Dove prima c'era un elettrauto, adesso c'è un centro islamico. Così come in via Giovanni XXIII tutto si svolgeva in un immobile adibito a uffici (non senza qualche invasione all'esterno). Eppure non sono semplici centri culturali, sono anche luoghi di culto e di predicazione islamica. Qualunque riminese per aprire una seppur minuscola attività deve chiedere una infinità di permessi. Loro invece si sono già stabiliti nella nuova sede di via San Nicolò. Non sappiamo nemmeno quanti ce ne sono in città di centri islamici. Secondo la Regione 7, secondo il Comune 3. L'assessore Jamil Sadegholvaad però ci prova: "Attraverso il Rue metteremo un freno".
C’è o no in questo momento un allarme sui rischi legati al radicalismo islamico? C’è o no l’esigenza di conoscere quanto meno la dislocazione territoriale delle “moschee” nelle nostre città, sapere esattamente quante sono, chi le frequenta e chi presiede le riunioni? C’è o no, soprattutto per una sinistra che agita la bandiera della integrazione, la necessità di conoscere uomini e donne che a parole si dice di voler integrare ma di cui si sa poco o nulla? Eccome se c’è. Eppure a Rimini non sappiamo con certezza nemmeno il numero dei centri islamici. Per la verità, ancor prima del numero, non sappiamo nemmeno come definirli: centri culturali o moschee?
Secondo la ricerca sulle presenze islamiche in Emilia Romagna, una sorta di mappatura realizzata dall’Osservatorio sul pluralismo religioso fra 2015 e 2016, che venne presentata nella assemblea legislativa emiliano-romagnola (si può leggere qui), i centri islamici in regione sarebbero 176, di cui 12 a Rimini, distribuiti fra città (7) e provincia (5).
Secondo l’amministrazione comunale invece, nella città di Rimini ce ne sarebbero solo 3. Lo studio regionale, però, parla di “centri censiti” e l’indagine è stata messa insieme “con un questionario che prevedeva due livelli: il primo, topografico-descrittivo è servito a costruire la mappa delle presenze (nome, indirizzo, corrente religiosa); il secondo a studiare le caratteristiche e le attività di ciascun gruppo”. Dunque non dovrebbe trattarsi di fake news.
E allora? “Non so come venga fuori il numero contenuto nel rapporto regionale. Un indirizzo a Rimini è anche quello di via De Giovanni, che mi risulta sia la vecchia sede in cui si ritrovavano le persone che adesso frequentano quella di via Popilia. A noi di centri islamici a Rimini ne risultano 3: uno è quello di via Giovanni XXIII che attualmente è in fase di trasferimento in via San Nicolò, uno è in via Popilia, e il terzo si trova in via Italia”, spiega l’assessore alla sicurezza Jamil Sadegholvaad.
Quello di via Popilia va cerchiato con un bollino rosso. Stando all’inchiesta antiterrorismo della DDA di Bologna, che fra fine maggio e i primi di giugno ha iscritto nel registro degli indagati 9 persone residenti in Romagna, di cui 3 a Rimini, il centro islamico delle Celle sarebbe stata la base dei salafiti oltranzisti che qui si davano appuntamento un po’ da tutta la regione. Non si è più saputo nulla. Ma è scattata qualche misura particolare da parte del Comune di Rimini per accendere i riflettori sui centri islamici e porre un freno alla loro diffusione? No, anche se Jamil Sadegholvaad una idea ce l’ha, ma ne parleremo fra poco.
Assessore, non dirà che un certo allarme attorno a questi luoghi, considerato quel che sta accadendo in Europa e nel mondo, non sia giustificato. “Rifiuto l’equazione Islam uguale terrorismo. Ma i fenomeni che si stanno appalesando sempre più spesso richiedono una grandissima attenzione da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine. L’indagine della DDA, che ha riguardato anche le presunte infiltrazioni terroristiche del centro islamico delle Celle e sulla quale sono molto curioso di vedere se ci saranno sviluppi, deriva dal fatto che ci si pone giustamente il tema di sorvegliare queste realtà per evitare che vengano infiltrate, appunto, da persone che non hanno interesse tanto a pregare quanto a realizzare altri scopi. Questi luoghi meritano di essere attenzionati. Ma non si può criminalizzare l’Islam. L’Isis il 90% delle sue vittime le ha fatte in Paesi di religione musulmana”.
Torniamo ai centri islamici di Rimini. Da anni Gioenzo Renzi denuncia che Borgo Marina è diventato un ghetto afro-asiatico, che una moschea frequentata da centinaia di musulmani non è compatibile con un immobile destinato catastalmente ad uso ufficio mentre in realtà è un luogo di culto. Ma la moschea è li dal 2004, e nonostante le varie promesse fatte da due sindaci (Ravaioli e Gnassi) di un trasferimento in altro luogo, solo per volontà della associazione che la gestisce, che ha scelto di stabilirsi in uno spazio più capiente e diversamente organizzato all’interno, si è spostata di poche decine di metri, in via San Nicolò, appunto. Ma utilizzando il solito “trucchetto” del centro culturale, pur assolvendo di fatto alle funzioni di una moschea.
“Se c’è una destinazione d’uso conforme rispetto all’immobile, cioè una funzione di tipo culturale e sociale, di fatto chi organizza il centro islamico non è tenuto a comunicare nulla al Comune. Nel caso dell’immobile di via San Nicolò, siccome sono previsti interventi di carattere edilizio, entra in gioco il settore edilizia al quale va fatta la relativa comunicazione, e dunque ne siamo venuti a conoscenza. Anche per la sede di via Giovanni XXIII è successa una cosa analoga: da civile abitazione è stato chiesto il cambio di destinazione ad uso uffici, ed è una destinazione compatibile con un centro culturale”. Ma come si fa a considerare centro culturale una attività che invece è assimilabile a quella della moschea? E poi: un ufficio non potrà mica ospitare centinaia di persone, o no? “Chiaro che qualsiasi immobile ha un limite di capienza in rapporto ai metri quadrati. A casa mia posso chiamare 20 amici e mettermi a pregare, nessuno mi può dire nulla, ma se ne chiamo trecento non si può fare”, dice l’assessore. Eppure è quello che succede da dodici anni nella moschea di via Giovanni XXIII.
E i controlli vengono fatti? “Certo, la polizia municipale ne ha fatti, l’ultimo in via Giovanni XXIII risale a tre o quattro mesi fa: è andata la squadra edilizia della pm ma non sono emerse irregolarità. Stamattina è previsto un controllo della polizia municipale nella nuova sede di via San Nicolò per verificare i requisiti di carattere edilizio”.
Quali sono gli interventi edilizi che il centro islamico intende realizzare? “Chiedono di ampliare il piccolo bagno esistente e ricavare un’area riservata alla preghiera delle donne, separata da quella in cui si svolge la preghiera degli uomini, perché nella tradizione islamica non possono pregare insieme. Mi risulta che ancora non li abbiano realizzati, hanno solo presentato la domanda, ma il sopralluogo serve a capire bene lo stato di fatto”.
Però utilizzano già la nuova sede, prima officina di un elettrauto, come moschea. Tutto bene? “Dal punto di vista della destinazione d’uso è già utilizzabile come centro culturale, è conforme da questo punto di vista, ma dopo i controlli di oggi avrò un quadro più preciso”.
Come amministrazione comunale avete rapporti coi referenti di questi centri islamici? “Di fatto no, col referente della comunità del Bangladesh a Borgo Marina ci sono stati dei contatti in passato, però nel frattempo si è trasferito. Adesso chi sia di preciso il referente del centro islamico di Borgo Marina non saprei. Non è che comunicano all’amministrazione comunale una sorta di inizio attività o chi sia l’imam o altro …”
Sapete chi si ritrova nei tre centri islamici di Rimini? “La comunità del Bangladesh è la più numerosa in via Giovanni XXIII, la comunità magrebina alle Celle, mentre quello di via Italia è frequentato dalla comunità macedone, da quello che sappiamo con numeri molto più ridotti rispetto alle altre due”.
Sono state raccolte 1600 firme per chiedere la chiusura della sede di via Giovanni XXIII, ma non è successo nulla, anzi, a poca distanza succederà la stessa cosa. “Se qualcuno decide di prendere in affitto un immobile per farci un centro islamico, noi non possiamo vietarglielo. E’ un problema col quale si misurano tutti i comuni d’Italia, quando la destinazione d’uso è conforme, non ci sono appigli giuridici per proibirlo …. Stiamo però approfondendo un aspetto, che penso ci potrà portare ad una soluzione”. Quale? “Ci sono dei pareri giursprudenziali sul fatto che i centri culturali islamici vadano assimilati ai luoghi di culto, con l’obbligo quindi di dotarsi anche di tutta una serie di standard. E’ una strada che vogliamo approfondire. Non puoi aprire un luogo di culto se non hai ad esempio i parcheggi. Vogliamo pertanto lavorare ad una modifica del Rue sulle dotazioni che devono avere i luoghi di culto. Questo consentirebbe di porre un freno alle aperture indiscriminate di centri culturali che, alla prova dei fatti, hanno molte attinenze con le moschee”. Con l’escamotage del centro culturale si dà vita ad una moschea, insomma. “Mettiamola così… Attualmente c’è questa ambiguità e anche le normative non aiutano molto: se quello che sulla carta è un centro culturale, ma nella realtà è un luogo di culto con un afflusso importante di persone, che magari lasciano 200 paia di scarpe sul marciapiede, beh, non va bene”.
L’idea enunciata dall’assessore Jamil Sadegholvaad, cioè considerare i centri islamici come moschee, non è nuova. Roberto Maroni ha tenuto a battesimo una legge della Regione Lombardia che equipara i centri culturali islamici alle moschee e li sottopone alla legge sui luoghi di culto. La giunta Gnassi sulle orme del leghista Maroni? Ne vedremo delle belle.
Il 12 settembre sarà a Rimini (ore 21,15 nella parrocchia di San Giuseppe al Porto) uno dei maggiori esperti mondiali in fatto di Islam. Si tratta di padre Khalil Samir, islamologo, docente al Pontificio Istituto Orientale e all’università Saint Joseph di Beirut, invitato dal Centro internazionale Giovanni Paolo II a parlare dell’Islam e la sfida all’Occidente. Da anni va ripetendo che spesso e volentieri si parla di moschee senza sapere ciò di cui si parla.
Ecco alcuni dei suoi punti fermi.
“La moschea non è una “chiesa” musulmana, ma un luogo che ha nell’islàm la sua funzione e le sue norme. Perciò si deve guardare all’islàm per capire che cosa essa è. La moschea è il luogo dove la comunità si raduna, per esaminare tutto ciò che la riguarda: questioni sociali, culturali, politiche, come anche per pregare; tutte le decisioni della comunità si prendono nella moschea. Nella storia musulmana, quasi tutte le rivoluzioni e i sollevamenti popolari sono partiti dalle moschee. Alla pubblica amministrazione spetta studiare come esercitare un certo controllo su tali centri, vista la loro funzione politica tradizionale”.
“Le moschee sono il luogo naturale attraverso cui l’islam radicale, per mezzo dei discorsi degli imam, penetra nel mondo musulmano. Non è una teoria, è un fatto, è successo ovunque nel mondo. Bisogna controllare le moschee”. Come? “La preghiera ovviamente deve essere fatta in arabo, perché è obbligatorio. Ma un conto è il rito, un conto è il discorso dell’imam, che ha una parte spirituale e una socio-politica. Il discorso dell’imam deve per forza essere fatto in italiano, così che possa esserci un controllo. Anche questo va nell’interesse dei musulmani stessi, che così sono aiutati a capire la lingua che si parla nel paese in cui vivono”.
“In viale Jenner a Milano il venerdì i musulmani bloccavano la circolazione per pregare, come si fa in tanti paesi musulmani. Questo può avvenire una o due volte all’anno, in casi eccezionali, chiedendo il permesso alla polizia. Ma non ci si può impossessare della strada tutti i venerdì, per di più senza chiedere il permesso. Chi arriva in Italia da un altro paese deve rispettare le regole. È quindi necessario che chi arriva qui impari la lingua, anche le donne. Nella tradizione musulmana tendono a stare in casa e a parlare solo la lingua di origine, ma bisogna aiutarle. Le regole sono un modo per aiutare l’immigrato, non per andare contro di lui. Un musulmano deve sapere che in Italia non può trattare sua moglie come farebbe in Arabia Saudita. Non può tenere le figlie rinchiuse e i figli mandarli liberamente in giro. Se non assume questi aspetti della nuova cultura, un immigrato non potrà integrarsi”.
“Dobbiamo capire che l’islam non è una religione nel senso cristiano della parola. Almeno, non è solo questo. Per noi, la religione è un rapporto personale tra me e Dio, con annesso qualche legame religioso spirituale con altre persone. Nel sistema islamico, la religione è tutto. E’ un progetto globale: spirituale, sociale, intellettuale, familistico, economico, politico, militare; include il modo di mangiare, di vestirsi, di stare con gli altri, di vivere. L’islam entra in ogni cosa. Non c’è un campo che sia esterno all’islam. Pensiamo al modo di relazionarsi agli altri: se parlo con un uomo o con una donna, è l’islam a deciderlo. Se frequento uno straniero, prima mi assicuro che lui sia credente e musulmano. L’islam penetra in tutto. Le scelte sociali, politiche, commerciali sono fatte a partire dall’islam. La religione penetra ogni aspetto”.
“Negli ultimi tempi, la tendenza – che esiste da decenni nel mondo islamico, almeno dagli anni Sessanta – è quella di una diffusione di una visione dell’islam sempre più integralista, fondamentalista, collettiva; una visione della vita che si impone lentamente alla maggioranza. E’ il sistema wahhabita o salafita, o dei Fratelli musulmani. Tutti vanno nella stessa linea, e cioè di imporre un modo di essere musulmano. E questo determina che un quartiere, una città o un paese intero divenga sempre più diretto da questo gruppuscolo che ha un progetto chiaro e determinato, nonché spesso finanziato dai ricchi paesi petroliferi. Al centro di questa isola si metterà la moschea. Si dirà: “Ci sono tante chiese e noi non abbiamo neanche un piccolo luogo di preghiera”. Si faranno pressioni sui comuni cittadini, per dire “rispettateci”. Allora, o l’amministrazione pubblica dice “va bene, vi regaliamo quel terreno”, oppure loro lo acquisteranno, aiutati dai paesi petroliferi.
Costruiranno allora un piccolo centro, che pretenderebbe di essere solo per la preghiera, ma che subito vedrà sorgere librerie con volumi fatti a mero scopo propagandistico. Nascono così i centri islamici. Il fatto è che gli europei pensano che una moschea sia come una chiesa. Ma nella chiesa si prega, non si fa politica. Forse, una volta se ne faceva un po’, ma oggi chi va in chiesa lo fa per pregare. Nella moschea no. Il discorso ufficiale durante la preghiera del venerdì è solo in parte religioso. La parte preponderante, invece, è socio-politica”.
“Lo stato deve spiegare agli immigrati che ci sono delle condizioni necessarie da rispettare, prima fra tutte la necessità d’imparare la lingua nazionale. Si dovrebbe spiegare che non si può rimanere qui, in Europa, se non ci si comporta non solo conformemente alle nostre leggi, ma anche in secondo le norme e le usanze delle nostre società. Ma cosa significa “integrare”? Significa far sì che l’altro sia uno di noi. Perché se l’altro non si integra, per esempio con la lingua, avrà difficoltà a trovare anche determinate occupazioni. C’è troppa falsa “tolleranza” e disorganizzazione, mancanza di riflessione su ciò che significa “accogliere”.”
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