli ingegneri della Legazione descrivono il piancito antico, ma forse non più originale o del tutto originale: “il lastricato del suo piano carreggiabile è di dura selce in forma di quadri di più dimensioni legati con buon cemento. Il tempo consumatore delle opere le più durevoli aveva consunto ancora questo lastricato, ed il continuo transito dei rotabili spesso sovraccaricati di pesi esuberanti aveva prodotto solcature e depressioni tali da rendere intransitabile il Ponte stesso.”

Particolare di una lastra di granito col numero 55.

La mancanza di cave di “selci” vicine rendeva grave la spesa per una riparazione durevole. La breccia ancora una volta, era indicata quale responsabile della “copia di trapelazioni d’acqua” che minacciavano la stabilità degli archi, che peraltro continuavano a tenere duro. Per la prima volta gli ingegneri presentano anche una soluzione reale del problema delle selci: in territorio veneto, al momento austriaco, a Monte Merlo di Padova esiste una cava di selci [di granito e basalto]. Il materiale costa uno scudo al metro quadro, ma c’è da calcolare il trasporto fino a Padova e poi da Padova a Venezia e per via di laguna e mare da Venezia a Rimini.

L’epigrafe di sinistra del ponte romano, uscendo da Rimini, ‘restaurata’ nel 1851 con spranghe di ferro e calce ferrosa. La gabbia di ferri e calce ferrosa, per quanto rozza, è un monumento della storia del restauro.

Non se ne fa niente, ma intanto erano state ingabbiata con spranghe di ferro e saldata con una speciale calce a base di ferro, una buona metà delle lastre dell’epigrafe a sinistra uscendo da Rimini, che sembrano avere ricevuto un grosso colpo distruttivo forse da una diligenza o da un carro. Il restauro è decisamente massiccio, ma almeno non erano stati eliminati i frammenti di testo epigrafico come era stato previsto; andate a vederlo.
Il problema si risolve nel 1883, a spese dello stato nazionale con la compartecipazione del Comune. Il piancito risulta di buona tenuta e segna la definitiva scomparsa della breccia e la posa in opera di lastroni delle cave di granito del Baveno sul lago Maggiore da poco aperte. I grandi lastroni di granito sono stati restaurati qualche anno fa dall’architetto Pier Luigi Foschi, e sono ancora in buono stato se pure non nella posizione originale.

Parte di una mappa di Rimini conservata a Roma con l’attuale piazza Malatesta piazza Malatesta è posteriore al 1857 anno dell’inaugurazione del Teatro. Si noti la presenza delle mura urbane tra il castello e l’area dell’attuale palazzone del notaio. Vennero distrutte nel 1905 per mettere in comunicazione piazza Malatesta con via Valturio e via Condotti.

LA “PIAZZA DEL CORSO” O “DELLA CITTADELLA” OGGI PIAZZA MALATESTA NEI PRIMI DECENNI DELL’800

All’inizio degli anni ’20 dell’800 il fossato di Castel Sismondo comincia ad essere riempito. Il protagonista di questa operazione è il forlivese Francesco Romagnoli che aveva acquistato l’edificio della ex cattedrale di Santa Colomba, un palinsesto di costruzioni dei secoli VI – XIII. Santa Colomba è stata l’unica cattedrale italiana demanializzata dell’epoca napoleonica, e non da Napoleone ma a sua insaputa dai “gacobini” riminesi per fare un dispetto al vescovo codino Vincenzo Ferretti. Un gruppo di fedeli riminesi si era offerto di riacquistarla, ma il vescovo, al quale la vecchia cattedrale non piaceva, si era accontentato, per dire, del Tempio Malatestiano, offerto da Napoleone in persona il giorno della sua incoronazione a re d’Italia a Milano.

Particolare di un soffitto della casa di Francesco Romagnoli. Si ringraziano gli architetti dello Studio Mori, Cumo, Roversi.

Il Romagnoli aveva demolito l’edificio e aveva trasportato il materiale non utilizzabile per l’edilizia, cioè esclusi i mattoni utilizzabili e i marmi da calcinare, nel fossato. Poi nella ex canonica adattata a campanile al tempo di Sigismondo aveva ricavato la sua abitazione. L’imprenditore forlivese si era accollato nel 1816 anche la costruzione del Gioco del Pallone, dietro la sua abitazione, con progetto dell’ingegnere distrettuale ravennate Guido Romiti ed esecuzione del capomastro Giovanni Morolli. Nell’estate del 1825 scrive al Gonfaloniere perché gli venga concesso di sistemare la piazza del Corso “ingombrata da alcuni promontori di terra e di terrapieno ad uso di trincera che toglie tutta la visuale del Forte malatestiano” si obbligava a “terrapienare un buon terzo di questo piano a tutte mie spese, facendo in modo che le acque con dolce pendio scolassero da due parte e cioè dal lato della Fortezza cominciando dalla prima guardiola alla diritta, e dalla parte dei Macellari collocando la Terra nelle adiacenti Fosse. Essendo di molto costo l’operazione, e quindi vantagiosissima al Piazzale suddetto. Io non domando altro compenso, che rinvenendo dei materiali mi siano dovuti a titolo dell’opera suddetta.” Francesco Romagnoli è uno dei “cattivi” per gli storici di Rimini, interessato a scavare anche intorno all’Arco di Augusto per trovare materiali da costruzione. Come poi capiterà in seguito con altri “cattivi” distruttori, confessa il suo intento nello stesso documento che ha inviato al Gonfaloniere. Come si possono infatti rinvenire “dei materiali” dovendo terrapienare una piazza?

Il c.d. Campanile di Santa Colomba casa di Francesco Romagnoli.

E infatti cosa fa il Romagnoli? Comincia a demolire il muro di controscarpa, per ottenere poi solo i pochissimi mattoni di rivestimento. Viene denunciato perché il muro di controscarpa appartiene allo stato come tutto il castello. Non viene condannato a riparare i danni prodotti perché ha dei parenti tra i prelati influenti del Vaticano.
Ma per il nostro fine questo documento ci descrive com’era il piazzale davanti ai fossati del castello nel 1825. Aveva un piano di terra che si alzava con i resti dei delle “trincee” fino al muro che si levava sull’orlo dei fossati. Ma vicino alla casa del Romagnoli e agli edifici che il capomastro Giovanni Morolli, in combutta con lui, stava costruendo, venivano apprestati dei “marciapiedi” ad acciottolato, o a mattoni di coltello o a breccia. Esiste un progetto di quegli anni che prevede il piantamento di alberi, in doppia file, davanti alle case della futura piazza Malatesta.
Lungo la linea delle case a est della piazza si vedono i resti di un marciapiede in selce del Marecchia e l’orlo di un pavimento ad acciottolato.

Marciapiede a sasso del Marecchia con resti dell’acciottolato della piazza Malatesta lungo le case dell’orlo orientale.

Lungo il lato ovest della piazza il patriziato e la nobiltà riminese erano soliti uscire con cavalli e carrozze per fare ogni sera una sorta di esibizione sociale sul Corso. Questo certamente era una strada brecciata. I nobili della città o patrizi che avevano titoli di nobiltà pontifici ed europei facevano anche uno struscio a piedi sotto il portico di palazzo Garampi, uno spazio a loro riservato proibito ai riminesi plebei. Negli ultimi anni del Regno napoleonico un nuovo Corso per le carrozze assai più lungo era stato aperto tra porta Romana, pochi metri davanti all’Arco di Augusto, fino alla Chiesa della Colonnella.

L’ACCIOTTOLATO DELLE STRADE INTERNE DI RIMINI DEL 1847 E ANNI POSTERIORI

Nel 1847, in un momento politico favorevole per Liberali e Nazionalisti, con le simpatie dell’intera Italia per il nuovo papa Pio IX, che sarebbero durate fino al ritiro delle truppe pontificie nella guerra contro l’Austria, che noi chiamiamo prima guerra di Indipendenza, in consiglio comunale si erano decisi miglioramenti ai selciati interni della città, esclusi i Borghi.
La visione urbana doveva essere drammatica, il consiglio comunale non aveva mai speso uno scudo per una sistemazione del decoro e dell’igiene pubblica. C’erano ancora come nel Medioevo le fogne all’aperto in fossi che correvano al centro delle strade, che dovevano essere “spurgati” tre o quattro volte l’anno, quando s’erano riempiti di rifiuti ed escrementi; le facciate degli edifici erano sporche e parte dei rivestimenti di calce caduti e quando pioveva i tetti scolavano direttamente l’acqua sui passanti. Si era deciso, dopo due anni di dibattiti, verso la fine dell’anno di sistemare i “selciati degradati” con “sassi nuovi da prendere nel fiume Marecchia di ottima qualità… di altezza di cm 12 con testa non minore di cm 5 in quadrato, possibilmente piani e uniti insieme a maggior contatto” da collocarsi su un letto di sabbia marina di cm 12. Il nuovo piancito doveva essere ricoperto da circa 2 cm di sabbia per chiudere eventuali spazi vuoti.
Erano previsti nuovi selciati ad acciottolato nella piazza Fontana – attuale piazza Cavour -, piazzetta San Martino, vicolo Pallone, la strada del Filatoio, il piazzale della Cattedrale – Tempio Malatestiano –, la strada dietro le mura tra la porta San Giuliano verso il Corso, il vicolo delle carceri vecchie – dietro il palazzo Garampi -, la strada del Duomo vecchio – che doveva corrispondere al Corso vecchio nell’attuale piazza Malatesta -, la strada Cittadella – in continuità con la precedente – la strada Porta Bologna – alias porta San Giuliano – fino al Gioco del Pallone, la strada del nuovo Teatro – iniziato nel 1842 -, la via di fronte alla Caserma Carabinieri [pontifici, tra il c.d. Campanile di Santa Colomba, allora casa Reggiani, e la via della Cittadella], per nominare solo i progetti dell’area intorno e dentro l’attuale piazza Malatesta.
Non era prevista ad “acciottolato ordinario”, come verrà chiamato più tardi, la piazza grande o di S. Antonio, chiamata dopo l’unità nazionale piazza Giulio Cesare attuale piazza Tre Martiri, che non doveva essere certamente a breccia, e nei documenti che ho consultato non si capisce come fossero sistemati i fossi o fogne all’aperto nelle varie strade.

Resti dell’acciottolato davanti al castello posteriori alla chiusura del fossato negli anni ’20 dell’800.

LE FOGNE COPERTE LUNGO LE STRADE DOPO L’UNITÀ NAZIONALE 1856 – 1863 E SEGUENTI

Le prime timide sistemazioni delle fogne, anzi della fogna all’aperto più grande, il “Rigagnolo della Fontana”, fossa maleodorante e vergognosa, che era fonda circa 90 cm., si ebbero nel 1854. L’acqua che la percorreva, usciva dal Fontanone, sul fianco destro del teatro, dalla Fontana della Pigna e dalle quattro fontanelle della Pescheria, correva lungo la attuale piazza Cavour, poi l’ungo l’attuale via Gambalunga per voltare a destra circa all’altezza dell’attuale via Oberdan e raggiungere nei pressi dell’ex convento di San Cataldo un lavatoio pubblico e poi, uscendo dalle mura, si scaricava nel fossato di Marina. Non si immagina nemmeno come si potesse utilizzare l’acqua in arrivo, mescolata a rifiuti e a scarichi di latrine nel lavatoio pubblico, nel quale venivano lavati anche i lenzuoli dell’Ospedale. L’ingegnere Maurizio Brighenti (1793 – 1871), uno dei due giovani che avevano risposto nel lontano 1815 all’appello di re Gioacchino Murat, era stato incaricato di studiare il problema e nel 1856 era stata costruita una “chiavica sotterranea al Rigagnolo della Fontana” che doveva prevedere due condotti uno delle acque luride e piovane e uno dell’acqua delle fontane per il lavatoio. Il lavoro però era stato contestato, la gente si lamentava per il cattivo odore lungo la strada peggiore di quello di prima, causato dall’intasamento dei condotti piuttosto piccoli – m. 0,60 per m. 0,30 –.

Abbozzo dell’Ufficio Tecnico che mostra la sezione di una strada minore con la fogna coperta.

La nuova amministrazione comunale del Regno unitario nazionale dei Savoia decise già nella seduta consigliare del 21 maggio 1861 di fare le cose con maggiore spesa e decoro, sempre a partire dalla copertura del Rigagnolo della Fontana. Questa volta si prendevano in considerazione anche le strade, messe a colmo e ricoperte da “sassi squadrati di Pesaro” con allacciamenti alle fogne – non ai pozzi neri – delle case che davano sulle strade.

Una casetta del Borgo San Giuliano senza cornicione, precedente gli anni ’60 dell’800.

I proprietari erano obbligati a mettere delle grondaie alla fine dei tetti, sotto alle quali erano previste delle cornici classiche – i cui disegni erano autorizzati dalla Commissione dell’Ornato -. Dalle grondaie le canalette conducevano l’acqua sino al piancito stradale, che pulivano uscendo da tubi terminanti in cubi di pietra di San Marino – alcuni ancora esistenti -, oppure si infilavano sotto terra per i condotti sotterranei, raggiungibili anche da lastre forate. Queste operazioni durarono decenni e sono ancora in parte visibili.

Il fascino del Borgo di San Giuliano, abitato da secoli da ortolani locali e da pescatori e marinai di origine chioggiotta, in gran parte emana dalle case basse con un piano superiore, che, se escludiamo i camini romagnoli – se ce n’erano di veneziani sono scomparsi -, hanno una connotazione lagunare, come nelle isole di Burano, Murano o di Chioggia, con colori vivaci, e qualche resto di contorni bianchi alle finestre – come nella chiesa – ma con le cornici ‘classiche’ imposte dalle amministrazioni unitarie dell’800. Va precisato però che il Borgo di San Giuliano è stato ‘bonificato’ con fogne e strade selciate sono negli anni ’30 del ‘900.

Il selciato a sassi del Marecchia deciso nel 1861, più volte rimaneggiato, in via Giovanni XXIII già via del mare e poi via Principe Umberto.

IL “SASSO DEL MONTE DI PESARO” E IL “SASSO DEL MARECCHIA”

Non è sempre chiara, per chi scrive, la distinzione che si trova nei documenti dell’800 tra “sasso di Pesaro” e “sasso del Marecchia”, i materiali delle selciature dopo l’unità italiana; in fondo il Marecchia da Verucchio in su fino allo spartiacque scorreva nel “monte di Pesaro”, solo da pochi anni il Montefeltro marecchiese è entrato in Romagna. A risolvere la questione saranno ricerche mirate a individuare le aziende che raccoglievano, lavoravano e vendevano le selci nel greto del Marecchia o del Foglia, i cui nomi si trovano certamente nell’archivio comunale dei contratti. Si trattava in effetti di selci la cui industria era cominciata nell’età della pietra.
Ricordo che nella valle del Foglia si trova il comune già castello di S.Ippolito che dai tempi dei Malatesta ha riempito l’area pesarese e la nostra area di sculture di portali, finestre, altari, vasche di pietra calcare, di arenaria, e di pietra di Cesena. Probabilmente si occupavano anche di selciati, va documentato.
E’ chiaro invece un documento di Orlando Orlandi, un commerciante o produttore di Pesaro che offriva le sue selci alla giunta del sindaco Pietro Fagnani. La sua lettera venne letta nella giunta del 11 dicembre 1870, contiene un’offerta di “selci ottimi di Pesaro… selci scelti che hanno una durata pressoché eterna con guidana nel mezzo del colmo”. Il sindaco Fagnani faceva scrivere nel verbale: “Agli Atti essendosi preferito il Sasso del Marecchia”. In quell’anno il selcino Luigi Lunedei riparava il “selciato in sasso squadrato” del Corso di Augusto e in via Principe Umberto – oggi via Giovanni XXIII – dove il manto stradale in “sasso squadrato del Marecchia”, completato nel 1867, si è conservato. Anche nel 1965 nel “Progetto Filippini” era suggerito di sostituire all’attuale pietra di Pesaro in malta di calce quella squadrata del Marecchia ed eseguita in arena o come dicesi a secco.”

Vicolo Fagnani tra via Santa Maria a Mare e via Clodia, selciato in tempi recenti con sasso del Marecchia di risulta.

In quell’anno infieriva il colera (morbo asiatico) e la giunta aveva preso la decisione di chiudere i vicoli di Rimini, dove non c’erano certamente, come oggi, pavimenti a sasso del Marecchia. Il notaio Luigi Casaretto, che aveva fatto i conti in tasca ai Baldini padroni dello Stabilimento Bagni, afferma che nemmeno negli anni del colera, che furono molti nell’800, l’azienda bagni aveva registrato delle perdite. In uno di questi anni terribili un focolai di colera si era manifestato a Viserba. Dapprima si cercarono le cause nell’acqua, che a Viserba era abbondante e pure, poi si capì da cosa dipendeva il colera di Viserba. Gli ortolani andavano all’Ospedale Civile per avere le urine dei degenti con le quali concimavano gli orti.

Cubo di scarico dell’acqua piovana (1863)

Le selciature a sasso del Marecchia, come abbiamo visto vennero sperimentate nel 1863 nel Corso di Augusto, Via dei Magnani – via Garibaldi – e poco dopo sostituirono il sasso di Pesaro, ma anche il sasso del Marecchia ‘degradava’ in vari punti, per cui nel 1870 le tre vie principali di Rimini vennero riparate. Nello stesso anno continuava l’uso della “riselciatura a ciottoli” nelle strade inferiori – via Castelfidardo, via Patara, vicolo Amaduzzzi, via San Nicola, i bastioni di porta Montanara, via dell’Arena -.
Nel “Piano di esecuzione per le Selciature a Sasso Squadrato del Marecchia alle Strade Via Corso d’Augusto e Via Magnani [via Garibaldi]” del 1864, si descrive il metodo della posa in opera dei sassi: dapprima si preparava il “letto” con circa 10 cm di “arena di Mare”. I singoli blocchi di selce erano così misurati:

“Preparato in tal modo il piano verrà eseguita la Selciatura colla suaccennata pietra perfettamente squadrata in modo che i cunei abbiano la forma di piramide tronca con facce laterali leggermente inclinate. L’altezza di essi ovvero la grossezza del Selciato sia nei precisi limiti di met. 0,14 e met. 0, 20 e i lati del rettangolo che ne formano il piano alla superficie stradale non siano minori di met. 0, 08 né maggiori di met. 0, 20. Questo Selciato sarà costrutto a spina nella parte compresa dalle due cunette ed a filari, negli spazi limitati da queste, e dalli tellari che, potendosi in queste zone far uso di queste pietre che avessero i lati del precitato rettangolo maggiori dei sopracitati limiti.”

Queste ultime parole sulla forma della disposizione delle pietre ci fanno capire che i pavimenti a sasso del Marecchia che ci sono arrivati non hanno più però la forma a spina di pesce, evidentemente nei restauri hanno perduta la disposizione originaria. Il documento continua:

“Per met. 10.092 di Selciato a sasso del Marecchia eseguito come alla descrizione a £ 50 comprese la disfattura del vecchio selciato, scelta del materiale atto a riporsi in opera nei selciati a ciottoli naturali trasposto dal medesimo in regolare ammassamento nel recinto del Gioco del Pallone, e trasporto dei rottami nel cavo presso la Stazione della ferrovia…”

Il selciato a cubetti di granito rosso o di porfido degli anni ’30 del ‘900, bellissimo ma malmesso e disposto a ventaglio nella piazza Cavour, già piazza della Fontana e nel Corso d’Augusto tra la piazza e il ponte romano.

Il sistema dei sassi di selce del Marecchia venne abbandonato nel ‘900, quando si cominciò ad usare il manto stradale. Di recente è stato disfatto il bellissimo selciato a cubetti di granito rosso degli anni ’30 nella piazza Tre Martiri. Rimangono per fortuna, ma fino a quando?, il pavimento a cubetti di granito rosso o porfido in piazza Cavour, bellissimo, di sapore archeologico ma tenuto malissimo, e il pavimento lungo il Corso di Augusto dalla piazza fino al ponte romano.
Auguriamoci che nessun Ingegnere comunale o architetto di regime voglia lasciare un segno…

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