Le quattro torri di Castel Sismondo

Le quattro torri di Castel Sismondo

Molte piante e illustrazioni della rocca malatestiana mostrano le quattro torri, o piccoli bastioni, che sporgono dalla falsabraga. Mai nominati da Roberto Valturio, che invece descrive i due ingressi al castello dentro il fossato. Il prof. Rimondini si occupa stavolta di questi due temi, «problemi aperti che saranno probabilmente chiariti al momento dell'apertura del fossato».

Particolare del promurale e dell’ingresso del castello della medaglia di Matteo de Pasti con la veduta di Castel Sismondo, marcata 1446. Si notino i due avamposti merlati in primo piano situati sull’orlo del fossato.

LE QUATTRO TORRI O “BASTIONCELLI” DENTRO IL FOSSATO DI CASTEL SISMONDO

Nella descrizione di Castel Sismondo di Roberto Valturio, dentro il fossato sono descritti i due ingressi quello di piazza Malatesta e “la porta del soccorso” posteriore. Non si nominano le quattro torri o piccoli bastioni che sporgono dal promurale o falsabraga, conosciute da molte piante e illustrazioni del castello.
Le più prime documentazioni delle torri sono due disegni di Antonio da Sangallo il Giovane del 1526, seguono una pianta di Francesco Nagli del 1664, una di Ferdinando Marsili del 1708, una di Gaetano Stegani del 1782 e una di Andrea Zoli del 1825, e alcune vedute dipinte o disegnate, documenti pubblicati da Pier Giorgio Pasini, da Angelo Turchini e da Giovanna Giuccioli Menghi. In questo file affronteremo per primo il problema cronologico delle quattro torri e subito dopo cercheremo di ricostruire cosa è rimasto degli ingressi dell’epoca di Sigismondo Pandolfo, dopo le trasformazioni subite nei secoli; problemi aperti che saranno probabilmente chiariti al momento dell’apertura del fossato.

Piero della Francesca, particolare dell’immagine di Castel Sismondo, datata 1451. Ai lati dell’ingresso il promurale si allarga alla nostra destra con una prominenza a base triangolare e alla sinistra un’altra prominenza a base pentagonale, come due embrioni di torri aperte alla gola.

Angelo Turchini individua due corpi di fabbrica sigismondei addossati al promurale o sporgenti nel fossato ai lati dell’ingresso, raffigurati nella medaglia di Matteo de Pasti e nell’affresco di Piero della Francesca nel Tempio Malatestiano – si auspica ancora una volta che questo affresco staccato dal muro venga restituito al suo sito nell’Oratorio del Signore, dove Sigismondo Pandolfo l’aveva commissionato e Piero della Francesca l’aveva dipinto in piena luce; al momento è stato trasferito in una cappella al buio e controluce. Per farlo vedere prima dello spostamento c’era una sorta di rito: veniva uno scaccino con le grosse chiavi del ‘300 apriva la porta, si entrava e si facevano tre o quattro passi, poi ci si voltava e là in alto in piena luce splendeva la meraviglia che riscaldava il cuore -.

Antonio da Sangallo il Giovane, disegno parziale di Castel Sismondo col probabile progetto di due bastioni interni del fossato, Firenze Collezione degli Uffizi, individuato da Giulio Zavatta.

Le due prominenze notate da Angelo sono certamente interessanti: quella alla sinistra della porta del fossato sembra essere un embrione di torre aperta alla gola a base triangolare – una ‘trigona’ albertiana allargata? -, mentre la prominenza a destra sembra essere una torre aperta alla gola di pianta pentagonale; si vede uno dei due brevi lati perpendicolari alla cinta. Queste due sporgenze però non si distinguono tanto dalla cinta complessiva sia per altezza sia per distacco. La prima cinta, o promurale o falsabraga, era strutturata a linee spezzate per ubbidire al consiglio di Vegezio, come ricorda Turchini. Ma in ogni caso, quello che fa pensare è il sito dove queste sporgenze si trovano nelle due immagini, e cioè esattamente dove si vedono nei disegni, incisioni e immagini dipinte e scolpite successive le due torri pentagonali a cominciare da due disegni del Sangallo.

Antonio da Sangallo il Giovane, abbozzo di Castel Sismondo, da un ricalco di Luca Beltrami, Collezione della Biblioteca Gambalunga di Rimini.

I DUE DISEGNI DI ANTONIO DA SANGALLO IL GIOVANE 1526

Si deve a Giulio Zavatta la scoperta del secondo disegno parziale di Castel Sismondo di Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546) nella raccolta dei disegni degli Uffizi a Firenze. Il primo disegno, di questo architetto fiorentino completo, era stato pubblicato da un’immagine ottenuta per ricalco nel 1902 da Luca Beltrami e nel 1921 da Corrado Ricci. La ragione bellica delle quattro torri nel fossato o nella prima cinta interna è spiegata in un documento del 1503, nella relazione del funzionario veneziano Velier, venuto a Rimini per controllare lo stato delle fortificazioni. Il veneziano nota che il ventaglio dei tiri delle artiglierie nella prima cinta è solo frontale, manca dei tiri che potevano “bater per fianco” da una o due parti rasenti i muri:

“E ditta roca ha un gran difetto, che non po’ batter per fianco da niuna banda, ha otto cantoni che vanno in dentro e in fuora…”

Le quattro torri o piccoli bastioni nel fossato hanno questo fine: permettere la sistemazione di postazioni di artiglieria con pezzi che sparino sui fianchi degli assedianti arrivati alle mura e dentro il fossato.
Tuttavia, cosa avrebbe risposto Sigismondo Pandolfo in un consiglio di guerra a questa critica? Possiamo immaginarci che avrebbe detto: ma noi abbiamo scelto un perimetro non lineare ma spezzettato proprio perché volevamo prendere i nemici anche di fianco. E avrebbe citato il De Re Militari di Vegezio, che nel IV libro, paragrafo II, scrive:

Le linee spezzate del perimetro interno di Castel Sismondo, secondo il precetto di Vegezio, sono contenute nel quadrato e nel cerchio sottesi come l’homo ad circulum et ad quadratum vitruviano.

VEGEZIO ‘DE RE MILITARI’ IL PERIMETRO DEL PROMURALE

Gli antichi vollero costruire il perimetro delle mura non in linea retta, per impedire che esse fossero esposte ai colpi d’ariete, ma, gettate le fondamenta, racchiusero le città in un perimetro sinuoso, sugli angoli del quale elevarono spesso delle torri, affinché chiunque avesse voluto appoggiare scale o macchine da guerra al muro così costruito avrebbe potuto essere attaccato non solo di fronte, ma anche da dietro, alle spalle e da ogni lato, essendo chiuso quasi da un’insenatura.

Sappiamo già che questi recinti sono condotti a linee spezzate, ma tutto il nucleo del castello è compreso in un quadrato e in un cerchio, una tipica “compositio” antropomorfa tradizionale per esprimere un equilibrio umano/cosmico. La figura che comprende il perimetro esterno non si può ancora rilevare.
E tuttavia il sistema dei muri a rientranze e a sporgenze, o “a cantoni” come li aveva definiti il veneziano, non era più un espediente condiviso dagli esperti di guerra, adesso bisognava sistemare un preciso e articolato ordine di bombardiere ai lati delle torri rotonde o dei nuovi bastioni a punta, con i cannoni che tirassero sul fianco degli assalitori giunti sotto le mura. La coscienza storica dei consigli di guerra italiani si era arricchita anche con gli assedi romagnoli di fine secolo e dell’inizio del ‘500. Gli ultimi giorni del 1499 Cesare Borgia, nominato duca di Romagna, aveva preso facilmente la rocca di Imola, con i suoi torrioni cilindrici sforzeschi, e nei primi del 1500 la rocca di Forlì difesa da Caterina Sforza Riario. Le difese esterne della rocca forlivese del Ravaldino si erano mostrate efficaci, in un primo momento, specialmente i larghi fossati dominati da quattro rivellini immersi nell’acqua che tiravano frontalmente e di fianco. Ma poi aveva dovuto cedere ai colpi dell’artiglieria francese che avevano tagliato una cortina della rocca “come fosse di burro”. Certamente erano muri vecchi dei tempi degli Ordelaffi, e per di più composti da murature a sacco con una calce che si stava rivelando molto sabbiosa e un ghiaietto friabile. Per diversi mesi dal 18 novembre 1500 al 25 aprile 1501, Cesare Borgia aveva assediato Faenza, città fedele al suo giovane signore Astorre III Manfredi, tentando di sfondare il muro orientale della città lato monte, difeso dal fiume alla sinistra del Borgo Durbecco verso Forlì, ma senza riuscirci soprattutto per la volontà di resistere dei Faentini e poi a causa dei cannoni sugli spalti del borgo, che colpivano di fianco le sue truppe, facendo fallire gli assalti. Gli assedi insegnavano agli specialisti di guerra come costruire o modificare le fortezze. Il duca di Mantova aveva mandato un suo ‘doctus ad bellum’ a seguire il Valentino. Castel Sismondo, se Pandolfo IV Malatesta avesse resistito al Valentino, sarebbe stato messo alla prova, ma il Signore di Rimini, dopo che i mille cavalieri di Venezia si erano ritirati, aveva capito che la sua rocca non avrebbe retto all’artiglieria francese, nove cannoni lucenti che sparavano palle di ferro; i suoi obsoleti apparati a sporgere, come quelli della rocca di Ravaldino sarebbero stati spazzati via e le scarpe del fossato avrebbero fornito solo una breve difesa.

Dino Palloni; o tiri incrociati delle quattro torri.

QUANDO FURONO COSTRUITE LE QUATTRO TORRI DEL FOSSATO DI CASTEL SISMONDO?

Ci si chiede quando le quattro torri del fossato siano state costruite e se i disegni del Sangallo siano dei progetti oppure dei rilevamenti dello stato di fatto. Brevemente ripercorriamo il destino di Rimini nei primi del ‘500: dopo la resa di Caterina Sforza Riario, la città è abbandonata dai Malatesta nell’ottobre del 1500, cacciati da Cesare Borgia detto il Valentino con qualche migliaio di monete d’oro per la cessione di Castel Sismondo. Rimini viene recuperata da Pandolfo IV nel 1503, alla morte di papa Alessandro V, che subito la vende ai Veneziani.
Non si trattò probabilmente di pusillanimità dell’ultimo Malatesta, ma della minacciosa pressione dei Veneziani, che lo avevano aiutato nel recupero di Rimini, e se lui avesse cercato di resistere alla loro volontà di impadronirsi di Rimini, poteva temere di finire assassinato con tutta la famiglia come era successo ai da Carrara a Padova o ai parenti da Polenta a Ravenna, quado le due città erano cadute nelle mani di Venezia.

La Serenissima nei primi del ‘500 possiede in Romagna Ravenna, Cervia, Faenza e Rimini, e le tiene fino al 1509, quando papa Giulio II per cacciarla e ristabilire il potere diretto pontificio le tira addosso le armate francesi, imperiali e pontificie. Ma Pandolfo IV e suo figlio Sigismondo II, in miseria e senza fissa dimora, non hanno ancora rinunciato a Rimini e riescono ad entrare in città e a governare nel 1522-1523 e nel 1527-1528, sfruttando momenti di debolezza del potere pontificio. I Malatesta ritornati sono accettati con entusiasmo dalla plebe urbana ma avversati con odio dai notabili, che vengono vessati con inaudite crudeltà. Interventi armati pontifici espellono i Malatesta dopo le due occupazioni. L’ultima è stata provocata dal sacco di Roma da parte delle truppe di Carlo V che è appena posteriore alla visita del Sangallo.

Cesare Borgia nei tre anni di governo della città, tramite il suo castellano e i suoi ingegneri, uno dei quali si chiama Leonardo da Vinci, comincia a modificare ed aggiornare la tenuta bellica di Castel Sismondo. Vediamo tuttora di quell’intervento le quattro torri grandi capitozzate, o meglio private all’inizio dei beccatelli degli apparati a sporgere con caditoie e merli, sostituiti da spessi e tozzi ‘merloni’, e le strette rettangolari e orizzontali aperture delle “cannoniere alla francese”, con la pianta a forma di clessidra per far brandeggiare i pezzi.

Il muro est del castello è precedente ai tempi di Sigismondo con i segni dei beccatelli più volte rasati per alzarne l’altezza, aggiornato dal Valentino con i merloni e una feritoia rettangolare orizzontale detta “cannoniera alla francese”. Se ne vedono due, una nell’ultimo merlone e una sotto il tetto della torre.

E tuttavia il Valentino non fa a tempo a costruire le fortificazioni del fossato, perché l’esperto veneziano non avrebbe detto che mancavano i “tiri per fianco” se le quattro torri piccole fossero state costruite magari proprio con i mattoni recuperati delle torri grandi capitozzate.
Allora sono stati i Veneziani a costruire le torri del fossato?

Particolare dei merloni e di una “cannoniera alla francese”, 1500- 1503.

Anche i Veneziani non ebbero il tempo o non trovarono le risorse per costruire le quattro torri.
Entrata Rimini a far parte dello Stato della Chiesa, papa Clemente VII cercò di rendere efficace il suo castello insieme ad altri di Romagna. Il secondo papa di famiglia Medici nel 1526 mandò a Rimini e in Romagna Antonio da Sangallo il Giovane e Michele Sanmicheli. Il primo fece dei disegni i cui abbozzi con le misure ci sono arrivati. Le quattro torri sono per la prima volta presentate per ottenere una difesa “per finaco” del promurale e del fossato, con tale precisione da far pensare che i disegni del Sangallo siano veri progetti. Anche se costruiti in tempi posteriori, questi disegni anticipano tutte le forme successive che ci sono arrivate. Ma papa Clemente VII subiva nel 1527 il terribile sacco di Roma da parte delle truppe imperiali e non ebbe le risorse per interventi di fortificazioni in Romagna – ma vedi sotto la torre detta “Tanagliozza” nelle difese di Marina -. Se non da Clemente VII le torri furono costruite da Paolo III Farnese papa dal 1534 al 1549, al tempo della risistemazione della fontana di piazza di Rimini in suo onore?

Dai tempi di papa Farnese tutti gli anni sembrano buoni per ipotizzare la costruzione delle torri del fossato fino ad arrivare alle prime testimonianze della costruzione alla fine del ‘500.
Si noti che le nuove costruzioni difensive del Sangallo rafforzavano la sponda interna del fossato quattrocentesco, evidentemente lo si considerava ancora un efficace perimetro di difesa. Con le torri vennero costruiti anche i muri trasversali del fossato, presenti in tutte le piante del ‘600 e del ‘700, forse costruiti, come diceva Dino Palloni, per mantenere l’acqua in comparti chiusi mentre una falla aperta nei muri o nelle sponde avrebbe svuotato in poco tempo tutto il fossato. Il fossato acqueo perdeva però la sua funzione di terreno asciutto come battagliera.

Particolare di una tela di Giorgio Picchi, nella chiesa dei S.S. Bartolomeo e Marino di Rimini, con la veduta di Castel Sismondo 1595.

La veduta del castello, dipinta nel 1595 da Giorgio Picchi nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Marino non è molto chiara, mostra tuttavia un bastione rettangolare al posto di quello pentagonale, sangallesco, che vediamo in tutte le ulteriori immagini, davanti alla grande torre interna che poi verrà distrutta. Si ebbe una nuova ristrutturazione della fortezza al tempo di Urbano VIII, papa dal 1623 al 1644, e Castel Sismondo venne chiamato Forte Urbano. Gian Ludovico Masetti Zannini ha pubblicato i documenti dei lavori al castello, che vanno dal 1624 al 1643, e l’espressione “terrapienare il castello”, avvicinata a “cavare la fossa”, significa un rafforzamento delle torri nel fossato, un tipo di fortificazione che si era stabilito, come abbiamo visto, nella seconda metà del ‘500. Per essere più precisi analizziamo tutte le principali testimonianze cinquecentesche.

La pianta di Rimini nella Galleria delle Piante in Vaticano, opera di Ignazio Danti e dei suoi collaboratori degli anni 1581-1585, mostra al posto di Castel Sismondo una rocca nuova bastionata alla cinquecentesca in un largo fossato acqueo al posto del castello malatestiano; è una veduta ideale che non ci serve.
La veduta di G. Braun del 1593 rappresenta il castello con la prima cinta che potrebbe essere l’innalzamento dei bastioni che stiamo cercando. La prima cinta coi bastioni appare più chiara, o meno confusa, nella veduta dall’alto di P.F. Bertarelli del 1593.
Anche la veduta del castello nella pianta di Alfonso Arrigoni allegata al Racconto Istorico di Cesare Clementini, datata 1617, trasmette l’impressione che le quattro torri esistessero già prima degli interventi di papa Barberini.

Particolare della pianta vaticana anonima del 1660 con la veduta di Forte Urbano.

L’esame autoptico durante e dopo lo scavo del fossato fornirà gli indizi necessari per datare le piccole torri.

L’INGRESSO VERSO LA CITTÀ, I PONTI LEVATOI E IL “PONTE MORTO”

La situazione originale dell’ingresso verso Rimini è ricostruibile con le tre immagini derivate da un probabile prototipo brunelleschiano – la medaglia di Matteo de Pasti 1446, l’affresco di Piero della Francesca 1451, il bassorilievo di Agostino di Duccio – come proposto, e dalla descrizione del Valturio che già conosciamo.

Xilografia nel De Re Militari rappresentante il rastello d’ingresso dei castelli.

Nella medaglia e nell’affresco appare chiaramente davanti al fossato un doppio corpo merlato, con un muro con quattro merli che fiancheggia l’apertura per i carri chiusa da un “rastello”, e da un altro muro merlato con una porta. Seguiva sul fossato un breve piancito di legno che riceveva i battenti dei due ponti levatoi della torre dentro il fossato che Valturio ci dice dipinta di verde. Dalla porta posteriore di questa torre cominciava un lungo piancito ligneo che riceveva i battenti dei due ponti levatoi, carraio e pedonale della torre portaia del primo recinto o promurale.
Nei disegni del Sangallo sembra essere prevista una grande torre davanti all’ingresso, forse un rivellino?

Ferdinando Marsili, Forte Urbano, 1708.

La prima sistemazione si nota in due documenti, la pianta di Ferdinando Marsili del 1708 – nella quale però non si vede il doppio corpo merlato del rastello evidentemente eliminato – e un dettaglio del disegno di Andrea Zoli del 1825 che rappresenta il fianco sinistro dell’ingresso con tre archi di diversa ampiezza, il primo e l’ultimo si possono ipotizzare quattrocenteschi. E’ ipotizzabile che questi due sorreggessero gli assiti e coprissero anche i ponti levatoi. L’arco mediano fu costruito al posto della torre verde demolita.

Foglio di disegni di Andrea Zoli relativi allo stato di fatto di Castel Sismondo -Forte Urbano – nel 1825. Si possono distinguere alcuni elementi quattrocenteschi.

Veduta dell’ingresso del castello di Pio Panfili 1790.

Anche nella tempera e nell’incisione del disegno dello Stegani per il d’Agincourt, la torre verde è scomparsa e c’è un lungo ponte morto dall’orlo del fossato fino ai due ponti levatoi della prima torre portaia, che nella sezione del Zoli è rappresentato con due archi piccoli e uno grande, come abbiamo visto.

Pianta di Francesco Nagli 1664. La torre verde è ancora in sito ma stranamente disegnata in tre corpi.

Romolo Liverani, tempera del 1844 rappresentante le mura di Castel Sismondo, lato monte. Il fossato non venne riempito di macerie, ma si reimpì di terra e alberi. Si noti l’interruzione della scarpa dove c’era la torre portaia del secondo cortile.

“LA BANDA DI LA PORTA DEL SOCORSO”

Il fossato esterno ricalca il percorso del fossato della città, ma è isolato dal fossato interno dalla prosecuzione delle mura urbane che lo tagliano in due parti. Una tempera di Romolo Liverani del 1844 ci mostra la parte verso monte di Castel Sismondo con il fossato esterno pieno di vegetazione ma non riempito con macerie come quello interno negli anni 20 dell’800.
Il Velier, che era un esperto di guerra veneziano, aveva notato che la parte posteriore del castello era costituita soltanto dal vecchio muro della città – possiamo ancora oggi vedere le merlature di muri precedenti inglobate nei muri quattrocenteschi – e aveva pensato che il castello non fosse stato completato se non per 1/3. Questo parere di un “homo doctus ad bellum” sembra ragionevole e ci fa pensare ad alternative in contrasto con le affermazioni della fine ufficiale dei lavori di Castel Sismondo nel 1446.

Dettaglio del disegno di Andrea Zoli del 1825, mostra una sezione del fossato con le scarpe che in cima mostrano qualche metro di mura verticale, ma sono alte in tutto circa 14 metri come le aveva descritte Roberto Valturio.

PRIMA DIGRESSIONE. IL GUADO DEL MARECCHIA TRA LA CITTÀ E IL BORGO SAN GIULIANO

Andrea Zoli, dettaglio con la sezione del fossato, delle scarpe e controscarpe; la misura di altezza di circa 14 metri corrisponde al dato del Valturio, ma sopra i 10 m circa si vede un tratto verticale di muro. Inoltre appare anche la sezione del corfone esterno.

Angelo Turchini, nell’analisi della pianta Sangallo-Beltrami pensa che il termine “sostegnio”, scritto vicino al muro che separa il fossato comunale da quello esterno del castello, e all’ingresso posteriore del fossato, significhi “briglia” e presenta come modello un disegno di briglia trovata nel greto del Marecchia poco dopo il ponte romano, che assegna al secolo XV. Altri assegnano questo muro ad epoca romana. Ma se si guarda alla pianta dell’Arrigoni del 1617, la “briglia” appare nel fiume al termine delle mura esterne del Borgo di San Giuliano. La sua ragion d’essere la si ricava da una supplica dei “patroni di barche e pescatori’ del Borgo al Consiglio Generale dell’8 aprile 1708 contenente la richiesta di costruire dei “pennelli” o briglie per la protezione del guado che, passata la “porticella” – non ancora chiamata Porta Gervasona -, gli permetteva di attraversare il fiume per raggiungere le loro barche ormeggiate sulla parte destra del fiume o porto.
C’era un guado che arrivava allo squero del Borgo di Marina, come ha già pubblicato Oreste Delucca, documentato dal 1469 ma esistente già prima, non sempre allo stesso posto, data la natura torrentizia del Marecchia; ancora esistente nel 1862:

“Secondo le tradizioni locali non contraddette dalle testimonianze risulta che da tempo immemorabile è sempre esistito nella località controversa [dietro la chiesetta della Madonna della Scala] un Passo Pubblico per la comunicazione della Città col Porto alla sinistra del Canale che si traversava liberamente da chiunque volea guardare il Canale. Guado che vi esiste tuttora, nella zona vi si depositano macerie; da un foglio in data 26 agosto 1843 del Gonfaloniere diretto al Governatore locale un tal passo pubblicamente avea voce di Strada dei Congiurati fin dall’anno 1748, per difesa del quale furono costruiti due pennelli nel Fiume dal Comune, e dai Proprietarj adiacenti e nel 1843 esistevano anche sostegni di detti pennelli.” [Relazione dell’ingegnere distrettuale Biagio Schiedi del 13 agosto 1862 in Arch. Com. B.864]

SECONDA DIGRESSIONE. LE BERTESCHE DI MARE, EFFETTI DELETERI DEL FALSO SECONDO PORTO “SALSO” DEL CLEMENTINI, LA TORRE CHIAMATA TENAGLIOZZA, IL COSÌ DETTO BASTIONE DI SAN CATALDO

Immagino sempre che i miei lettori apprezzino queste articolazioni di digressioni da me segnalate al fine che chi non sia interessato all’argomento le salti; sono poi in sostanza appendici a quanto è il contenuto stretto del tema o dell’argomento principale, spesso a partire da un dettaglio. Angelo Turchini ha pubblicato, nel suo dotto articolo su Castel Sismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta del 1985, una descrizione della rocca malatestiana e della cinta urbana di Rimini scritta dal veneziano Malipiero nel 1504, per informare il Senato di Venezia dello stato dei fatti e delle spese da affrontare per rimediare ai principali difetti delle fortificazioni di Rimini.

Mi sembra interessante accompagnare l’esperto di guerra veneziano Malipiero nell’esaminare la situazione del muro urbano a Marina per alcune considerazioni anzitutto sull’inizio della regressione marina, dopo che per secoli la spiaggia era stata a pochi metri dalle mura, e la documentazione del fenomeno del mare che dopo secoli e secoli, tra il 1469 e il 1504 cominciava a ritirarsi visibilmente.

Particolare della pianta dell’Arrigoni del 1617 con la “briglia” o pennello che proteggeva il guado.

Come i miei vecchi lettori già sanno, i Malatesta nel 1352 avevano condotto due “muri mirabili”, uno dalla cinta cittadina e un altro da quella del Borgo San Giuliano fin dentro il mare per chiudere la spiaggia ai ‘nemici’ e costringerli a spingersi in mare per superare il muro e l’ultima torre di questo fondata in acqua. I due muri mirabili sono chiamati “beltresche da mare” con una metonimia, la parte per il tutto. Lo storico barocco Clementini aveva scambiato le “beltresche da mare” presso l’Ausa , dette anche “i Muracci”, per lui un molo romano protetto da un muro, e “la Torraccia” per lui un faro antico -. Gli storici riminesi successivi, sviati dal Clementini, semplicemente non hanno fatto caso a questi muri che s’inoltravano in mare.

I nomi “beltresche da mare” e “manteliti del muro dell’Avese” e del Borgo San Giuliano, che identificano i due “muri mirabili”, segnalati da Marco Battagli uno storico riminese del ‘300, appaiono in un documento del 1382. Si tratta di una definizione metonimica, ossia un nome che indica il tutto con la parte: le bertesche per le mura. Il nome bertesca aveva nel ‘300 a Rimini due significati: uno indicava il casotto ligneo che sporgeva a diverse altezze sulle porte di torri, di castelli e di città per una difesa piombante; l’altro significato indicava tutto l’apparato a sporgere in legno che veniva apprestato sulle mura sporgente dai merli in previsione di un assedio. I “manteliti” o mantelletti sono le chiusure basculanti in legno tra merlo e merlo. In altre parole “bertesche” e “mantelletti” indicavano le parti lignee delle difese sommitali.

Un secolo dopo questi muri mirabili avevano ancora una funzione, tanto che l’anno 1469 nell’assedio di Rimini da parte delle truppe pontificie dopo l’occupazione del Borgo San Giuliano, un drappello di soldati pontifici a piedi e a cavallo era passato mediante il guado sopra nominato nel Borgo di Marina e poi nella spiaggia, sperando di trovare nelle mura davanti alla spiaggia di Rimini un qualche passaggio. Avevano trovato invece una resistenza sugli spalti da parte dei giovani di Rimini affezionati a Roberto Malatesta e a Isotta vedova di Sigismondo Pandolfo. Così i soldati pontifici avevano deciso di ritirarsi. Ma il Marecchia nel frattempo si era ingrossato d’acqua e il guado non era più utilizzabile. Allora avevano deciso di passare oltre il muro che difendeva la spiaggia verso Riccione; l’avevano conquistato, senza però poter passare sulle mura della città. Alla fine avevano fatto un buco nel muro dal quale erano passati i fanti, mentre i cavalieri si erano buttati in mare passando intorno alla torre detta “la Torraccia”, presunto faro romano.
Avete notato che nella descrizione del Malipiero del 1504, la Torraccia non è più dentro il mare ma è all’asciutto sulla spiaggia; scrive il Malipiero:

Catasto Calindri 1774, f. Le Celle, particolare delle mura di Borgo San Giuliano con l’attacco della bertesca di mare del 1352. Al centro del disegno sopra il rettangolino verde.

“Tra la Patarina [la fossa che esce dalle mura all’inizio del piazzale degli autobus presso piazza Clementini] e la porta di Cavalieri [sorgeva dove nell’800 era la Barriera di via Principe Amedeo, oggi via Giovanni XXIII] c’è una cortina di muro con una guardia la quale sempre è solita tenerse, che se estende fino al mar, che impediva e custodiva il passar verso il porto. Bisogna estender una palata in mar che impedisca il guazar, over far uno pezo di muro principiando a la Patarina per lungo del fiume de l’Avese [Ausa] che potria esser de passa 60 [circa trecento passi, passo di Venezia uguale a 5 piedi, un piede m. 0.347, 60 passi m.104”; si noti che il Malipiero suggerisce due alternative la prima di prolungare le “beltresche da mar” con una palata, la seconda di fare un muro nuovo a partire dall’uscita della fossa Patera, per 100 metri, parallelo alla foce dell’Ausa, fino all’interno del mare. Ripercorrete i calcoli.]”

Francesco Guicciardini (1483-1540) Presidente della Romagna sotto i due papi Medici – Leone X papa dal 1513 al 1521 e Clemente VII papa dal 1523 al 1534 – vi fece costruire la torre cilindrica detta la Tenagliozza nel punto di congiunzione delle bertesche e delle mura cittadine. Se ne accorsero il dottor Bianchi e il dottor Battarra, in visita autoptica ai muri e ai terreni di Marina notando lo stemma del Guicciardini sulla torre – tre guicciarde, ossia corni da caccia, in argento in campo azzurro; uno stemma parlante, che pronunciando il nome dell’oggetto effigiato rivelava il cognome della famiglia – accanto a quello di un papa Medici. Più in là verso il fiume, trovarono un’epigrafe che datava al 1620 la ricostruzione a spese comunali del muro e delle due torri o bastioni ai lati del rettangolo di mura che chiudeva l’orto dei Domenicani di San Cataldo [lettera del Bianchi a Cristofano Amaduzzi del 17 maggio 1770, conservata nell’Accademia dei Filopatridi di Savignano].

Particolare di una pianta vaticana del 600 esemplata sulla pianta Arrigoni si cede le bertesche di mare dell’Ausa, spacciate dal Clementini per il molo e il faro del secondo porto romano, con la torre cilindrica Tenagliozza.

Tra “la Patarina e la porta dei Cavalieri” nella descrizione del Malipiero non c’è altro. Ma allora l’ “ampio seno di mare”, il secondo porto che nel 1567, come ci assicura il Clementini, bugiardo, bugiardone, sarebbe stato ancora capace di ospitare una flotta di navi da guerra, non si sarebbe dovuto vedere nel 1504? Il Malipiero non l’aveva visto? Non ci aveva fatto caso? No, non l’aveva visto perché non c’era proprio. Ecco un’altra prova inequivocabile del falso secondo porto romano del Clementini, un falso barocco che ha incantato generazioni e generazioni di storici e archeologi non solo di Rimini per quattro secoli. Il mainstream degli storici di Rimini deve aggiornarsi. Su, su datevi una mossa.

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