Non è la Rimini Malatestiana che era fuori di testa, è la Rimini di oggi che è spostata

Non è la Rimini Malatestiana che era fuori di testa, è la Rimini di oggi che è spostata

La Rimini malatestiana non era «una Rimini fuori di testa», come sostiene l’autrice comica da qualche anno prestata alla divulgazione storica. Al contrario. Era una Rimini dove i poeti facevano i poeti, gli scultori gli scultori, i pittori i pittori, gli organizzatori di giostre e tornei (gli eventi di quel tempo) gli organizzatori di giostre e tornei, i giullari i giullari. Ah..., stiamo parlando di stokhazesthai. E l'hashtag potrebbe essere #’Stokhazzo. Mentre oggi a Rimini non va proprio di moda la oikeiopragia. Ed è una rovina per ogni città.

Ne sutor ultra crepidam. Il calzolaio non giudichi aldilà della scarpa.
… si impiega per dire: qualcuno non tenti di giudicare quelle cose
che sono estranee alla sua arte e alla sua professione.
Questo proverbio è nato dal nobilissimo pittore Apelle,
di cui Plinio scrive in questo modo nel trentacinquesimo libro,
capitolo decimo: «Egli stesso esponeva le opere finite
in uno studio ai passanti e, nascosto dietro lo stesso quadro,
ascoltava i difetti che venivano notati,
preferendo il popolo, giudice più diligente, a sé stesso.
Si dice che fu rimproverato da un calzolaio
perché nelle scarpe aveva fatto all’interno occhielli troppo piccoli.
Il giorno dopo quando lo stesso calzolaio
insuperbito per la correzione della precedente osservazione,
cavillava a proposito della gamba, il pittore, indignato,
si mostrò al suo critico e gli disse di non giudicare oltre la scarpa.
Questa espressione è divenuta proverbiale».

(Erasmo da Rotterdam, Adagi, 516, 1500)

Non mi sono accodato ai trascorsi festeggiamenti per il «compleanno» di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Arrivati a una certa età non si ha più molta voglia di perdere tempo e si cerca sempre più di trasformare il chronos (il tempo che scorre e miete inesorabile con la sua falce) in kairos (tempo come opportunità favorevole), ossia di tentare di cogliere le aperture che il medesimo inarrestabile tempo ci offre, gli squarci dei momenti migliori, evitando quelli più superflui e inutili.
Soprattutto in questo periodo, in cui sto cercando di ultimare il mio prossimo libro su Giorgio Gemisto Pletone, quello che raccoglierà i suoi scritti politici, vivo una vita da recluso, non troppo dissimile da quello che gli indù definiscono come il terzo stadio della vita dell’iniziato, la pratica della sobrietà e della meditazione, la condizione del vānaprasthya (quella dell’eremita nella foresta). Per stare al mio posto ho dovuto discriminare; in altri termini ho dovuto scegliere se scrivere per «Il pensiero occidentale» e «Testi a fronte» – collane per le quali Massimo Cacciari pensava che il compianto Giovanni Reale dovesse ricevere il Nobel – oppure se passare il mio tempo a cazzeggiare.
Dal momento che il mio buen retiro non è però in una foresta, ma nel Borgo San Giuliano, durante questa più che abbondante settimana molti, tanti di coloro che mi leggono su Rimini 2.0 mi hanno fermato, nelle pause all’aria aperta, per esprimere il loro giudizio decisamente negativo sui diversi momenti della serata a Sigismondo per il suo compleanno cui hanno assistito. Unica a salvarsi, in questi pareri che mi sono stati trasmessi in modo unanime, Marina Massironi, purtroppo alle prese, mi hanno detto, con un testo decisamente al di sotto della sua bravura. Il fatto che mi ha lasciato più sorpreso è che le critiche provenivano da persone dei più diversi ambiti politici, sociali e culturali, incluse alcune facenti parte delle schiere dei più accesi sostenitori del nostro sindaco. Al tempo stesso, queste amiche e amici mi hanno esortato a dire qualcosa nella rubrica «saluti da Rimini», a esprimere il mio punto di vista. Prometto che mi ci proverò a farlo in modo un po’ più compiuto e di prendere intanto le considerazioni che seguono come un piccolo ma utile esordio.
Una mia più che carissima amica, e più che amica, ha l’incorreggibile abitudine, come si dice dalle nostre parti con efficace espressione, di darmi su. Siccome la mia amica sa (perché gliel’ho raccontato) che Pletone, «il filosofo più importante del suo tempo» sepolto nella terza arca del Tempio, su un punto era alquanto categorico: «l’uomo deve naturalmente vivere come un cittadino unito agli altri uomini e non come un essere solitario», allora mi sprona per vedere se ogni tanto esco dalla mia volontaria reclusione. Lo fa segnalandomi quel che trova sul web e sui social che pensa possa interessarmi e che stima sia utile a tenermi aggiornato sui temi di mio interesse.
Nel greco antico c’è un curioso verbo, stokhazesthai, che ha un doppio significato: «prendere/avere di mira, tirare a» (per esempio con l’arco) e «fare una congettura, ipotizzare, indovinare», i cui due significati, uno più letterale e l’altro più figurato, non sono comunque disgiunti. Ne tratta Platone, nel suo dialogo intitolato Gorgia, per screditare la retorica (da intendere oggi come politica politicante), perché si pone davanti a un obiettivo e cerca di raggiungerlo empiricamente con una congettura e non per un’effettiva conoscenza delle cose. La «stocastica» (stochastikè), l’abilità a congetturare o a mirare bene, per Platone non è un sapere certo, ma una conoscenza aleatoria, provvisoria e falsa, perché mira a un risultato qualsiasi invece di mirare alla verità.
La mia amatissima amica di cui sopra mi aveva per esempio messo sotto gli occhi, nel dicembre scorso, un interessante contributo dal titolo «Il Sigismondo “moderno” che sarebbe utile celebrare» dell’ex sindaco Giuseppe Chicchi, pubblicato su una testata web concorrente. Mi ero illuso nel congetturare, per esempio, che ci sarebbe stata da parte dell’attuale amministrazione la saggezza di accogliere i suggerimenti avanzati da un ex sindaco della medesima maggioranza. Non avevo tenuto conto delle oscillazioni stocastiche del PD, delle sue variabili casuali e nascoste, dei suoi processi di ramificazione, della sua serie di spostamenti.
Sempre nel campo dello stokhazesthai, ovvero di conoscenze del tutto provvisorie e campate in aria, l’amica, cara e perfida, mi estrapola da un articolo di Lia Celi, anch’esso pubblicato sulla stessa testata web ma una decina di giorni fa, questa frase: «[Sigismondo] non perdeva una conferenza di Gemisto Pletone, un carismatico filosofo bizantino di casa fra i nobili italiani, che profetizzava l’imminente tramonto delle religioni rivelate e il ritorno al culto del Sole-Apollo (della serie: ci ha proprio preso)».

Essendo stato, ai tempi in cui ero presidente dell’O.N.U. One Nation Underground, il primo editore (con Guaraldi) di Lia Celi nel lontano 1993, mi permetto la licenza, e la pari bonarietà, di indicarle che delle quattro affermazioni fatte solo una è esatta: il carisma filosofico di Pletone.
Per parafrasare il buon e dotto Oreste Delucca, nei miei vent’anni di studi e traduzioni sia malatestiane sia pletoniche, non mi è mai accaduto di trovare un documento o una testimonianza che accerti che Sigismondo Pandolfo Malatesta abbia assistito alla serie di «discorsi sui misteri platonici», come li definirà Marsilio Ficino. Che Sigismondo Pandolfo Malatesta sia stato presente tra il pubblico di umanisti, nella serie di incontri durante i quali nel 1439 a Firenze il filosofo bizantino mise a confronto Platone e Aristotele, è solo un’ipotesi plausibile, una probabilità stocastica, condivisa da molti studiosi. Addirittura uno dei massimi studiosi della ricezione di Platone durante il Rinascimento ritiene anzi che Gemisto Pletone non abbia nemmeno fatto le conferenze di cui ci informa Ficino, ma che siano solo un’enorme favola per ammantare la semplice trasmissione a Cosimo del codice manoscritto contenente i dialoghi di Platone da parte di Gemisto, in seguito donato a Ficino perché li traducesse.
Quanto alla terza e quarta profezia, la prossima caduta di Maometto e Cristo e l’instaurazione di una teologia solare, sono dichiarazione attribuite a Pletone da uno dei suoi più acerrimi nemici, Giorgio da Trebisonda, uno che considerava Pletone «una vipera velenosa». Per fare un parallelo chiarificatore per il mio colto e inclito pubblico di lettori: vi fidereste di un racconto sull’ex ministro all’integrazione Cécile Kyenge basato sulle dichiarazioni di Roberto Calderoli che la considerava «un orango»? Dirò di più: da oltre trent’anni, uno studioso sovietico (viene da rimpiangerli, questi storici rossi!), Igor Pavlovich Medvedev, ha adeguatamente dimostrato che Pletone non può essere annoverato tra coloro che volevano reintrodurre una teologia solare, sebbene nei suoi manoscritti avesse copiato gli inni al sole orfici e di Proclo.
Ma come, «Pletone, quasi un altro Platone», come scriveva Ficino, si sarebbe dato allo stokhazesthai? Una tecnica così vituperata da quello che considerava il più divino dei filosofi e dal quale per assonanza aveva preso il suo soprannome? Un vecchio rimbambito nemmeno in grado di centrare il pitale? Ma dai!
’Sto khazzo. Chi prende la mira e sbaglia il bersaglio tre volte su quattro è, ahime, la simpatica Lia Celi (o anche lei è divenuta una del «partito degli antipatici, dell’establishment», come vuole la sincera e stimabile recente confessione di Juri Magrini?)
«Scrivere significa riscrivere» come pure affermava Flaubert, mentre limitarsi a buttar giù il primo pensiero o peggio il sentito dire, sembra perlomeno presuntuoso, oltre che improbabile nell’ambito del vero. Ciò che si esprime in questo modo è purtroppo solo un sintomo del non-sapere o, al limite, una tecnica «piaciona», la celebre retorica ateniese dei tempi di Platone, l’abitudine a dire ciò che si pensa possa piacere ai tuoi interlocutori per manipolarli e non per ciò che è giusto e vero in sé. Tutto questo coopera solo al conformismo e alla integrale perdita di qualsiasi capacità interpretativa.
La Rimini malatestiana non era «una Rimini fuori di testa», come sostiene l’autrice comica da qualche anno prestata alla divulgazione storica. Al contrario. Era una Rimini dove i poeti facevano i poeti, gli scultori gli scultori, i pittori i pittori, gli organizzatori di giostre e tornei (gli eventi di quel tempo) gli organizzatori di giostre e tornei, i giullari i giullari.

Era una Rimini trionfante e brillante, in cui non solo il suo rex, come si faceva chiamare Sigismondo, «conosceva la storia e aveva una non piccola perizia nella filosofia», ma nella quale ogni cittadino stava al suo posto e, invece che badare al proprio tornaconto, svolgeva e occupava al meglio la sua funzione, essendo tutto questo il più conveniente agli altri e alla collettività.
È probabile che fosse una Città, quella sigismondea, in cui si credeva al modello platonico, secondo il quale ognuno di noi nasce per natura con qualche talento o capacità, che attraverso un duro lavoro formativo va portato alla sua eccellenza. Sicuramente era una città nella quale i talenti e le capacità erano riconosciuti, favoriti e protetti. Era una città in cui dominava la regola aurea degli antichi, quella della oikeiopragia, in parte esemplificata nell’adagio di Erasmo riportato nell’esergo. Ho così introdotto un’altra bella parola greca che significa «stare al proprio posto», «fare il proprio compito (ta heautou prattein)». Nozione difficile? Imbevuti come siamo dalla moda dell’orientalismo, allora, per comprenderla, sarà più facile pensare che questa nozione è assolutamente identica al dharma, la conformità alla propria natura intrinseca. Nel cuore della concezione platonica, di cui allora Giorgio Gemisto Pletone era il massimo esponente, per avere una società armonica bisognava che ognuno svolgesse una sola attività, quella per cui la natura l’ha meglio dotato. Correlato alla oikeiopragia, stava il divieto dello scambiarsi di posto e dell’attendere a troppe cose (polypragmosyne) che rappresentavano la rovina della Città.
Ecco la Città ideale del Rinascimento. Quella in cui il calzolaio si limitava a fare il suo mestiere al meglio, quella dove il pittore non faceva il consigliere di corte, dove l’organizzatore di giostre e allestimenti urbani non faceva il principe e il giullare non faceva lo storico.

Fotografia d’apertura: Benozzo Gozzoli, “Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta”, particolare dell’affresco della Cappella dei magi, 1459, Palazzo Medici-Riccardi, Firenze

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