«E' venuto di recente interamente in possesso del Comune, costituisce – e più costituirà – ragione di alto valore cittadino, lustro dell’Italia intera». Correvano i primi anni '30 del Novecento quando un soprintendente di indiscussa autorità scriveva queste parole. E delineava l'unicità del monumento di età romana, capace di accogliere «10-12 mila spettatori» solo sulle gradinate.
Nel 1934, sul numero di febbraio-aprile, ‘Il Rubicone’, rivista mensile che aveva direzione e redazione in via Soardi n. 1 a Rimini, usciva un articolo di Salvatore Aurigemma sull’Anfiteatro Romano. A sua volta costituiva una parziale riproduzione, col consenso del Touring Club, di un articolo che era stato pubblicato su ‘Le vie d’Italia’ nel giugno del 1933 e che l’editore Bruno Ghigi ristampò nel 2002 col titolo “L’Anfiteatro romano”.
Aurigemma (1885 – 1964) è stato un colosso in campo archeologico e della ricerca epigrafica. Ha insegnato Antichità classiche all’università di Bologna, è stato Soprintendente alle Antichità dell’Emilia Romagna, dove creò praticamente dal nulla gli uffici della Soprintendenza archeologica. Ha ricoperto numerosi altri incarichi in giro per l’Italia (Pompei compresa), ma anche in Libia. Fra le tante campagne di scavo che ha seguito in regione ci fu anche l’anfiteatro romano, nel 1926. Riproduciamo integralmente da ‘Il Rubicone’, comprese le fotografie (provenienti dall’archivio della Soprintendenza delle antichità dell’Emilia e della Romagna). Ne viene fuori, attraverso una serie di informazioni molto dettagliate, una panoramica che evidenzia l’assoluto rilievo dell’anfiteatro di Rimini, «degno di occupare in Rimini un posto onorevole accanto all’Arco di Augusto e al ponte di Tiberio».
Nello stemma del Comune di Rimini sono un arco e un ponte: due opere della romanità augustea – l’arco di Augusto e il ponte di Tiberio – sopravvissute alle vicende dei secoli, e che hanno offerto la stessa granitica saldezza contro l’imperversare degli elementi, degli avvenimenti e degli uomini. Roma vive a Rimini come in nessuna città dell’Emilia; nessun segno dei tempi è oggi qui tanto augusto e commovente, ove se ne eccettui il Tempio Malatestiano, miracolo d’arte, fiore sbocciato dalla passione e dal buon gusto artistico di Sigismondo Malatesta.
Ma rispetto al Tempio Malatestiano le due grandiose opere romane hanno una particolare ragione di fascino, il fascino dell’eterno che è legato alla loro vetustà. Quando dalla campagna marchigiana si è accolti in Rimini dalla maschia ed ampia volta dell’Arco di Augusto, e quando avviandosi verso la pianura padana si esce da Rimini tra i grandi parapetti lapidei su cui sono incisi i nomi di Augusto e di Tiberio benefattori della città, costruttori del ponte che per duemila anni ha retto alla furia delle piene del Marecchia, l’animo trema di orgoglio, perché alla labile vita delle generazioni umane qualcosa sovrasta che ci appartiene: il nome e le opere possenti di Roma.
Un terzo monumento di età romana Rimini possiede, che è venuto di recente interamente in possesso del Comune, e che costituisce – e più costituirà – ragione di alto valore cittadino. Questo monumento è l’anfiteatro laterizio.
Stabilito com’è all’angolo Est-Nord-Est della vecchia città, esso è stato parzialmente inserito da età assai antica nella cinta murale cittadina, e per la rimanente parte è rimasto sommerso nel terrapieno che si è andato formando dal lato che guarda la città. Fino al 1926 una breve fascia di terreno incolto si estendeva subito all’intorno del parapetto superiore delle mura, nel luogo dell’antico camminamento di ronda; poi cominciavano gli orti, in mezzo ad essi, non lungi dalle mura, una casa colonica rappresentava forse l’ultimo avanzo o l’ultima trasformazione di un convento di monaci un tempo qui appunto costruito.
Dai saggi che negli anni 1843-1844 taluni benemeriti cittadini riminesi, con a capo l’insigne storico di Rimini Luigi Tonini, praticarono per riconoscere la vera natura del vetusto edificio, furono rese note la forma e le dimensioni dell’anfiteatro di Rimini.
L’anfiteatro ha forma ellittica, ha l’asse maggiore corrente da Nord-Est a Sud-Ovest, e ha una struttura muraria risultante di quattro anelli concentrici di cui lo spessore complessivo raggiunge i m. 21,80. Da esterno a esterno l’anfiteatro misura, nel senso dell’asse maggiore, m. 120; mentre nel senso dell’asse trasversale o minore misura m. 91; l’area è di m. 76,40; le arcate esterne d’ingresso costituiscono un portico continuo di sessanta fornici; il numero degli spettatori poteva aggirarsi intorno ai 10-12 mila, tenuto solo conto di quelli che potevano allogarsi sulla gradinata, e non degli altri che potevano trovar luogo in balconate accessorie lignee. Queste cifre risultano di più chiara intelligenza se si ha presente, come termine di conguaglio, il Colosseo di Roma, di cui gli assi da esterno a esterno misuravano rispettivamente m. 188 e 156, e l’ellisse dell’arena metri 77 per 46,50; dimensioni – queste ultime – di poco maggiori di quelle dell’arena di Rimini, mentre le altre sono in relazione con la diversa entità delle strutture murarie, che per Roma erano in rapporto della necessità di poter allogare un numero di spettatori enormemente più cospicuo.
Dalle due arcate aprentesi agli estremi dell’asse longitudinale si aveva, nell’anfiteatro di Rimini, certamente accesso all’arena mediante corridoi di m. 5,95 di larghezza; in corrispondenza dell’asse traversale si aprivano altre due entrate principali che forse davano accesso, come a Roma, a due grandi logge (e cioè al «pulvinar» e al «suggestum») destinate al presidente dello spettacolo, ai magistrati e alle personalità ufficiali di maggiore considerazione della colonia; da altri accessi, oltreché dai quattro principali sopra ricordati, si doveva giungere al «podium», e cioè a quella piattaforma elevata che circoscriveva l’arena a un’altezza sufficiente per garantire gli spettatori da ogni assalto delle belve.
Immediatamente al di là della piattaforma correvano gli ordini di gradini più bassi della cavea, non di rado d’insolita larghezza, sì da potervi allogare sedili mobili per le persone di maggiore riguardo.
Dal portico terreno dell’anfiteatro riminese, di m. 2,50 di larghezza, chiuso verso l’esterno dalle sessanta arcate di cui ognuna aveva l’altezza di m. 5,30 e la luce di m. 3,05, salivan ventiquattro gradinate che conducevano alla prima «praecinctio», e cioè al corridoio di visione tra il primo e il secondo piano dell’edificio, a m. 7,30 di altezza dal piano terreno.
Dalla prima «praecinctio» – corrente all’interno della «cavea», e chiusa alle spalle da un grande muro o balteo, il quale serviva di sostegno agli ordini di sedili del piano superiore – si scendeva, mediante i gradini che segnavano i limiti dei «cunei» dell’anfiteatro, ai posti a sedere del corpo inferiore o primo «maenianum» dell’edificio.
Dodici delle ventiquattro gradinate si svolgevano a doppia tratta, prendendo inizio al piede del secondo anello della struttura muraria, e poi secondando da un lato e dall’altro la curva interposta tra il secondo e il terzo anello laterizio, di m. 2,40 di larghezza. Le altre dodici, larghe m. 3,15, salivano con una sola tratta e con gradini assai alti al corridoio del primo piano. Delle ventiquattro gradinate solo le dodici a doppio tratto avevano un sottoscala utilizzabile: una porta di comunicazione dava adito ai detti sottoscala dal portico esterno dell’edificio.
Se al di sopra del secondo piano ne esistesse, nell’anfiteatro di Rimini, un terzo non è possibile stabilire. Ma ciò è stato supposto, dato lo spessore di m. 21,80 che nel loro complesso raggiungono i quattro anelli laterizi concentrici della struttura; e noi vediam reso tal piano nei disegni in elevato e in sezione che dell’anfiteatro di Rimini ha delineato, con la diligenza che gli fu propria, Onofrio Meluzzi, il collaboratore di Luigi Tonini e di Marco Capizucchi nella direzione dei saggi condotti negli anni 1843 e 1844.
A che età è da attribuire l’anfiteatro di Rimini? In assenza di testimonianze letterarie ed epigrafiche che possano portar luce su ciò, l’unico elemento di giudizio è quello che si può trarre dalla struttura laterizia. Ma è un elemento di giudizio assai dubbio. L’Anfiteatro Castrense di Roma che ha tanta analogia con l’anfiteatro di Rimini viene attribuito, a seconda dei casi, all’età di Tiberio o alla fine del secondo secolo dopo Cristo, se non al principio del terzo. Crediamo sia da preferire, per l’anfiteatro riminese, l’età augustea o tiberiana, sia per la finitezza d’esecuzione dell’opera laterizia, sia per il particolare favore che dimostrarono a Rimini i primi due imperatori della casa Giulia.
I Triumviri avevano già nel 43 avanti Cristo assegnato il territorio di Rimini a una colonia di veterani; poi Augusto aumentò il numero dei coloni riminesi; quindi – certo per suggerimento di Augusto – il suo figliuolo adottivo, Caio Cesare, fece lastricare nell’anno I dopo Cristo le strade riminesi; infine Augusto ordinò la costruzione del ponte sul Marecchia, che fu compiuto da Tiberio (a. 22 d.C.). Né benefici notevoli eran certo mancati alla città in occasione dell’integrale riassetto della via Flaminia, che Augusto, come è noto, volle assumere a suo carico. Rimini mostrò in quella occasione la sua riconoscenza all’imperiale benefattore costruendo nel 27 a.C. quell’arco che segna il termine settentrionale della via Flaminia, e sostituì certo una porta delle mura laterizie. Queste mura, d’età anteriore all’Arco di Augusto, mostrano che grande era già qui la conoscenza della tecnica della costruzione laterizia, quando in Roma tale tecnica era ancora, si può dire, agli inizi; né la cosa deve stupire, poiché nell’agro gallico le fabbriche in mattoni erano, già nell’età romana repubblicana, di uso corrente, secondo che ci dice Varrone, e secondo che ci confermano le strutture monumentali di talune città, come per esempio quelle di Alba Pompeia e di Torino, l’antica Augusta Taurinorum. Questa antichità delle strutture laterizie nella Cisaplina sta a favore di una datazione piuttosto remota anche dell’anfiteatro riminese.
Auspice il Comune di Rimini, gli scavi dell’anfiteatro stanno per essere ripresi, ai fini della sistemazione definitiva dell’area dell’insigne monumento.
Ora, dopo una sosta di otto anni, tornata definitivamente l’area dell’anfiteatro riminese in pieno possesso del Comune, saranno ripresi i lavori di scavo e di assetto delle rovine. Rimini possiede la sua ridentissima spiaggia e i suoi gloriosi monumenti. Un tale patrimonio mentre è gioia e fortuna, è anche impegno d’onore.
L’Anfiteatro laterizio, finora sconosciuto e negletto, si mostrerà – quando sian compiute le esplorazioni necessarie – degno di occupare in Rimini un posto onorevole accanto all’Arco di Augusto e al ponte di Tiberio. E in occasione del bimillenario augusteo il monumento sarà – speriamo – del tutto redento, mediante anche il contributo dello Stato che vorrà veder realizzata un’opera che tornerà a onore della città, a lustro dell’Italia intera.
Salvatore Aurigemma
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