La riminese Monica Pollini autrice del libro intervista a Giuseppe Lanci

La riminese Monica Pollini autrice del libro intervista a Giuseppe Lanci

Uno dei maggiori direttori della fotografia, ha lavorato con Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Paolo e Vittorio Taviani e tanti altri.

Un'amicizia nata dalla comune passione per il cinema. L'intreccio con personalità che hanno avuto un forte legame con Rimini (Andrej Tarkovskij e Tonino Guerra). Un libro che attraversa la storia del cinema italiano.

“La luce come emozione. Conversazione con Giuseppe Lanci” è un libro scritto dalla riminese Monica Pollini edito da Artdigiland una casa editrice specializzata in volumi cinematografici presentato al Centro sperimentale di cinematografia di Roma venerdì 17 marzo, alla presenza dello stesso Giuseppe Lanci, dell’autrice Monica Pollini, della editor Silvia Tarquini e di Daniele Nannuzzi, presidente dell’Aic, l’associazione italiana autori della fotografia cinematografica. L’incontro è stato moderato da Laura Delli Colli, la nipote di Tonino Delli Colli, che Lanci riconosce come il suo vero maestro di fotografia filmica. Ora che Lanci stesso insegna al Centro sperimentale di cinematografia, ci tiene molto invece alla formazione dei giovani. Lanci dirige il dipartimento ma insegna da molto tempo, da quando cioè era anche impegnato sui set cinematografici di grandi registi. Monica Pollini s’è laureata nel 2011 in lettere moderne a Milano con la tesi specialistica in filmologia Andrej Tarkovskij e l’Italia. Da Tempo di viaggio (1980) a Nostalghia (1983) che ricostruiva il periodo storico della permanenza di Tarkovskij in Italia (forti sono stati i legami di Tarkovskij con Rimini, sia per la sua amicizia col Meeting, al quale ha partecipato nel 1983 e nel 1985, e sia per la collaborazione artistica con Tonino Guerra). Mentre nel 2009 la laurea triennale di Monica era sempre dedicata all’autore russo: Dai diari al film Nostalghia di Andrej Tarkovskij. Monica Pollini fa l’insegnate di sostegno in una scuola elementare della fondazione Karis e contemporaneamente insegna danza a Santarcangelo e Fano. Nel 2015, dopo un biennio di formazione, ha conseguito il Certificato di idoneità all’insegnamento dei primi tre anni di corso della Scuola di Ballo del Teatro alla Scala di Milano.

Monica, come hai conosciuto Giuseppe Lanci?
“Mi sono laureata alla triennale e alla specialistica su Tarkovskij e il mio incontro con Giuseppe Lanci risale a quel periodo, siamo nel 2011. Una delle interviste che mi servivano a documentare il periodo in cui Tarkovskij visse in Italia era proprio a Giuseppe Lanci. Altre interviste inedite per la mia tesi furono con Tonino Guerra, Norman Mozzato l’aiuto regista di Nostalghia, il figlio di Andrej Tarkovskij, il regista polacco Krzysztof Zanussi. E’ nata così con Giuseppe Lanci una grande amicizia soprattutto perché lui mi ha raccontato della sua conversione e di quanto gli era successo lavorando fianco a fianco con Tarkovskij in questo film. Dopo la mia tesi per i due anni successivi il nostro rapporto è continuato. Nell’estate del 2012 mi arriva una telefonata di Giuseppe Lanci che diceva più o meno così: “la casa editrice Artdigiland mi ha proposto di pubblicare un libro intervista sulla mia vita: avrei piacere che lo curassi tu”. Quasi scherzando gli ho detto: “Guarda che tu forse volevi chiamare un’altra Monica che è nella tua agenda: io, pur essendomi laureata su un regista, ora insegno e faccio tutt’altro nella vita; non sono né una critica né una giornalista e tanto meno una scrittrice”. Lui s’è messo a ridere e mi ha detto: “No, non ho sbagliato niente. Io voglio che lo curi tu questo libro”.

Eri consapevole della fatica che ti attingevi a fare accettando questa proposta?
“Non credo proprio, ma pur stupita gli ho risposto: “Va bene, ok, se lo dici tu”. E’ iniziata così nel 2012 questa avventura, mi sono dovuta studiare da cima a fondo la sterminata filmografia di uno dei più prolifici e storici direttori di fotografia del cinema italiano, i premi che aveva vinto, quanto già scritto su di lui e soprattutto, nelle vacanze di Pasqua del 2013, sono andata nella sua casa romana per un’intervista che è durata una dozzina di ore in circa tre giorni di dialoghi, registrati non solo in audio ma anche videofilmati perché il libro ha una versione cartacea e una in e-book. Poi è cominciato il lavoro di trascrizione e sistemazione di questo materiale. Ho capito in quei tre giorni perché questo autore ci teneva tanto a che io curassi il libro e alla cosa che per lui era fondamentale esprimere, la sua conversione religiosa. Si legge infatti nella breve postfazione dello stesso Lanci: “Guardando a ritroso la mia vita, pensando al mio carattere e alla mia timidezza _soprattutto nei primi anni di lavoro _ e a tutti i fatti avvenuti, sono sicuro che ogni cosa sia stata determinata da un disegno divino… Tutto ciò ha creato in me uno stato di soddisfazione e gratitudine verso Colui che mi ha dato la vita”. Questo è stato il punto decisivo – riprende Monica – che mi ha appassionato alla scrittura di questo libro che ovviamente traccia il percorso professionale di Lanci, dal diploma al centro sperimentale di cinematografia di Roma; poi assistente operatore, operatore di macchina, fino ad arrivare ad essere uno dei direttori del cinema più richiesto. Nei sui ‘Diari – Martirologio’, quando venendo in Italia ha visto Salto nel vuoto di Bellocchio (di cui Lanci è stato direttore di fotografia), Tarkovskij scrive: “Ho visto Salto nel vuoto di Bellocchio. Arido e freddo. Cerebrale. Il direttore della fotografia non è male: (Giuseppe) Lanci”. E così ha chiesto a Lanci di lavorare nella pellicola che Tarkovskij voleva realizzare in Italia”.

Monica Pollini e Giuseppe Lanci

Tra Tarkovskij e Lanci scattò subito la consonanza professionale e umana?
“Si, tanto che Lanci dice che l’incontro col regista russo è stato decisivo nella sua vita, anche se in verità avevano caratteri opposti. Giuseppe Lanci è una persona pacata, discreta, gentile, mentre Tarkovskij era sanguigno e caustico. Ma fra di loro scattò subito la scintilla della stima umana reciproca e, dal punto di vista professionale, una vera e propria simbiosi. Al punto che Tarkovskij, come lo stesso Lanci racconta, era arrivato al punto da non dargli neppure indicazioni su quello che voleva venisse fuori da quella scena o da quel dialogo e a fidarsi ciecamente del suo direttore di fotografia. Tarkosvkij non ha mai nascosto la sua soddisfazione per quanto veniva proiettato sullo schermo. E sì che Tarkovkij era tutt’altro che un regista ‘facile’. Il suo film Nostalghia al festival di Cannes del 1983 non vinse la Palma d’oro, ma il Gran Prix du Cinéma de Création ex equo con l’Argent di Robert Bresson. Allora si disse soprattutto a causa della presenza in giuria dell’attore e regista sovietico Bondarchuk che s’era preso in carico l’impegno di stoppare sul nascere gli entusiasmi dei critici verso la pellicola di quel regista dissidente. Lanci incontrò Tarkovskij nei primi anni ’80 ma la sua conversione, com’è raccontata nel libro, è avvenuta quasi una ventina di anni dopo, precisamente nel 2000. Ma non c’è dubbio che Tarkovskij e Lanci ebbero subito un ottimo feeling. Scrive Lanci: “Fare cinema con lui non era mai una cosa scontata, ovvia, ancorché professionalmente perfetta. Non si accontentava mai del come le cose andavano ma andava a fondo; non voleva solo il meglio dal punto di vista formale ma voleva comunicare sempre qualcosa allo spettatore”. Di Tarkovskij Lanci non sottolinea solo la sua genialità cinematografica ma la sua caparbietà nell’esprimere in scena la sua idea. In lui certo non c’è traccia di compromesso con la produzione (perché, per esempio, una scena costa troppo o esprime un messaggio che fa il contropelo allo spettatore). Lanci dice che tutti i film successivi gli hanno lasciato una certa amarezza nel confronto con il bel ricordo del modo di lavorare di Tarkovskij, senza sottomettersi al ‘potere di chi ha e mette fuori i soldi’. Lanci dice a questo proposito: “Qualche volta il cinema smette i panni dell’autore per fare spazio alle dinamiche produttive e alle esigenza del botteghino e del mercato”.

Facci qualche esempio che hai tratteggiato nel libro.
“Un aneddoto che si racconta nel libro è la chiamata di Nanni Moretti per un suo film. Quando mi ha contattato per Palombella rossa, racconta Lanci, la prima cosa che mi ha detto è stata: “Non pensare di fare un film di Tarkovskij!”. Inoltre Tarkovskij aveva chiamato Lanci per il film Sacrificio che sarebbe stato girato in Svezia ma che avrebbe dovuto essere co-prodotto anche dalla Rai. La partecipazione della Rai venne poi a mancare e Tarkovskij si rivolse ad un altrettanto storico e indimenticabile direttore della fotografia, lo svedese Sven Nykvist, un fedelissimo collaboratore di Ingmar Bergman. Ma Lanci racconta comunque che fu orgoglioso di quella scelta ricaduta su Nykvist. Lanci spiega perché nel suo libro: “In seguito Andrej mi ha confidato: “L’ho fatto soffrire parecchio. Abbiamo proiettato Nostalghia all’Istituto statale e devo dire di non avere mai assistito ad una proiezione così perfetta. Effettivamente Beppe Lanci ha girato il film in modo straordinario. Anche questa copia svedese è assai migliore di quella mostrata a Cannes, che era la nostra copia campione” (Diari – Martirologio, Andrej Tarkovskij, edizioni Meridiana, Firenze 2002). Pure avendo fatto con Tarkovskij solo questo film, il libro intervista ‘La luce come emozione’ dedica al rapporto tra Lanci e Tarkovskij uno dei capitoli più lunghi. In altri capitoli si parla di Nanni Moretti (col quale Lanci ha lavorato in cinque film) e Bellocchio (otto film come direttore di fotografia e tre da assistente operatore). Ma Lanci ha lavorato anche a film con Sergio Leone, nell’Accattone di Pasolini con Lina Wertmuller e i fratelli Taviani”.

La lunga collaborazione con Bellocchio, che pure fu compagno di corso di Lanci al Centro di cinematografia, tuttavia si interrompe a causa del film L’ora di religione. Come mai?
“Sì. Era quella una pellicola che prendeva di mira l’istituzione ecclesiastica, criticando aspramente la chiesa, il papa, la fede e Dio stesso e Bellocchio aveva chiesto a Lanci di curarne la fotografia. Lanci dopo aver letto la sceneggiatura andò da don Fabio, l’amico sacerdote che l’aveva sposato, a cui lasciò la sceneggiatura per capire cosa ne pensasse. Forse aspettava che il prete gli dicesse che fare, se accettare o meno, cioè di curare la fotografia della pellicola. Don Fabio gli disse: “Il film è molto ideologico e porta avanti una sua idea. Non c’è dialogo o confronto tra punti di vista diversi. Si insiste unicamente sullo stesso argomento, contro la Chiesa. Sei tu che devi decidere. Io non ti dirò cosa devi fare. La scelta, in libertà, è tua”. La decisione (che evidentemente metteva nei pensieri Lanci) fu suggerita più apertamente dalla dottoressa che aveva avuto in cura la moglie del fotografo, incontrata per caso al bar. Lei gli disse: “Certo tu sei libero di decidere. Però, a seconda di quello che decidi, il Signore è più o meno contento”. Ma ancor più decisivo è stato il fatto che una volta a casa Lanci si mette a pregare e ad aprire il Vangelo nella pagina in cui Gesù chiede agli apostoli di gettare le reti e che li avrebbe fatti pescatori di uomini. Gli incontri precedenti col prete e la dottoressa avevano palesato una scelta che era comunque rimasta tutta sua: lì nacque il suo ‘no’ a Bellocchio che apprezzò apertamente la sincerità di Lanci e gli chiese se in futuro avrebbe potuto chiamarlo per altri film. “Certamente” è stata la risposta di Lanci, ma da allora i due non si sono più sentiti. Nel libro sono raccolte alla fine una serie di testimonianze di colleghi ed allievi: la prima è proprio quella di Bellocchio. Questo rifiuto è stato spiegato da Lanci stesso pochi giorni fa in un’intervista a Radiotre: “Non me la sono sentita – ha detto Lanci – di andare contro questo incontro dopo due giorni di pianto per la conversione che mi ha riconciliato con me stesso”.

Che cosa ti ha lasciato il lavoro di questo libro?
“Se non ci fosse stato un rapporto anche di amicizia non avrei mai scritto il libro. L’ho fatto per amicizia con Giuseppe, che mi ha dato modo di entrare nel suo modo di intendere il cinema. In verità sono sempre stata appassionata di cinema, come testimoniano le mie tesi su Tarkovskij, ma non avrei mai iniziato questa avventura. Mi è piaciuto il modo con cui Lanci spiega il titolo ‘La luce come emozione’. Non intendo solo l’accezione sentimentale della parola ma anche il processo che, attraverso le luci e le ombre, genera in noi emozioni e sensazioni. Io credo che di questo percorso Lanci sia molto debitore a Tarkovskij. Qualche volta invece le immagini televisive delle fiction sono sempre uguali a se stesse e ripetitive. Cioè io posso capire e dialogare con la realtà attraverso luci che illuminano alcuni aspetti della realtà e ombre che invece ne nascondono altri. Quindi per me è stato davvero una grande soddisfazione e gioia scrivere questo libro e poi si parlava di un argomento (il cinema) che a me piace e appassiona, anche se dentro la fotografia cinematografica non mi ero mai così inoltrata nei miei studi che invece sono stati regia, filmologia, storia della critica del cinema”.

Ma non sei rimasta sorpresa dell’insistenza di Lanci perché fossi tu a curare la sua biografia?
“Sono evidentemente felice. Si tratta di un libro che anche chi non è esperto leggerà con piacere, anzitutto perché Lanci ha lavorato nei film più importanti della storia del cinema ma il libro è pieno anche di aneddoti vissuti sui set, si parla inoltre del rapporto con gli attori, coi registi e quindi tratteggia un’umanità ricca. Lo testimonia la parte del libro dedicato alle testimonianze di registi, ex allievi, colleghi e persone che l’hanno incontrato. Tra questi Arnaldo Catinari, Filomena Montesano, Paolo Carnera. Ha mandato un suo contributo anche Susanna Tamaro e lo stesso Marco Bellocchio, che ricorda la capacità di Lanci di illuminare i volti femminili, “una cura non separata dalla sua visione. Non si curava di rendere più bella una donna ma di fatto ci riusciva, nel senso che era in grado di coglierne la luminosità piuttosto che nasconderne i difetti; rispettando il volto, aveva la qualità, il dono di illuminare, come se non riuscisse a filmare che la bellezza. Coerentemente ai suoi princìpi – prosegue Bellocchio – la nostra separazione avvenne per un principio e non, come succede in molti matrimoni, perché si vogliono fare altre esperienze. A proposito dell’Ora di religione la ragione del suo rifiuto è stata di tipo morale. Dopo aver letto il copione, Beppe mi disse che non condivideva la storia e quello che vi veniva raccontato e che quindi non poteva fare il film. Fin da subito, ma nel tempo ancora di più, ho apprezzato questa sua scelta. Non mi sono risentito, però nella pratica è diventata una scelta definitiva”.

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