Richiama la "carta Marvelli" che nei giorni scorsi ha sottoscritto col sindaco di Rimini. Ci aggiunge lo sforzo di non farla passare come un assist a
Richiama la “carta Marvelli” che nei giorni scorsi ha sottoscritto col sindaco di Rimini. Ci aggiunge lo sforzo di non farla passare come un assist al sindaco, motivando la carta del buon amministratore come lo spunto per “una severa revisione degli orientamenti, dello stile e della prassi che si sta perseguendo per il ‘risorgimento’ di Rimini e del Riminese”. Si chiede quanto sia umanamente abitabile la città di Rimini. Mette in luce il degrado degli edifici del centro storico e critica l’immagine della “città dei servizi” che “tradisce una concezione del cittadino come semplice cliente”. Parla della famiglia ma senza un solo cenno al registro dei matrimoni gay (*in fondo a questa pagina il comunicato stampa, che risale allo scorso settembre, del Consiglio permanente della Cei sul tema) annunciato dal sindaco pochi giorni fa. Lavoro, immigrazione e gioco d’azzardo, legalità, gli altri temi. Con un appello finale alla generosità e alla condivisione: “la Città non risorgerà, se non insieme”. Questi i contenuti del discorso alle autorità cittadine (integralmente qui di seguito) del vescovo di Rimini in occasione di S. Gaudenzo.
Due ricorrenze caratterizzano la festa di san Gaudenzo nella presente edizione: i 70 anni dalla liberazione di Rimini e i dieci dalla beatificazione di Alberto Marvelli. Anche se distanziati nel tempo, i due anniversari sono avvicinati non solo dal fatto di essere avvenuti nello stesso mese, ed è per questo che sono stati celebrati nello scorso settembre a distanza di pochi giorni. Questi eventi risultano interconnessi soprattutto perché ambedue intrecciati al nome dello stesso personaggio – appunto Marvelli – in quanto, oltre ad essere il servo di Dio beatificato a Loreto il 5 settembre 2004, l’ingegnere-manovale della carità è stato uno dei principali artefici della ricostruzione morale e materiale della nostra Città. E proprio in sua memoria qualche giorno fa abbiamo firmato con il sig. Sindaco, dott. Andrea Gnassi, la Carta dell’Amministratore, ispirata agli ideali e alle virtù cristiane e civiche del nostro beato. Queste ricorrenze non sono meramente celebrative, ma inducono a una severa revisione degli orientamenti, dello stile e della prassi che si sta perseguendo per il ‘risorgimento’ di Rimini e del Riminese.
1. Oggi per tanti cittadini vivere a Rimini è diventato faticoso e disagevole. Si registra anche da noi quel malessere della ‘città’ e nella ‘città’, radicato e sempre più diffuso, che si respira anche altrove. Aumentano le situazioni di difficoltà e di sofferenza, e le aree della povertà, del pericolo, dell’insicurezza si vanno estendendo in misura crescente e allarmante. Le persone che soffrono per deficit di relazioni umane significative e appaganti sono sempre più numerose. Si manifestano forme di separazione che non riguardano solo le identità etniche, culturali o religiose, ma semplicemente le età e le generazioni. Ogni fascia anagrafica vive il suo disagio specifico rispetto alla città: i bambini, i giovani, gli adulti, gli anziani, le donne, i disoccupati, gli immigrati. Si riscontra anche un crescente scollamento tra la città come urbs, ossia come assetto fisico-spaziale, e la città come civitas, come l’insieme organico dei suoi abitanti. Una sorta di scissione tra il corpo e lo spirito di quell’organismo particolare che è appunto la città. Ma soprattutto appare in crescita esponenziale il sentimento di paura e di incertezza verso il futuro, in conseguenza delle minacce, reali o presunte, che si profilano all’orizzonte: dalla paura degli immigrati e dei fondamentalismi settari alla paura di attentati terroristici; dalla paura legata agli episodi di microcriminalità che minacciano la nostra vita privata alla paura di vivere in periferia e di essere esposti a rischi di ogni tipo. A fronte di questi fenomeni emerge un grande bisogno di sicurezza e di legalità, come se la città fosse, di suo, diventata ‘ostile’ e inospitale, una minaccia da cui proteggersi in qualche modo, in qualunque modo. Ma il primo vero ‘ghetto’ è quello che si fa strada nel cuore della gente, un ghetto culturale e spirituale, una separazione unilaterale e discriminante, un auto-isolamento distante e appartato.
2. Resta la domanda: quanto è umanamente ‘abitabile’ la nostra Città? Va apprezzato lo sforzo dell’Amministrazione nella risistemazione della rete fognaria, nelle nuove pavimentazioni e con un arredo stradale più curato. Ma occorre anche riconoscere che nel centro storico e nei borghi molti edifici documentano un progressivo degrado: potrebbe essere utile un censimento delle abitazioni obsolete, inadeguate, a volte disabitate o male abitate; case molto piccole e a volte trascurate accanto a edifici più solidi e dignitosi. Forse i troppi vincoli scoraggiano dall’operare ristrutturazioni onerose e senza corrispondente ritorno economico. Una visione ristretta del problema rischia di rendere meno belle, abitabili e appetibili le zone centrali della Città.
Sappiamo che la vivibilità di una città è connessa anche alla sua viabilità. Merita apprezzamento lo sforzo dell’Amministrazione per avviare a soluzione l’annosa questione della circolazione interna. Occorre però non solo recuperare il tempo perduto, ma accelerare il passo anche in direzione di un vero e proprio progetto di ‘coabitazione’ e di pacifica ‘convivenza’ tra le diverse culture ed etnie che stanno popolando il territorio. Non dobbiamo permettere che la possibilità di creare un “giardino culturale” in alcune zone e quartieri degeneri in una sorta di “terreno incolto” in cui si sperimenta l’ostilità piuttosto che l’ospitalità.
3. Ritengo però di poter condividere con voi una certezza, e cioè che la logica prevalente di una città debba essere radicalmente modificata. L’immagine della “città dei servizi” tradisce una concezione del cittadino come utente, come semplice cliente, come fruitore o consumatore di servizi, e non certo come persona con una sua inalienabile dignità. Solo una città attenta ai bisogni veri della gente, a cominciare dalla povera gente, diventa ‘decente’, ossia “buona da viverci”. Una città è decente se le sue istituzioni non violano la dignità delle persone e i loro diritti, se sa allargare lo sguardo sul mondo assumendo il valore e l’etica della interdipendenza e del sentirsi parte di una famiglia più grande, per trasformare dal basso l’azione politica, coniugando in modo virtuoso il suo essere locale con la dimensione globale (‘glocalismo’). Ma è soprattutto decente se sa vivere la solidarietà come virtù civica.
Ma della vivibilità della Città devono farsi carico innanzitutto le sue Autorità civili, militari e anche religiose. Nella Carta “A. Marvelli” per Amministratori e Politici, sottoscritta l’altro ieri nella sala dell’Arengo a quattro mani dal Sindaco e dal Vescovo si legge al n. 3: L’Amministratore civico “serve senza servirsi”: «Occorre umiliare noi stessi, allontanare l’ambizione, l’orgoglio e la superbia che chiudono gli occhi e il cuore dell’uomo e gli fanno credere di servire e aiutare gli altri, mentre non favorisce egoisticamente che il proprio interesse».
Inserisco qui uno spunto che forse può essere utile, come richiamo all’atteggiamento personale, sulla linea del nostro Marvelli. Proprio nel periodo di massima crisi, è il momento di mettere in gioco tutto ciò che si ha e che si è. Invece che sentirsi rassicurati, invece che tentare di chiudere fuori quello che non va, invece che sentirsi ‘a posto’ e giustificati, perché in fondo ciascuno pensa di aver fatto tutto ciò che gli è parso possibile. Ma quando si è fatto tutto il possibile, allora è il momento di fare di più. Di non sentirsi arrivati. Di non sentirsi dalla parte del giusto, anche se ci si è comportati da giusti. Di non sentirsi stanchi, perché è il momento in cui non si può riposare, finché qualcuno è fragile ed è solo davanti alle proprie difficoltà.
Vorrei ora soffermarmi su tre questioni che papa Francesco ha insistentemente riproposto a noi vescovi nel suo intervento in apertura dell’Assemblea annuale della CEI nel maggio scorso: famiglia, lavoro, immigrati.
4. Questione ‘famiglia’. La riflessione in merito mi viene provocata dalla tragedia che si è verificata nei giorni scorsi: l’assassinio della giovane mamma, davanti ai figli piccoli, a Cattolica. Sia chiaro: rifletto sui comportamenti, non mi permetto di giudicare le coscienze.
Quando la cronaca riporta tanti fatti analoghi, il problema esiste, e forse vale la pena ricominciare proprio dai ‘fondamentali’, che forse erroneamente diamo per scontati: l’amore è dono reciproco, è la gioia di vedere l’altro, di camminare insieme, nella sorte felice e nei periodi difficili. Non ha nulla a che vedere con la pretesa di possedere l’altra persona, di volerne impedire la crescita umana e la piena realizzazione. L’amore costruisce nella pazienza e nella stima. E se, fra due persone finisce una relazione, l’amore vero resiste, non si arrende, trova comunque il coraggio per seguire i figli. E non può scomparire, non diventa violenza, sopraffazione, vendetta, distruzione e morte. I fatti di cronaca di cui siamo costretti a leggere, riportano però tanti, troppi episodi di questo tipo, e la cosa giusta è ricominciare dall’educazione. E le famiglie, le scuole, anche la Chiesa, tutti insieme dobbiamo fare la propria parte. Dobbiamo ricominciare a riflettere sull’affettività. Una storia d’amore non è una somma di brividi emotivi; va oltre i soli sentimenti. Vogliamo tornare a riflettere sulla responsabilità che una relazione comporta: per sé, per la persona con cui si condivide la strada, e per i figli che si generano. L’amore apre ad un mondo di felicità condivisa, e una relazione va costruita giorno per giorno con costanza e fantasia, con rispetto e dedizione, con indulgenza e tenacia, con grinta e anche allegria. Sembrano parole dimenticate: buone per i nostri nonni e ormai irrimediabilmente fuori moda. Ma lo sono davvero? Cosa siamo, cos’è ciascuno di noi senza gli affetti intorno, senza la storia che ogni famiglia ha scritto prima di lui, senza i ricordi, senza il calore degli abbracci più veri? Non possiamo fare finta che se succede così spesso, la violenza nelle famiglie non ci riguardi se non ci colpisce direttamente.
Nel capitolo della famiglia merita particolare attenzione anche la questione del calo delle nascite. Anche la nostra Città sembra piombata in un crudo inverno demografico. I dati destano la massima preoccupazione: nel 2013 i nati sono stati 1210, il dato più basso degli ultimi cinquanta anni; nonostante l’aumento della popolazione e l’apporto, anche in fatto di nascite, degli immigrati (18 nati sul totale di 100). Le conseguenze a livello sociale ed economico sono – e saranno – molto gravi; per non dire del risvolto morale e spirituale, rivelando una parallela crisi della famiglia e la riluttanza – o l’impossibilità per motivi sociali ed economici – dei giovani a farsi una famiglia. In molte nostre parrocchie il numero degli anziani – anche molto anziani! – è molto superiore a quello dei bambini, dei ragazzi e dei giovani; e i funerali superano di gran lunga i battesimi. Il problema investe la nostra pastorale.
5. Questione “lavoro”. Mentre la crisi continua a mordere, vorrei accennare a due segnali di speranza che ritengo significativi e promettenti. Il primo riguarda il fondo per il lavoro, lanciato l’anno scorso proprio in questa circostanza.
Va rimarcata con gratitudine l’accoglienza positiva della proposta da parte delle Istituzioni, delle associazioni di categoria, degli ordini professionali, delle parrocchie. I risultati sono stati senz’altro positivi, sia sul piano della comunicazione che della raccolta fondi (oltre 315mila euro). Noi stessi siamo rimasti positivamente sorpresi della risposta, come pure di altre iniziative analoghe. C’è stata poi una buona collaborazione tra la Caritas diocesana, le Caritas parrocchiali, il Centro per l’impiego della Provincia, il patronato Acli, il Centro di solidarietà della Compagnia delle Opere, nella segnalazione delle persone in ricerca di lavoro e nella compilazione della documentazione richiesta: una unità di intenti, che non era obiettivo trascurabile della proposta. Naturalmente si era consapevoli che non poteva essere ‘la’ risposta ad un gravissimo problema, ma appena un messaggio di speranza e di impegno. Dobbiamo fare i conti con una crisi economica che non recede, un’attività produttiva che stenta a ripartire. Ma che a tutt’oggi una trentina di famiglie possano ricevere, attraverso il loro lavoro, uno stipendio dignitoso per un periodo di almeno 6-12 mesi, più la garanzia di altri tre mesi di mini-aspi, ci fa ritenerlo un risultato realistico, ma positivo. Da aggiungere, come si era detto in partenza, che la somma raccolta è totalmente destinata al finanziamento delle assunzioni, perché le tante persone che hanno collaborato con passione e competenza l’hanno fatto a titolo assolutamente gratuito. Naturalmente ci auguriamo che l’impegno continui da parte di tutti: sia per la raccolta fondi, sia per la ricerca di posti di lavoro o della disponibilità di aziende ad assumere. Stiamo cercando di perfezionare e finanziare anche la seconda fase del progetto: la promozione di nuove professionalità, sia con incentivi economici che con un accompagnamento iniziale.
Un’altra proposta interessante e promettente appare quella del cosiddetto incubatore d’impresa.
La particolare, drammatica situazione economica che caratterizza questo tempo richiede anche a Rimini la capacità di un affronto che, accanto alla dimensione dell’assistenza e della solidarietà, ponga la massima attenzione allo sviluppo in funzione del bene comune. Penso alla prossima nascita a Rimini di uno strumento apposito per sostenere e accompagnare l’avvio di nuove aziende, in grado di canalizzare energie imprenditoriali e giovanili e di creare occupazione. E penso anche alla annunciata apertura di un portale in cui sarà possibile presentare progetti non profit e raccogliere su di essi donazioni economiche da parte dei cittadini. Questo come altri strumenti analoghi, anche se di diversa tipologia, risulta in qualche modo emblematico. C’è una Città che non vuol lasciarsi andare, non vuol cedere alla crisi, vuole reagire, mettendo in campo risorse per la crescita imprenditoriale da un lato, e per lo sviluppo di una cultura del dono dall’altro. Donare non è appena una costumanza filantropica: è affermare che io e l’altro siamo un ‘noi’, che ciò che io faccio e tu fai è un bene per tutti e per questo va guardato con simpatia e va sostenuto. Occorre amplificare questa cultura del bene, perché solo una società più consapevole e più unita potrà far fronte alle difficoltà che stiamo attraversando.
6. Questione ‘immigrati’. Mi faccio portavoce del Papa che a noi vescovi italiani nell’assemblea del maggio scorso ha raccomandato testualmente: “La scialuppa che si deve calare è l’abbraccio accogliente ai migranti: fuggono dall’intolleranza, dalla persecuzione, dalla mancanza di futuro. Nessuno volga lo sguardo altrove. La carità, che ci è testimoniata dalla generosità di tanta gente, è il nostro modo di vivere e di interpretare la vita: in forza di questo dinamismo, il Vangelo continuerà a diffondersi per attrazione”. Come stiamo messi noi qui a Rimini con questo capitolo? Leggo da un giornale locale un report sull’ennesima operazione anti-degrado svolta dai nostri carabinieri: “Un appartamento trasformato in dormitorio-formicaio con ben 17 letti stipati in ogni angolo. Situazioni di illegalità, come quella dell’affitto pagato dagli stranieri ai proprietari italiani, fino a 1.500 euro in nero, tre volte di più di quanto previsto nel contratto”. Ma è la “visione dello straniero” che deve essere sottoposta ad onesta e severa revisione critica. Leggo dal nostro settimanale ilPonte, sul quale, in un editoriale durante gli ultimi ‘mondiali’ di calcio, si osservava come molte squadre europee abbiano titolari con origini africane o comunque siano figli di immigrati. E si piazzava una domanda d’obbligo, per i milioni di tifosi felici che li celebrano: “Se gli stranieri sono utili a migliorare il livello sportivo delle squadre nazionali, chi l’ha detto che non possano giovare anche allo sviluppo sociale, economico e culturale? Sono buoni solo con i piedi?”.
Non dimentichiamo che gli immigrati residenti nella provincia di Rimini sono ormai il 10,9%, pari a 36.521 persone. Coloro che provengono da paesi islamici sono circa 3.200 persone. Nel 2013 le Caritas presenti nella nostra diocesi hanno incontrato 7.455 persone, di cui 5.300 immigrate, in maggior numero 1.500 mussulmane. Con gli immigrati si vede sempre più necessario promuovere un dialogo che favorisca l’inserimento sociale degli stessi e l’accoglienza dei cittadini. Le regole sono necessarie, ma non si può fare solo repressione. Prendendo come esempio il fenomeno dei venditori abusivi, non si può non tenere conto della disperazione di immigrati poveri che si vedono confiscare i loro prodotti, senza alcuna contropartita per vivere.
Non aspettiamo ancora per aprire un tavolo di dialogo, in particolare con gli immigrati di religione islamica.
7. Infine, una questione trasversale: il gioco d’azzardo. è la terza volta che intervengo pubblicamente su questo argomento: la prima fu l’anno scorso in questa medesima circostanza; la seconda volta, in occasione della processione cittadina del Corpus Domini, nel giugno scorso. Nel frattempo si sono fatte ancora più chiare e allarmanti le drammatiche dimensioni del fenomeno. Mi introduco in questo ultimo passaggio con l’attacco di un recentissimo articolo, ritagliato dall’ultimo numero della Civiltà Cattolica (n. 3943): “Il 2003 è l’anno che segna un prima e un dopo nel gioco d’azzardo. La sua liberalizzazione, voluta dalle principali forze politiche di maggioranza e di opposizione, ne ha permesso un consumo di massa che sembra aver trasformato il Paese in un grande casinò a cielo aperto”.
Permettetemi di ricordare i dati riguardanti il nostro Paese, il primo in Europa nel consumo del gioco d’azzardo e il terzo nel mondo. 450mila slot machine sparse nel Paese hanno generato una industria con il terzo fatturato più alto in Italia, composta da una filiera di 5.800 imprese del settore, in cui lavorano circa 120mila persone. Il fatturato annuo legale si aggira intorno agli 87miliardi di euro, con una spesa media che si avvicina ai 1.270 euro all’anno, il 10% della spesa degli italiani, compresi i neonati. Il fenomeno è esploso raggiungendo una raccolta di ben 85 miliardi all’anno, rispetto ai 24 di dieci anni fa. A fronte di questa spesa scellerata, si registrano le cifre spaventose delle vittime del gioco d’azzardo: due milioni di italiani a rischio dipendenza, 800mila malati; ben 400mila bambini tra i 7 ed i 9 anni hanno già puntato dei soldi.
Nel territorio della nostra Provincia viene investita una cifra di circa 200milioni di euro, praticamente qualcosa di simile alla somma di tutti i bilanci comunali dei 27 comuni che la costituivano. La nostra Città si colloca al 12mo posto in Italia per spesa al gioco, con una media di 1.384 euro pro capite. Giocatori patologici sul territorio provinciale si stima che siano almeno 2mila! Secondo i dati più aggiornati (al 24.1.2014) nel solo comune di Rimini si contano 927 slot-machine, 211 esercizi con apparecchi slot, 222 VLT in 18 sale collaudate.
Il 6 ottobre scorso si è tenuta una riunione, alla quale mi conforta molto sapere che tra le associazioni del territorio attive nel campo della promozione della legalità e della formazione abbiano partecipato anche l’Agesci e il Masci. In quella sede è stato presentato il marchio SlotfreE-R che dà l’opportunità ai cittadini di poter scegliere autonomamente di usufruire di una attività libera dal gioco e che dunque dà il proprio contributo, piccolo ma indispensabile, per contrastare un fenomeno di dimensioni sempre più preoccupanti. In questa sede ho già detto e ripeto che la nostra attività educativa – che si svolge nelle parrocchie, negli oratori, nelle scuole paritarie di ispirazione cattolica – può e deve fare di più, per fronteggiare e prevenire il diffondersi della piaga sociale delle ludopatie.
In conclusione, vorrei rilanciare un messaggio che ritengo pressante e particolarmente urgente. Occorre reagire alla rassegnazione. La situazione del Paese e quella particolare della nostra Città sta ingenerando un clima diffuso di rassegnazione: ci si interessa meno e con minore speranza del bene comune; ci si preoccupa piuttosto di superare le proprie difficoltà, individuali o familiari. Quasi scemata la fiducia nei partiti, delusa da promesse e ricette che non hanno prodotto l’effetto sperato, perplessa di fronte a manifestazioni di sterile populismo, scandalizzata dagli indifendibili privilegi di pochi, la maggior parte della gente è portata a chiudersi in se stessa. Occorre riattivare il dialogo, ma costruttivo, sulla cosa pubblica. Dialogo che deve essere incoraggiato, promosso e voluto dalle Autorità amministrative a tutti i livelli, ma che deve fiorire anche dalla società civile. Dal dialogo deve nascere l’unione delle forze, la passione e la speranza per uscire dal clima di rassegnazione e di individualismo, per ri-avviare la vita, per salvare le opere e le attività ritenute più qualificanti e importanti, per promuovere un nuovo sviluppo economico e civile.
La parola da riscoprire, che sembra ormai esiliata dal nostro vocabolario, è la parola generosità. Torniamo ad essere generosi, capaci di non fermarci a contare ad ogni momento se riceviamo abbastanza, se il destino è giusto con noi, se tutti riconoscono adeguatamente quanto valiamo. La generosità ribalta questo modo di vedere la vita, perché non fa conti in tasca, e dà con abbondanza, senza misurare il merito di chi riceve, e non misura con il metro più corto, ma nel valutare le persone, misura con la simpatia verso l’altro, e promuove il bene che c’è in ciascuno. La generosità ci aiuta a guardare ad ogni nuovo giorno con il sorriso, chiedendoci cosa di buono potremo fare per chi ne abbia più necessità.
Da ultimo, in questo anno ‘marvelliano’, ricordiamo che la Città non risorgerà, se non insieme.
+ Francesco Lambiasi
Rimini, 14 ottobre 2014
(*) La Cei su famiglia e matrimoni gay
«Nell’imminenza dell’appuntamento sinodale – che fin dalla vigilia, la sera del 4 ottobre, ci vedrà in preghiera con il Santo Padre – intendiamo dar voce a una realtà che ha attraversato puntualmente i lavori del Consiglio Episcopale Permanente. È la famiglia, comunione di vita che un uomo e una donna fondano sul vincolo pubblico del matrimonio, aperta all’accoglienza della vita. Per noi cristiani assume la dignità di sacramento; per essa non ci stanchiamo di investire persone ed energie.
Nel prendere la parola vogliamo farlo con l’indispensabile chiarezza e serenità, pur nella preoccupazione che circonda questo fronte decisivo dell’esperienza umana. Parliamo perché ci sta a cuore l’uomo e la società, convinti come siamo che la famiglia è un bene di ciascuno e di tutti, del Paese nel suo insieme.
Parliamo, innanzitutto, per esprimere gratitudine a quanti quotidianamente – e spesso in mezzo a sfide e difficoltà indicibili – testimoniano la libertà e la dignità che scaturiscono da quell’intima comunità di vita e d’amore che è il matrimonio.
Grazie, dunque, a ogni uomo e a ogni donna che, anche in questo tempo complesso, abbracciano con fiducia un progetto di vita coniugale e costruiscono una famiglia aperta alla generazione e, quindi, al domani.
Grazie per l’investimento educativo con cui mamme e papà sfidano, con la fionda di Davide, una cultura che produce a buon mercato banalità e omologazione, appartenenza debole e disaffezione al bene comune.
Grazie per la dignità e la pazienza ostinata con cui affrontano la grave e perdurante crisi: quanti genitori resistono in prima fila, provati dalla mancanza di lavoro, dal problema della casa, dai costi legati alle proprie scelte educative. La famiglia si conferma il presidio della tenuta non solo affettiva ed emotiva delle persone, ma anche di quella sociale ed economica.
La stima e la riconoscenza per la famiglia ci impongono di fare anche un passo successivo.
Ci portano a riaffermare con Papa Francesco che “questo primo e principale costruttore della società e di un’economia a misura d’uomo merita di essere fattivamente sostenuto”.
Non lo fa chi, al di là delle promesse, si rivela sordo sia nel promuovere interventi fiscali di sostegno alla famiglia sia nel realizzare una politica globale di armonizzazione tra le esigenze del lavoro e quelle della vita familiare, a partire dal rispetto per la domenica.
E non lo fa neppure chi non esita a dare via preferenziale a richieste come il riconoscimento delle cosiddette unioni di fatto o, addirittura, l’accesso al matrimonio per coppie formate da persone dello stesso sesso. Del resto, che aspettarsi per la famiglia se la preoccupazione principale rimane quella di abbreviare il più possibile i tempi del divorzio, enfatizzando così una concezione privatistica del matrimonio?
Quanti sono in buona fede sanno che la nostra posizione parte dalla conoscenza della complessità di questo tempo e non se ne scandalizza. Soprattutto, non chiude la porta ad alcuno: lo stile e la prassi di cordiale e totale accoglienza espressa dalle nostre parrocchie, ne è la prova più immediata.
Questa disponibilità di fondo ci spinge ad alzare la voce a tutela e promozione della famiglia e a rilanciare la disponibilità a spenderci con tutte le nostre forze a servizio del nostro popolo. Sappiamo di non essere soli in questo cammino, ma di incrociare l’intelligenza e la generosa volontà di quanti – pur partendo a volte da presupposti culturali diversi – avvertono il peso della posta in gioco. Insieme condividiamo la convinzione che alla stabilità della famiglia è legata la stessa qualità della condizione umana: per questo non ci stanchiamo di impegnarci contro ogni attentato alla vita, alla libertà educativa, al diritto all’istruzione e al lavoro, autentiche condizioni di giustizia e di pace».
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