Quando si ha davanti il prof. Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, e lo si ascolta dipingere con l'eloquenza che gli è propria un'opera d'a
Quando si ha davanti il prof. Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, e lo si ascolta dipingere con l’eloquenza che gli è propria un’opera d’arte, un monumento, un autore, improvvisamente l’intarsio di illustrazioni, immagini, citazioni, ricordi, è come se accendesse un fascio di luce in grado di illuminare in modo nuovo opere, architetture e uomini.
Nel suo ultimo ritorno a Rimini, venerdì scorso, parlando di Augusto Campana (e in un fuori programma anche dell’assessore alla Cultura della giunta Gnassi), Paolucci è approdato ad un tema a lui caro e ormai a lungo perlustrato, cioè l’ordito romanico di Rimini, finito in ombra nella città del divertimentificio che aveva pensato di potersi concepire dalla strada ferrata in giù. Cos’è diventato l’Arco d’Augusto per Rimini?
Prima di tutto, cos’è stato. Lo descrisse Augusto Campana, appunto, in un articolo del 1934. “Quando l’Arco cominciava già ad essere isolato”, ha detto Paolucci. “Quella operazione di isolamento monumentale che ha fatto dell’Arco d’Augusto un bellissimo relitto, uno spartitraffico in un certo senso”.
“Io credo che allora si potesse capire come quel monumento romano fosse veramente la cruna dell’ago dell’Italia”, ha proseguito Paolucci. “Perché tutti sono passati da li. Noi non ci pensiamo perché adesso è un monumento che i turisti della riviera visitano quando sul mare piove e ci girano intorno. Ma pensate che dall’Arco d’Augusto sono passati tutti. I goti di Alarico, il generale bizantino Belisario, Giotto e Piero della Francesca quando andavano a lavorare in Val Padana, è passato Martin Lutero che veniva da Erfurt e a Rimini ha preso la Flaminia per arrivare fino a Roma. Sono passati i soldati francesi di Napoleone Bonaparte, i paracudisti di Kesselring, i polacchi di Alexander, i Gurkha, gli indiani della ottava armata britannica…, tutti dall’Arco d’Augusto sono passati. Veramente l’Arco d’Augusto come cruna dell’ago fra l’Italia padana e l’Italia peninsulare, e non a caso li s’incontrano le grandi strade, la Flaminia e l’Emilia”.
Ora, davanti a questo dipinto di un Arco d’Augusto per molti sconosciuto, quel che si attraversa ogni giorno o si guarda senza il minimo brivido, sembra riprendere vita e trasfigurarsi in qualcosa d’altro.
Basterebbe leggere Augusto Campana, ma chi lo legge più? La “sua capacità di rappresentazione poetica di Rimini”, come ha spiegato Paolucci. “L’asse che corre tra Arco e Ponte di Tiberio, asse che corrisponde col decumano massimo, da una parte, e l’asse ideale che sta tra il Tempio e il Castello, e la raggiera dei castelli tra Romagna e Marche tutto intorno”. Così scrisse Campana 80 anni fa. “Guardate se questo non è un capolavoro di cartografia poetica”, ha commentato Paolucci. “E’ assolutamente vero. Ricordo che da ragazzo avevo scoperto un punto dell’Arco d’Augusto, la dove c’è una leggerissima sopraelevazione, che corrisponde più o meno al “Caffè Giovannini” … ma non so se c’è ancora. In quel punto li uno può vedere il ponte di Tiberio e alle sue spalle l’Arco d’Augusto, i due punti dove nasce e finisce la città romana di Rimini”.
Ora bisognerebbe fare un altro salto indietro. Quando Paolucci nel 1995 presentò la mostra del Meeting sul Trecento riminese. Disse fra l’altro queste parola: “Come doveva essere bella Rimini nel ‘35: chi veniva a Rimini doveva passare per i due grandi monumenti romani. Se infatti proveniva da Roma, doveva passare dall’Arco di Augusto, dove finiva la via Flaminia e cominciava l’Emilia. Se invece proveniva da Milano, attraverso il Borgo San Giuliano, passava dal ponte di Tiberio. Entrato in città, o dall’Arco di Augusto o dal ponte di Tiberio, avrebbe potuto capire in modo percettivo e immediato come questa città fosse molto nobile e antica, e quindi come fosse potuta essere naturale sede di una grande scuola pittorica. È difficile pensare una posizione più perfetta, più suggestiva: certamente oggi chi arriva a Rimini, in macchina, nel traffico infernale, non ha più una simile percezione, anche se bisogna riconoscere che, nonostante le devastazione della guerra e gli errori della ricostruzione, nonostante il turismo che ha cambiato tanti aspetti di Rimini, molto della città antica resta ancora. Ma Rimini non è andata perduta, perché inevitabilmente risorge sempre la consapevolezza di essere un laboratorio di cultura e una città d’arte”. E così l’Arco d’Augusto si può almeno immaginare per quel che è stato. Quando ancora i turisti non gli giravano intorno.
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