Infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna: le mani sugli appalti pubblici

Infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna: le mani sugli appalti pubblici

Il modus operandi adottato dalle organizzazioni mafiose in regione punta, "anche grazie a contiguità politiche ed elettorali", ad "una sistematica attività corruttiva, connessa al condizionamento dei bandi pubblici, al rilascio di concessioni, al controllo di servizi di pubblica utilità, compromettendo l’economia locale". Il rapporto della Dia sul secondo semestre del 2018 accende ulteriori campanelli d'allarme. A Rimini si conferma la presenza dei Casalesi, di clan rosarnesi e crotonesi, ma anche la criminalità di matrice cinese.

Oltre 8mila “reati spia” nel 2018 in Emilia Romagna per quanto riguarda le infiltrazioni mafiose nell’economia del territorio. Con un incremento nel secondo semestre (4.089) sul primo (4.067). La nostra regione in questa brutta classifica che comprende le operazioni finanziare (9.812) finite sotto la lente delle forze dell’ordine si piazza al quarto posto dopo Lombardia (19.752), Campania (17.860) e Lazio (10.639). Un altro dato che non passa inosservato è quello sui provvedimenti emessi dalle prefetture che hanno colpito aziende infiltrate dalla criminalità organizzata: 17 in Emilia Romagna, al sesto posto in Italia, dopo Calabria, Campania, Sicilia, Puglia e Lombardia. Sono alcuni dei dati, davvero preoccupanti, che filtrano dalla relazione della Direzione investigativa antimafia relativa al secondo semestre del 2018. Come vedremo le notizie si mantengono poco incoraggianti anche a proposito della “piazza” di Rimini, come era emerso anche dal bilancio dei primi sei mesi dello stesso anno.

“In Emilia Romagna, l’elevata vocazione imprenditoriale del tessuto economico regionale è uno dei fattori che attrae gli interessi della criminalità organizzata, sia autoctona che straniera, anche ai fini del riciclaggio e del reinvestimento in attività economiche dei profitti illeciti realizzati”, si legge nel documento della Dia. “Le famiglie criminali non mirano al controllo militare del territorio, con azioni violente, preferendo invece ricercare connivenze con esponenti delle amministrazioni locali, finalizzate ad ottenere agevolazioni nell’assegnazione degli appalti pubblici. Il tessuto economico-imprenditoriale della regione si rivela, altresì, sensibile alla realizzazione di reati fiscali anche da parte di soggetti non collegati ad organizzazioni mafiose, i quali agiscono con il necessario supporto di figure professionali di settore”.

Non mancano le intimidazioni, ma il modus operandi adottato dalle organizzazioni mafiose punta, “anche grazie a contiguità politiche ed elettorali“, ad “una sistematica attività corruttiva, connessa al condizionamento dei bandi pubblici, al rilascio di concessioni, al controllo di servizi di pubblica utilità, compromettendo l’economia locale”. E’ una presenza “prettamente affaristica” finalizzata, “da un lato al reimpiego dei flussi di denaro provenienti dall’attività criminale tipica e, dall’altro, alla produzione di “ricchezza” tramite condotte illecite, tali da assecondare un processo di espansione”. Frequenti i contatti in Emilia Romagna “tra soggetti appartenenti anche a gruppi criminali diversi, che attestano una sempre più ricorrente propensione dei clan (soprattutto calabresi e campani) a trovare un punto di incontro nelle iniziative di riciclaggio e reimpiego dei capitali illeciti in nuove e diversificate attività imprenditoriali”.
Il monitoraggio delle attività imprenditoriali svolto dai gruppi interforze istituiti presso le prefetture della regione “ha consentito di delineare un quadro dei tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto imprenditoriale, nel settore degli appalti pubblici e nel rilascio delle autorizzazioni, licenze e concessioni pubbliche“. La strada scelta per incunearsi è quella delle “partecipazioni societarie frammentate (con l’interposizione di “teste di legno” ovvero di società fittizie non di rado confluenti in consorzi, sovente costituiti ad hoc, le cui cariche sociali sono spesso affidate a conviventi o stretti congiunti, quasi sempre incensurati), subappalti, subconcessioni, subcontratti, cessioni di forza lavoro; impiego di soggetti legati ai gruppi criminali in maniera meno visibile (affini o persino professionisti che concorrono “esternamente” all’attività del gruppo criminale) o, in alcuni casi, riconducibili ai sodalizi (per legami di parentela o di affinità in linea retta o collaterale)”.

Pesante anche il dato sui beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: in Emilia Romagna sono in corso le procedure per la gestione di 627 immobili confiscati, che si aggiungono ad altri 144 già destinati. Sono poi in atto le procedure per la gestione di 96 aziende, a fronte delle 13 già destinate. Si parla di alberghi, ristoranti, attività immobiliari, commercio all’ingrosso, attività manifatturiere ed edili, terreni agricoli, appartamenti, ville, fabbricati industriali, negozi sottratti alle mafie in Emilia Romagna, e in questo caso Rimini è davanti a Ravenna e Piacenza ma dietro a Parma, Reggio Emilia, Forlì Cesena, Bologna, Modena e Ferrara.

Veniamo nello specifico a Rimini. Si conferma la presenza dei Casalesi e di “soggetti riconducibili ai crotonesi Vrenna ed ai rosarnesi Pesce-Belocco“. Sono stati accertati “interessi più specificatamente a Rimini del sodalizio D’Alessandro, originario di Castellammare di Stabia, del gruppo criminale Vallefuoco e del clan Belforte di Marcianise”.

La provincia di Rimini, insieme a quelle di Reggio Emilia, Ferrara e Ferrara, in regione è la più attrattiva della criminalità di matrice cinese, “dedita alla commissione di reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di sfruttamento della prostituzione e della manodopera clandestina”.

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