Più utile il cemento del monumento

Più utile il cemento del monumento

«Il cemento da decenni è il leitmotiv di Rimini in negativo. Il fatto che ancor oggi Rimini veda nel cemento sempre più a ridosso dei monumenti una soluzione moderna mi fa credere che questo elemento sia ormai entrato nel DNA della città, che non è in grado di cambiare paradigma, ma semplicemente di attuare mutatis mutandis lo stesso schema». La fortuna passata e, purtroppo, anche presente del verbo "riminizzare" in un'analisi stimolante del prof. Giulio Zavatta.

Da qualche tempo mi sono imposto di non tornare sulla questione di piazza Malatesta, non ho più partecipato, seppur invitato, alla commissione cultura, non ho firmato appelli. Quando i lavori sono arrivati al punto da configurarsi come irreversibili, ho alzato bandiera bianca e cercato di fare il mio mestiere, ovvero storicizzare. Va detto infatti che Rimini non ha una sola tradizione urbanistica, e anzi chi come me (inizialmente pochi, poi di fronte all’evidente sversamento di cemento in tanti, ma era troppo tardi) si spende a difesa dei monumenti si trova per lo più nella squadra dei perdenti.
Ci sono infatti due genìe, due correnti in questa città, specie negli ultimi due secoli, ed entrambe fanno parte della nostra tradizione. In un certo senso, dunque, la nuova piazza sarà comunque una espressione culturale, ossia la concretizzazione di istanze, idee, “visioni” che caratterizzano la nostra città e che Cederna definiva, quasi profeticamente, “una distratta visione da cinemascope”.
Da una parte stanno gli storici, gli eruditi, probi di quella probitas di Giovanale, lodata da tutti, ma che muore di freddo. Luigi Tonini può considerarsi per certi aspetti il primo storico “moderno”. Egli, tra i tanti altri meriti, si batté per tutta la vita al fine di scavare l’anfiteatro e anche per il fossato della rocca. In una inedita relazione sui monumenti riminesi, che prima o poi mi deciderò a pubblicare, traspare la sua indignazione per il maltrattamento del castello “nel 1826 spogliato della cinta esterna e delle sue torricelle, riempita l’ampia fossa, tolti i ponti levatoj, e ridotto a nudo scheletro”. Per il nostro grande storico ottocentesco la perdita del fossato e dei bastioni aveva ridotto la rocca a “nudo scheletro”, intorno al quale ora è stata costruita una bara di cemento armato, temo definitiva. L’amministrazione ha recentemente intitolato il museo a Tonini, pur avendo evidentemente una visione opposta sul castello e sull’anfiteatro: quasi una beffa. Tanti ancora si spesero per il nostro patrimonio, come il misconosciuto, ma vero e proprio monument men, Alessandro Tosi, a cui dobbiamo i restauri in Sant’Agostino e la difficile nascita del museo, ma a sua volta anche una inutile battaglia sull’anfiteatro. Carlo Lucchesi e Augusto Campana salvarono quel che si poteva dalle bombe della seconda guerra mondiale e cercarono di indicare con l’esempio una via di rinascita partendo dal nostro patrimonio. Ma il museo in San Francesco non fu mai ricostruito e venne riallestito in una nuova sede solo dopo decenni. Dobbiamo infine a un intervento “esterno” di Samuel Kress la salvezza del tempio malatestiano, nonostante l’amministrazione di allora avesse chiesto di poter usare i soldi per tirare su palazzine e non per far rinascere il capolavoro del Rinascimento.
Si credeva più utile il cemento del monumento.
Già, perché abbattere antichità e costruire condomini è indiscutibilmente diventata una tradizione culturale riminese, l’altra corrente alla quale mi riferivo all’inizio, che ormai ha una durata tale da sostanziarsi come storia. La iniziò probabilmente Francesco Romagnoli, un vandalico imprenditore forlivese che nel terzo decennio del XIX secolo distrusse l’antica cattedrale di Santa Colomba e riempì il fossato del castello. Allora era considerato progresso. La proseguirono i solerti amministratori fascisti, che isolarono l’arco d’Augusto distruggendo l’antico sistema murario connesso, per la disperazione del grande archeologo Salvatore Aurigemma, che possiamo così iscrivere al gruppo dei perdenti e nel libro dei rimpianti (e dei soprintendenti che almeno un tempo osteggiavano quest’anima distruttiva della città).
Il dramma della guerra e il successivo boom economico non fecero Rimini “più bella e più grande di prima”: non fu un’opera di recupero, troppo costosa, e gli antichi palazzi diroccati (e spesso i mosaici sottostanti, “trattati” nottetempo col piccone) risultarono impedimenti alla rinascita, alle nuove vocazioni di una città che riempì sbrigativamente i vuoti del centro storico con alti edifici condominiali cementizi in luogo del tessuto urbano antico fatto di mattoni. Una Rimini che distruggeva il Kursaal mentre consentiva la costruzione di pensioni e pensioncine una attaccata all’altra, tanto da meritarsi un neologismo verbale: “riminizzare” (e con una specie verbo inglese, rimining, si è autodefinita anche la fase attuale). Il termine riminizzare ebbe la sua sedimentazione storica nel dizionario ragionato della lingua italiana del 1988 e in altri repertori coevi, spesso associato come sinonimo a Rapallizzare: “rendere poco gradevole una località con un’eccessiva cementificazione del paesaggio, riminizzare” (Dizionario Italiano Sabatini Coletti). Il cemento, come si vede, da decenni è il leitmotiv di Rimini in negativo. Per la Treccani, nel 2018 (cioè ancora ai giorni nostri), si tratta di “un modello chiassoso e deturpante”, ma questa nuova identità era evidente già nel 1957, quando Baviera in un articolo che mi ha sempre colpito osservava: “le uniche novità sono edilizie. Alberghi, pensioni, locande; tirate su in fretta e furia senza ordine e senza decoro. […] In ogni paese vi diranno con aria di trionfo che si sono raggiunti i diecimila, i centomila letti. Non si parla più di camere, neppure; ma di “letti”. Il turismo di massa si fa coi numeri. Duemila alberghi e pensioni fra Rimini e Riccione: le stamberghe rosa e bluastre spuntano da tutte le parti. Da Rimini a Riccione è tutto un unico paese turbinoso e caotico”. Se sostituiamo i “letti” di ieri con i “visitatori” previsti per la nuova Rimini fellinizzata di oggi, sempre ottimisticamente declinati nelle centinaia di migliaia (“cinquencentomila visitatori all’anno”), la vocazione sembra semplicemente aggiornata, non certo cambiata.
Il fatto che ancor oggi Rimini veda nel cemento sempre più a ridosso dei monumenti una soluzione moderna mi fa inoltre credere che questo elemento sia ormai entrato nel DNA della città, che non è in grado di cambiare paradigma, ma semplicemente di attuare mutatis mutandis lo stesso schema.

Pensavo che rivedere il teatro rinato e il fatto che sia diventato immediatamente identitario avrebbe potuto segnare un cambio di passo. E, come noto, avrei voluto in scia rivedere il castello rinascere col suo fossato. Non perché ce l’abbia con Fellini. Ma perché questo, oltre a restituirci la vera essenza della fortificazione, a reincarnare di spazi, altezze e profondità il “nudo scheletro” della rocca, sarebbe stato un vero cambiamento. Perché questo ci avrebbe riconnesso con quella tradizione di sensibilità degli storici riminesi che hanno sempre dovuto piegare la testa di fronte alla speculazione ottocentesca, alla retorica fascista, alla riminizzazione postbellica. Perché questa scelta solamente avrebbe segnato una discontinuità, un fare per la città e per i suoi cittadini, il voler essere dei nuovi Tonini e non dei nuovi Francesco Romagnoli. A chi banalmente obietta: “preferivate allora il parcheggio?” sfugge evidentemente che la posta in palio era questa forma di riscatto. Cosa cambia tra 10 cm d’asfalto o 20 di cemento armato, se non lo spessore e magari un po’ di cosmesi superficiale? La piazza di cemento è infatti, a mio avviso, quanto di più tradizionalmente riminese si potesse pensare (e la fontana nel fossato la sublimazione di tutto questo), ulteriore sedimento di una lunga e purtroppo non ancora stanca tradizione locale. Forse, anzi certo, piacerà al turista ignaro della storia del luogo, ma il prezzo per blandire l’ospite lo paghiamo ancora una volta cedendo conoscenza e identità.
In ogni caso è andata così, come al solito, e mi piace, in chiusura, richiamare le parole insieme rassegnate e orgogliose scritte nei suoi diari da Augusto Campana sulle macerie ancora fumanti di Rimini dopo la seconda guerra mondiale: “Ecco come sono fatti gli italiani; e quando i pochi che non sono fatti così avranno consumata la loro vita a insegnare con l’esempio e con la parola un po’ di serietà, le cose saranno su per giù al punto di prima: e non ostante, il dovere di noi pochi resta quello”.

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