Nostalgia canaglia

Nostalgia canaglia

Come Sanremo insegna, di nostalgia si può vivere, per un po’ ci puoi anche guadagnare qualcosa, ma alla fine, comunque, “ti ritrovi con un cuore di paglia”. E le mani vuote.

Torna la primavera, tornano le rondini e, inevitabilmente, torna Sanremo con le canzoni che, piaccia o meno, hanno segnato la nostra vita, per un motivetto banale e contagioso, per il colore che irradiavano sulle giornate o magari per una parola, solo quella, che si associava a un’emozione. Prima di alzare la mano per tirarvi indietro – io no, noi no -, pensateci un momento. L’evento è invasivo e arriva nelle vite di tutti, anche di chi non accende la televisione.
Torna Sanremo e torna anche Albano, senza Romina, con un graffio in più al cuore, ma con la stessa voce, la stessa convinzione. Esattamente 30 anni fa, da quel palco, cantava della “Nostalgia canaglia / di una strada, di un amico, di un bar /di un paese che sogna e che sbaglia / ma se chiedi poi tutto ti dà”. Era il 1987: oggi possiamo pure storcere il naso ma all’epoca Albano e Romina arrivarono terzi. Chapeau. Raccontavano l’Italia che anche oggi continuiamo a venderci in giro: un paese sognatore ma generoso, furbetto ma accogliente, con una grande bellezza molto, molto nascosta.
E’ anche un po’ l’idea di Rimini, la città sospesa dei dibattiti di questi giorni, che raramente si interroga su di sé e a volte ci crede, di essere ancora quella del dopoguerra, dei pranzi al sacco in spiaggia, delle manine e delle biciclette: “Una tradizione da rispettare quasi come una religione, da Casadei a Oriani a Pantani”, scriveva su Repubblica Jenner Meletti per applaudire agli incentivi statali che, nel 2009, da noi avevano fatto vendere, in tre giorni, “1.050 biciclette contro le 1.041, ad esempio, di una città come Roma”.
Come Sanremo, anche il sentimento della città è invasivo, ti abbraccia e ti include. Difficile prendere le distanze da Rimini e dalle sue rotonde che, anche se sbilenche, le danno quell’aria un po’ così da città europea. Arduo ignorare le piste ciclabili vere, su strada, che fanno onore all’amministrazione, e quelle finte, da peracottari, che dividono i marciapiedi del lungomare in due e fanno vergogna. Impossibile chiudere gli occhi e le orecchie davanti alla Rimini degli eventi da sballo, ai ragazzini ubriachi, allo spaccio nel retro dei bar.
Vorremmo dire che il nostro problema non è Gnassi e il suo darsi da fare, che appare un tantino affannato dopo anni di ignavia dei suoi predecessori, tanto meno quel modo un po’ rozzo di trattare l’amarcord di Fellini – il circo, le giostre, i clown -, senza trattenere nulla delle domande maledette che i suoi film ponevano. Il problema sono le saracinesche dei negozi che continuano a calare, un’immagine di turismo anonimo, senza destinatari, un’identità che si replica uguale, sempre girata a guardarsi alle spalle. Insomma, come Sanremo insegna, di nostalgia si può vivere, per un po’ ci puoi anche guadagnare qualcosa, ma alla fine, comunque, “ti ritrovi con un cuore di paglia”. E le mani vuote.

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