Povero Elio: a 90 anni lo pigliano a calci nel didietro

Povero Elio: a 90 anni lo pigliano a calci nel didietro

Oggi compie gli anni il massimo poeta riminese. Un editore romano pubblica i suoi memorabili articoli sul teatro. Il Comune – che pure gli ha dato il Sigismondo d’oro – se ne frega.

Chi è davvero il cieco in questa storia?
Elio Pagliarani aveva un occhio di vetro. Accadde nell’inverno del 1929, quando aveva 18 mesi. Scivolò nel cortile arso di ghiaccio. Si sfracellò contro il badile usato dal padre per spalare la neve. Così, fin da subito, Pagliarani è il Tiresia della poesia italiana, il cieco veggente, lo stralunato impenitente. Lo sketch biografico ci è utile per l’immersione nella metafora: la cecità, infatti, appartiene al Comune di Rimini, a una generazione politica che ha ucciso la poesia.

L’uomo che ha ucciso Giovanni Pascoli
Elio Pagliarani, che piaccia o meno, è il più importante poeta ‘riminese’ di sempre. Nato alla Viserba di Rimini, un suo avo è “quel Luigi Pagliarani investito e poi prosciolto dall’accusa di essere stato esecutore materiale, nel 1867, dell’assassinio di Ruggero Pascoli, padre di Giovanni” (Andrea Cortellessa). Anche in questo caso, la tentazione metaforica è forte: come non leggere in filigrana, nei pertugi della genia, il destino di un poeta – Elio – che ha attentato al lirismo della poesia italiana? “Che sappiamo noi oggi della morte/ nostra, privata, poeta?” è l’attacco di una bellissima poesia di Pagliarani, e ultranota, Oggetti e argomenti per una disperazione.

Quando muore un poeta, in Comune si fa festa
Elio Pagliarani, nato alla Viserba di Rimini il 25 maggio 1927, oggi compirebbe 90 anni. Nonostante non crei alcun imbarazzo politico – cresciuto sul lato sinistro della cultura, omaggiato da Pasolini, ha fatto strada a Milano e a Roma – e abbia perfino ottenuto un Sigismondo d’oro – nel 1995, perché, scrive l’allora Sindaco Giuseppe Chicchi, “più di ogni altro poeta italiano del dopoguerra ha dato voce memorabile al disagio della civiltà industriale” – e perfino gli abbiano intitolato un pezzo di asfalto, nessuno si è ricordato del suo compleanno. Non un convegno, non una pubblicazione, neppure, chessò, una lettura pubblica e ispirata dal balcone dell’Arengo. Nulla. Pare che in Comune tirino un sospiro di sollievo quando muore un poeta.

Invecchiando migliora
Elio Pagliarani, che si è scoperto poeta al ‘Serpieri’ di Rimini, ha scritto opere importanti per la nostra letteratura, La ragazza Carla, soprattutto, che ha svecchiato di un tot la poesia d’Italia, mitragliando ermetici e putti e Arcadie di cristallo, poi Lezione di fisica e Fecaloro, bellissima raccolta, e La ballata di Rudi. Alla sua ‘riminesità’ mai obliata, il poeta – che non disdegnava Ezra Pound – dedica il romanzo Pro-memoria a Liarosa (Marsilio, 2011). A differenza di tanti poeti dormienti nelle antologie scolastiche, l’opera di Pagliarani migliora invecchiando. Il poema La ragazza Carla è stato ristampato lo scorso anno da il Saggiatore, sulle ceneri dell’insegnamento lirico di Pagliarani è nata una collana di poesia ‘sperimentale’ per Aragno, ‘i domani’, e un Premio Nazionale Elio Pagliarani, che ha sede a Roma e che vede nel Comitato promotore l’Assessore ‘alle arti’ Massimo Pulini e il Comune di Rimini tra i patrocinatori, il che rende ancora più surreale e suicidale la sonora dimenticanza. Dopo aver raccolto Tutte le poesie (per Garzanti) e Tutto il teatro (per Marsilio) da qualche giorno l’editore romano L’Orma ha mandato in libreria un libro di impeccabile bellezza, Il fiato dello spettatore e altri scritti sul teatro.

Zeffirelli? Una noia inenarrabile
Elio Pagliarani è stato critico teatrale per l’Avanti, per Quindici e soprattutto per Paese Sera. Il tomo, ‘monstre’ – son 420 pagine – raduna articoli scritti fra il 1966 e il 1984. Non vi terrorizzi la mole. Il libro può essere usato a partire dall’Indice dei nomi come una specie di manuale per orientarsi nel tortuoso mondo del teatro italiano. Alcuni esempi. Dario Fo: il Mistero buffo è di “straordinaria bellezza”. Carmelo Bene: Lancillotto delle “perpetue bizze” è autore di un’opera “unica, non rassomiglia cioè a nient’altro, è rinviabile solo a lui (si contano con le dita di una sola mano, se non in tutto il mondo, sicuramente in tutta Europa, quelli di cui si può dire altrettanto)”. Eduardo De Filippo: “il più grande attore italiano del secolo”. Diego Fabbri: “scivola nella maniera più logora”. Luca Ronconi: “il livello della sua ricerca è tra i più alti e nuovi e in progress del nostro teatro”. Giorgio Strehler: è “il nostro maggior regista di spettacoli brechtiani”. Franco Zeffirelli: “noia inenarrabile”. Pier Paolo Pasolini: “non ebbe, come Plauto, un’illimitata aspirazione alla gioia (casomai, un’illimitata aspirazione al dolore)”. Insomma, in questo modo il libro è una goduria al cubo. In un flash, tra
l’altro, Pagliarani, nel 1972, parla pure dell’“unico teatro di prosa e rivista – il Novelli. Rimasto chiuso una trentina d’anni, dal ’43 all’anno scorso, adesso che l’hanno riaperto è sempre pieno e ci fanno anche i soldi”. Deliziosa la chiosa: “mi dicono che nel riminese ormai è out la signora o signorina che non faccia la fila la mattina alle sei (ma la farmacista più scatenata ci manda il marito) per prenotare il biglietto per lo spettacolo di Alberto Lupo”. Anche a quell’epoca a Rimini funzionavano i divi della tivù prestati al teatro. Per lo meno, che si presenti da qualche parte – visto che ormai, a Rimini, si presentano i libri di cani&porci – questa meritoria raccolta di testi di Pagliarani. Figuriamoci. A Rimini castrano a suon di ghigliottina e di indifferenza il genio. Altrimenti fa ombra alle maestà.

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