In battaglia per la libertà di credere

In battaglia per la libertà di credere

Il giovane Luigi Negri nelle pagine dei libri di storia. Quando, sessanta anni fa, c’era chi voleva inquadrare gli studenti nel “partito unico”. Un ritratto che introduce anche sulla soglia del suo magistero di vescovo, a San Marino prima e a Ferrara poi.

Guardando gli avvenimenti dal punto di vista soprannaturale la morte di monsignor Luigi Negri non è perdita ma acquisto in cielo, dove non c’è tempo né storia.
Sotto l’aspetto storico e umano, invece, è dolorosa la perdita soprattutto per i tanti che sono stati alla scuola del sacerdote milanese, ma non solo per loro.
Lo si è definito “un prete da battaglia”. Sicuro. E in buona compagnia, dal momento che il Papa emerito Benedetto XVI, ricevendolo in visita privata nel febbraio 2014 e commentando con lui la situazione del rapporto fra Chiesa e mondo, disse: “se non c’è battaglia, non c’è cristianesimo”.
Ma ora domandiamoci: per che cosa ha combattuto don Negri? e qual è la consegna che le sue battaglie suggeriscono oggi?
Un lacerto di risposta, pur provvisoria e parziale, possiamo ricavarla dai libri di storia – sì, perché Luigi Negri non solo ha scritto libri di storia, ma nella storia della Chiesa ci è già entrato, prima che fosse fatto vescovo, prima ancora che fosse ordinato sacerdote. Possiamo sapere qualcosa della sua personalità addirittura da ragazzo, studente liceale e universitario.

Luigi Negri con don Giussani durante un incontro nella sede di Gioventù Studentesca in via Statuto a Milano, nel 1963 (la foto appartiene all’Archivio Fraternità di CL ed è tratta dal sito internet di Comunione e Liberazione).

Ce ne parla una voce autorevole, Massimo Camisasca, attuale vescovo di Reggio Emilia – Guastalla, nei suoi libri di Edizioni San Paolo sulla storia di Gioventù Studentesca, prima, e di Comunione e Liberazione, poi, libri che attraversano la storia della Chiesa dagli anni Cinquanta in avanti. “Era stato per anni presidente della commissione cultura di GS e uno dei principali collaboratori di don Giussani nella conduzione del movimento dal 1960 al 1965”, scrive Camisasca [Comunione e Liberazione. Le origini (1954-1968), Cinisello Balsamo 2001, pp. 145 e sgg.]. In quegli anni Negri entra nella querelle sorta a proposito delle associazioni studentesche: “erano concepite – scrive Camisasca – come parlamenti in miniatura dove […] politicamente si affermava il desiderio della sinistra di preparare il mondo giovanile all’incontro tra cattolici e socialcomunisti attorno agli ideali della Resistenza”. Il punto è che tali associazioni “pretendevano di essere l’unico contenitore educativo per i ragazzi”, di qui “la battaglia mossa da GS contro il progetto culturale che, servendosi degli organismi studenteschi, era messo in atto dalle forze laiche e marxiste del paese”. Ancora: “il disagio e la polemica politica divennero insostenibili, tanto che la stessa autorità ecclesiastica non poté che approvare nel ‘61-62 gli studenti cattolici milanesi, che decisero di abbandonare le associazioni”. “Dobbiamo educare i giovani alla politica”, dicevano liberali e sinistre, e i giovani di GS rispondevano dal loro giornale Milano Studenti: “Col partito unico si vuole educare alla democrazia?”. In quel periodo le cronache ricordano il giovane Luigi Negri, insieme ad altri due giessini, cercare di intervenire al Circolo Turati ad un dibattito presieduto da Paolo Grassi, per portare le ragioni dei cattolici, e cioè “l’idea giessina di educazione come verifica di una tradizione e di democrazia come corresponsabilità di identità chiare e formate”.
Partito unico, da una parte, dall’altra identità e tradizione: sorprendente attualità. Largamente incompresi ed emarginati, i cattolici non stavano con le mani in mano e promuovevano liberi convegni culturali. In uno di questi, il ventunenne Negri relaziona sul tema “Cristianesimo e socialità” e dice: “Il mondo, sia a Est che a Ovest, ha come unica caratteristica la piattezza: la socialità è ovunque avvertita solo come un impoverimento dell’umano. […] Il cristianesimo come valorizza la responsabilità della persona, così promuove il nascere di una società pluralista, unica condizione di effettiva democraticità: questo pluralismo si deve verificare in particolare nell’educazione e nella possibilità dei giovani di usare del tempo libero. Solo una partecipazione viva e generosa alla comunità ci fa scoprire integralmente la nostra persona e ci muove con passione e dedizione vera verso tutti gli altri. […] L’unico dovere che incombe alla nostra età è quello di educarci veramente al cristianesimo, come introduzione paziente e solida a tutte le cose, vivendo anzitutto la comunità della Chiesa”.
Una decina di anni più tardi troviamo Negri, appena ordinato sacerdote, scelto nel 1972 come guida di Gioventù Studentesca con il programma “Per un movimento di liberazione nella scuola” e più precisamente “porre un fatto definitivo e globale: la comunione cristiana, matrice di un nuovo sapere”. Ne parla il secondo libro storico di Camisasca [La ripresa (1969-1976), Cinisello Balsamo 2003, capitolo “La battaglia culturale e politica nelle scuole”, pagg. 110 sgg.].
Ancora una volta Negri e i giessini stanno al fronte, in una “battaglia contro il primato dello Stato come soggetto educativo – scrive Camisasca – e contro la pretesa neutralità della scuola di Stato, a cui si accompagnava l’affermazione della neutralità della scienza come sapere oggettivo, valido per tutti”, mentre, su altro versante, “gli extraparlamentari, soprattutto attraverso certa pratica assembleare, avevano ridotto la scuola a un loro feudo, impedendovi di fatto ogni elementare forma di democrazia”.
“La battaglia – insiste ancora Camisasca – che don Negri e gli insegnanti di CL volevano combattere si configurava come difesa della possibilità di vivere la propria identità cristiana nell’ambiente scolastico e, quindi, come difesa della stessa democrazia nella scuola”. Con i “decreti delegati” si apre poi la stagione delle prime elezioni scolastiche (febbraio 1975): la GS a guida Negri “ottenne il 30% dei seggi tra gli studenti milanesi, il 35% in Lombardia, il 20% (con punte del 30% in alcuni istituti) a Roma. Ciò mise in allarme le altre forze in campo”. Di lì a poco, dalle intimidazioni e alle minacce si passa alle bombe molotov e alle sprangate, al grido “le sedi di CL si chiudono col fuoco, anche se questo è ancora troppo poco!” (foglio murale comparso il 5 maggio 1975). Scrivono in una lettera a quattro mani don Giussani e don Negri: “Ci sembra ormai possibile parlare di un nuovo totalitarismo ideologico che, se tollera ancora la fede come fatto della coscienza privata, cerca, anche con la violenza, di impedire ogni emergenza pubblica e ogni incidenza politica. Il nome stesso di cristiano, come ha affermato il cardinale Poletti [all’epoca Vicario del Papa, ndr], è spesso contrastato come se fosse colpa sociale”.
E allora – in conclusione – qual era il succo della battaglia che Luigi Negri ha combattuto generosamente fin dagli anni della giovinezza? “Noi non ci sentiamo divisi tra due logiche, quella divina e quella umana: ma sentiamo ogni giorno di più che proprio dalla nostra identità cristiana nasce la capacità di un contributo specifico e costruttivo alla vicenda della società civile”, scriveva da giovane prete sulla Rivista del Clero Italiano, replicando a chi, sulla stessa rivista del clero, aveva accusato CL di voler dilatare la propria presenza, come se ciò rappresentasse un delitto di lesa maestà.
Negri ha speso le sue energie perché fosse possibile ai giovani l’incontro con il Sommo Bene, Gesù Cristo. Contro l’unanimismo e il potenziale totalitarismo del pensiero unico, il suo è stato un contributo che reclamava libertà e aperto alla libertà di chiunque. Per questa battaglia il campo è aperto, ancora oggi.

'La pace è vivere la vita come obbedienza a Dio'

La Chiesa oggi pare preoccupata di risolvere i problemi secondo le preferenze del mondo. Ma il suo compito è la fedeltà a Cristo, che anche oggi chiede a ciascuno di noi: “Che cosa pensi di me?”. Riproponiamo uno scritto del vescovo Luigi Negri del 2019, che coglie un tema attualissimo.

Ci sono cose che non vorremmo più sentire ed ascoltare: i continui interventi sui disagi della Chiesa, sull’insieme delle sue inadempienze morali. Non nel senso che noi pretendiamo che la Chiesa non abbia difetti o limiti, ma perché l’essenza della questione della Chiesa è un’altra: come ci è insegnato con una fedeltà assoluta nel magistero ecclesiastico della tradizione, la Chiesa è un mistero.
Non si può ricondurre la Chiesa a nessun complesso di condizioni o di condizionamenti umani. La Chiesa non fu ridotta e non potè essere ridotta alla chiesa dei pagani o alla chiesa dei greci. In tutta la sua storia la tentazione è sempre stata quella di identificarla per un problema emergente oppure per un problema considerato determinante. Ma la Chiesa ha un solo problema determinante: la fedeltà a Gesù Cristo e la sua evangelizzazione.
La gerarchia dei valori della Chiesa, quella a cui deve permanentemente essere fedele e ritornare, è che innanzitutto c’è Cristo, e il resto consegue. «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in sovrappiù» (Mt 6,33).
La difficoltà oggi è vedere una Chiesa che si arrabatta a seguire i problemi del mondo, che riceve secondo la mentalità mondana e senza avere la forza e l’energia per ribaltare la logica di questa gerarchia; una Chiesa che si preoccupa di riuscire a risolvere i problemi così come li riceve dal mondo e secondo le preferenze del mondo.
La Chiesa ha un compito prioritario: vivere il rapporto con Cristo e comunicare agli uomini quella novità di vita che la presenza di Cristo comporta, che la presenza di Cristo le dona. E facendo esperienza di questa novità di vita tendere inesorabilmente a comunicarlo a tutti coloro che vivono in questo tempo come hanno vissuto in altri tempi. Quello che è necessario è avere sempre chiara la gerarchia dei valori e dei problemi, non raffazzonandoli così come la mentalità mondana ce li propone e finisce per imporceli, ma facendo scaturire dalla esperienza della fede la capacità di porre gerarchie sempre nuove alle problematiche umani, sociali, culturali e politiche.
Oggi la Chiesa gioca la sua credibilità non tanto se continua a dire che in essa sono stati perpetrati degli abusi, anche se certamente sono stati perpetrati degli abusi; non se si dice che la Chiesa deve chiedere perdono, che poi non si riesce neanche a stabilire o a dire con chiarezza a chi deve chiedere perdono: alla mentalità dominante, alle istanze fondamentali della società? O deve chiedere perdono a Dio? Addirittura questo rimane imprecisato.
Deve invece recuperare la grande lezione della tradizione: la Chiesa è mistero di Dio che si dona agli uomini. La Chiesa è il mistero di Cristo che è presente in essa, non confondendosi ad essa ma neanche vivendo separato da essa. È la presenza – secondo l’immagine della tradizione – del corpo e delle membra, dello sposo e della sposa.
Noi dobbiamo rivivere il mistero della Chiesa, che è un mistero di comunione del Signore con noi e la chiamata degli uomini a vivere la comunione con Lui. Questo semplice e radicale inizio deve essere sempre di nuovo invocato e quindi poi proposto agli uomini.
Determinante dunque è che la Chiesa viva di preghiera, non di affermazioni di progetti, di propositi, di diagnosi, di analisi. A un certo punto serviranno anche queste ma innanzitutto serve confidare continuamente la vita a Cristo, perché Cristo ne prenda possesso. Ci ritroviamo tutti in quella magnifica definizione di Jean Guitton, che chiedeva al Signore che occupasse totalmente il suo cuore senza lasciarne neanche un pollice che non fosse invaso da Lui.
La vita è nostra perché è di Dio; il senso della nostra vita lo possediamo anche noi ma non perché lo creiamo con la nostra intelligenza o la nostra capacità culturale, sociale e politica. Ma perché questo senso della vita ci è donato, ci è donato da una Origine che non controlliamo e ci spinge verso un esito che anch’esso non controlliamo ma di cui siamo certi. E così la nostra vita diventa un cammino; per dirla con la definizione di Robert Spaemann, carissimo amico di Joseph Ratzinger, «il nostro non è il sentiero polveroso del nulla ma il sentiero luminoso dell’essere».
Questa è la sfida che riceviamo anzitutto da Cristo. Cristo che ci chiede «che cosa pensi di me?». Questa grande domanda che Cristo ha rivolto ai primi si riverbera nella vita, nel cuore e nella coscienza di ogni generazione cristiana. Che cosa pensiamo di Cristo, che cosa significa Cristo per noi? La parola di un alfabeto umano dominabile dal punto di vista della cultura mondana, o la parola di un altro alfabeto, l’alfabeto della Grazia? La Chiesa è sfidata ogni giorno da Cristo a ritrovare la sua identità in Lui, per Lui e con Lui. Sfidata ad accogliere questa grazia come un dono purissimo sull’immagine, sull’esempio e per la protezione di Maria Santissima; a vivere questa vita donata come esperienza inesorabile di novità, da non tenere per sé, ma da donare a tutti gli uomini. E questa è la radice della pace.
La radice della pace non è che tutti i problemi siano risolti secondo la mentalità dominante, ma la pace è vivere la vita come obbedienza a Dio.

Monsignor Luigi Negri
Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio

Nota al testo
Questo scritto è stato pubblicato come editoriale de La Nuova Bussola Quotidiana il 15 giugno 2019, con il titolo «Il problema della Chiesa? La fedeltà a Cristo». E’ poi entrato a far parte del libro a firma di Luigi Negri intitolato Chiesa viva. Mater et Magistra, prefazione di Francesco Botturi, a cura di Paolo Facciotto, secondo volume della collana Metanoéite – Cambiate mentalità diretta dallo stesso Luigi Negri e promossa da Centro Internazionale Giovanni Paolo II per il Magistero Sociale della Chiesa, Edizioni Cantagalli, Siena 2020.

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