“Rimini, non sciupare il grande ‘capitale’ di ospitalità”. Intervista a mons. Lambiasi

“Rimini, non sciupare il grande ‘capitale’ di ospitalità”. Intervista a mons. Lambiasi

Il bene e il male di Rimini. Il rapporto con la città, la missione della chiesa, l'islam, i fondamentalismi, il ruolo del vescovo nell'agorà, le speranze e le preoccupazioni sulla diocesi. Ma anche le letture preferite, la piadina, gli impegni quotidiani, e un giudizio su papa Francesco e sui due papi che l'hanno preceduto. E del suo futuro dice: "Se la Diocesi non si è ancora stancata di me, io di sicuro non mi sono stancato della Diocesi". Parla il vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi (foto Riccardo Gallini).

Mons. Lambiasi, lei è arrivato a Rimini quasi dieci anni fa, il 15 settembre 2007, dopo essere stato assistente ecclesiastico dell’Azione cattolica per circa sette anni. Anzitutto, rimpiange qualcosa dell’esperienza precedente? Qual è stata la prima cosa che ha pensato quando ha saputo che avrebbe dovuto guidare la Diocesi di Rimini? Ansia, gioia, dubbi… Ha mai pensato “sarò all’altezza”?
No, non rimpiango davvero nulla e, grazie a Dio, non soffro di attacchi di panico. Debbo dire sinceramente che nove anni fa non mi aspettavo una destinazione come quella di Rimini, ma l’ho accolta per obbedienza e con piena disponibilità. Poiché si tratta di una missione, non l’ho presa né come un peso né come un premio. L’ho accolta come un dono. E come un dono immeritato e pregiato, ho cercato in questi anni di custodirla e di coltivarla. Ora che ho ‘scollinato’ e ho imboccato la discesa, mi piacerebbe portare a termine la mia corsa. Ma non ho mai cominciato il… conto alla rovescia, e spero di non cominciarlo mai. Mi piace il motto di Lutero: «Se mi dicessero che domani arriverà la fine del mondo, non esiterei oggi a piantare un albero». Cerco di vivere ogni giorno come se fosse il primo, come fosse l’ultimo, come fosse l’unico.

Come ricorda il suo arrivo a Rimini, ci fu qualcosa che la entusiasmò nel primo impatto con la città e qualcosa che invece la preoccupò fin da subito?
Il primo approccio con la città è stato bello, festoso e improntato alla cordialità più vivace. Non immaginavo, certo, una accoglienza così calorosa. Essendo già stato vescovo per due anni in una piccola diocesi, e per oltre sei anni a servizio dell’Azione Cattolica, ero sicuro che prima o poi si sarebbero presentate urgenze da affrontare, problemi da risolvere, sfide varie da superare. Ero però anche altrettanto sicuro che non sarei stato solo, e che il Signore avrebbe fatto la sua parte, come avevamo pattuito insieme tra noi due il giorno della mia ordinazione episcopale. Il 23 maggio del 1999 avevamo creato tra me e Lui una sorta di società per azioni, nella quale Lui sarebbe stato il socio di maggioranza con il 99% di quote, mentre io ci avrei messo l’1%. Ma praticamente se lo lascio fare, il mio Socio mi aiuta anche a fare il mio piccolissimo 1%. Mi è venuto spesso da pensare a quanto ripeteva spesso quella grande campionessa di santità e di ironia agrodolce, qual era santa Teresa di Gesù. «Teresa senza la grazia di Dio non può fare nulla. Con la grazia di Dio può fare molto. Con la grazia di Dio e… un po’ di soldi può fare tutto!».

L’imprenditore di profonda fede, Vittorio Tadei, ha parlato del “Padreterno” come del suo socio di maggioranza…
Lo è anche per me, come ho già detto sopra. Ma è anche molto di più. È l’Abbà, il Babbo caro di Gesù, il Padre nostro che è nei cieli, il mio Papà tenero e misericordioso. Non un padre-padrone, ma il Babbo affidabile, perché si fida di me, e mi affida il suo Figlio Gesù. E io mi fido di Lui e mi affido a Lui.

Lei è stato nominato vescovo nel 99 da Giovanni Paolo II e vescovo di Rimini da Benedetto XVI. Conserva qualcosa di particolarmente caro e importante dal punto di vista personale dei due pontefici precedenti a papa Francesco? E come sta cambiando la chiesa con papa Francesco?
Di san Giovanni Paolo II mi colpiva l’interiorità. Ricordo in maniera nitida quando dovetti coordinare la preparazione della visita di Giovanni Paolo II a Latina, mia diocesi di origine, il 29 settembre 1991. Quel giorno il Papa arrivò con circa mezz’ora di anticipo, creando in noi, componenti del Comitato Promotore, un attimo di sconcerto e di comprensibile smarrimento. Ma papa Wojtyla non si scompose e disse con semplicità al Vescovo: «Se siamo con mezz’ora in anticipo sui tempi, fatemi pregare». Si gettò in ginocchio a porte chiuse davanti al tabernacolo della Cattedrale, sprofondando in grande preghiera. Come se tutto e tutti fossero scomparsi alla sua vista. Ecco, nei primi anni del suo pontificato, mi colpiva l’audacia, il coraggio di quel Papa. Ma poi ho capito da dove veniva la sua energia, capace di spostare le montagne: veniva dalla preghiera. Di Benedetto XVI, invece, mi ha profondamente toccato il costante, instancabile servizio alla verità, anche quando gli è toccato soffrire molto per offrire alla Chiesa e al mondo una eroica testimonianza di fede. Con i Vescovi dell’Emilia Romagna lo incontrai in Vaticano pochi giorni prima della sua rinuncia a Papa, stanco ma ancora vigile e vicino alle sorti della nostra Chiesa riminese. Papa Francesco, sulla scia dei suoi grandi maestri e predecessori, ha portato nella Chiesa un’altra ventata di… Spirito Santo. È il vento della «Chiesa in uscita», della Chiesa «ospedale da campo», della Chiesa che sbriciola muri e lancia ponti, ed è guidata da pastori «con l’odore delle pecore». È il vento gagliardo della Pentecoste, che riempì tutto il cenacolo. Il «ciclone-Bergoglio» mi fa pensare a quel proverbio cinese: «Quando soffia forte il vento del cambiamento, alcuni costruiscono muri, altri – più saggi – mulini a vento».

Com’è la giornata del vescovo? Immagino che lei debba occuparsi molto di “burocrazia”, nomine, avvicendamenti, inaugurazioni, cerimonie, questioni economiche… c’è tempo anche per coltivare la fede sua e della Chiesa riminese?
Grazie a Dio, il Signore non mi fa mai mancare il tempo per trovarmi quotidianamente a tu per tu con Lui. Ogni giorno al mattino presto, ci ritroviamo insieme al Vicario Generale della Diocesi, don Maurizio Fabbri, per dedicare un’ora alla preghiera liturgica e l’adorazione eucaristica. Alle 8,30, poi, inizia il lavoro del Vescovo fatto di incontri, di colloqui con i sacerdoti, i laici, e i collaboratori più stretti. Cerco di dedicare ampi frammenti di tempo alla cura delle omelie o ad altri interventi a carattere spirituale o pastorale. Riduco al minimo indispensabile la presenza a inaugurazioni e cerimonie varie, e sono continuamente in «pellegrinaggio» per la città e per le parrocchie. In genere chiudo la mia giornata molto tardi.

Quando è libero da impegni cosa fa? Prega, legge… Quali sono le sue letture preferite?
Non c’è dubbio: il mio hobby preferito è la lettura di testi spirituali. Alla sera, poi, leggo qualche pagina di romanzi, alcuni dei quali – come Diario di un curato di campagna di G. Bernanos o I fratelli Karamazov di Dostoevskij – li ho letti e riletti più volte. In genere mi appassionano tutti i libri di studio o di narrativa, in particolare quelli dedicati a Gesù e a San Francesco d’Assisi.

“I Vescovi, con i presbiteri, loro cooperatori, «hanno anzitutto il dovere di annunziare a tutti il Vangelo di Dio», secondo il comando del Signore. Essi sono «gli araldi della fede, che portano a Cristo nuovi discepoli, sono i dottori autentici» della fede apostolica, «rivestiti dell’autorità di Cristo”. Non le provoca un po’ di vertigine questa missione? Come si annuncia oggi il Vangelo di Dio.
La missione è facile proprio perché è… impossibile! Mi spiego: se non ci fosse lo Spirito Santo a soffiare e a guidare l’annuncio, saremmo tutti quanti come tromboni capaci solo di emettere delle sonore pernacchie. Sì, dunque, all’annuncio, purché inteso evangelicamente. Voglio dire: missione non è fare propaganda, né fare colpo. Non è fare del proselitismo: è fare mistero. È vivere in maniera tale che, se oggi scoppiasse una persecuzione, io non dovrei poter essere assolto per insufficienza di prove.

“Il messaggio di Dio è uno scandalo e il cristianesimo segno di contraddizione” ha detto di recente Benedetto XVI (Ultime conversazioni, a cura di Peter Seewald). Qual è il suo pensiero?
Il carattere scandaloso e paradossale del Vangelo non può essere addomesticato. San Paolo resta un campione insuperabile di questo annuncio, lui – apostolo delle genti – che arriva fino ad automaledirsi: «Guai a me se non annunciassi il vangelo!» (1Cor 9,16).

Ora mi piacerebbe sapere, il meno diplomaticamente possibile, che idea lei si è fatto di Rimini e dei riminesi, in positivo e magari anche in negativo.
Sarò sincero: i riminesi non finiscono mai di sorprendermi. Ne apprezzo la schiettezza, la cordialità, la voglia di partecipazione. Però non mi piace molto come fate il pane. Quello delle mie parti, non c’è niente da fare: mi piace di più. Comunque in fatto di piadina non vi batte nessuno… Al di là delle battute, vorrei vedere più accoglienza e solidarietà. Mi spiace constatare talvolta che il grande ‘capitale’ di ospitalità, accumulato in anni e anni di grande esperienza turistica, se ne vada così sciupato e disperso. Quando invece potremmo condividere la nostra esperienza di accoglienza e di solidarietà con molti dei nostri vicini…

Più o meno la stessa cosa le chiedo guardando alla chiesa di Rimini: cosa le dà speranza e cosa le crea qualche preoccupazione sia per il presente che per il futuro?
La speranza è alimentata dalle tante persone che tengono in piedi questa Chiesa con la propria disponibilità, con una vita di fede spesa nel quotidiano, spesso silenziosa e nascosta, e con una vita di amore e di servizio, reso spesso con il sorriso e belle porzioni di gioia. Senza dimenticare il fiume carsico di carità e di preghiera, che scorre limpido, anche se sotto traccia, ma che spesso affiora in superficie. Poi ancora ci sono figure belle di preti, di diaconi, di consacrate/i, di catechiste e volontari, di famiglie veramente cristiane. Certo, non mancano le preoccupazioni, ansie, e tensioni. Non si può sottacere il rischio di cedimento alla tentazione di chiusura rispetto alle tante povertà che ci affliggono, spirituali e materiali. Vanno registrati anche venti di chiusura che raggelano. Come ha detto di recente Papa Francesco: è ipocrita chi «dice di essere cristiano e poi caccia via un rifugiato, uno che cerca aiuto».

Nel novembre del 2015, all’indomani degli attentati di Francia, lei ha promosso una manifestazione pubblica insieme alla comunità valdese e ortodossa e all’imam della moschea di Rimini, per la pace e contro il terrorismo. Nel frattempo è successo molto altro sul fronte degli attentati messi a segno dal terrorismo islamico, fino al sacerdote francese – padre Jacques – barbaramente ucciso sull’altare mentre celebrava la messa. È sufficiente il dialogo? Oppure occorre anche il coraggio di chiamare le cose col loro nome, come fece Benedetto XVI a Ratisbona? Non molto tempo fa un autorevole uomo di chiesa, il cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, ha paventato la possibilità di una «conquista islamica dell’Europa» e ha aggiunto: «Dio abbia misericordia dell’Europa e dei suoi abitanti che rischiano di dimenticare l’identità cristiana». Lei come vede questa problematica?
Sono convinto che il dialogo non ha di contro altre possibilità: l’unica alternativa è il conflitto, e allora sì che c’è da avere paura. Lo suggeriva già Papa Pio XII nel suo famoso discorso radiofonico del 24 agosto 1939: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Ciò non significa fare sconti né al buonismo né al fondamentalismo. Potremmo dire: dialogare per conoscerci – conoscerci per comprenderci – comprenderci per aiutarci reciprocamente. Se l’Islam ha così tanta presa anche in Europa, è perché l’Europa cristiana ha abdicato alle proprie radici, ha voltato le spalle alla sua storia. Lo ha ribadito il cardinale Schönborn in una intervista al giornale dell’arcidiocesi di Vienna: «Gli islamici vorrebbero approfittare della nostra debolezza, ma non sono responsabili per la nostra debolezza. Siamo noi stessi europei». Ma questa situazione è anche una grande occasione: quella di riscoprire la propria fede. Il dialogo non equivale a trattativa diplomatica, a negoziato. Piuttosto è la possibilità di fare qualcosa insieme, di lavorare assieme per la pace. Ma non confondiamo l’Islam con il fondamentalismo islamico: la prima vittima del fondamentalismo islamico sono gli stessi musulmani. E non è neppure il fondamentalismo cristiano a salvare l’Europa.

In piazza Tre Martiri da due anni si tiene una iniziativa nata da cattolici e che ormai si è diffusa in molte città italiane e non solo: “Appello all’umano”. Cosa ne pensa?
Vi ho partecipato personalmente varie volte, anche da semplice fedele. Mi pare una buona iniziativa, che merita sostegno.

Cosa immagina per il suo futuro? Le piacerebbe vivere nuove esperienze, magari in altre diocesi, o piuttosto portare a termine la sua missione a Rimini?
Se la Diocesi non si è ancora stancata di me, io di sicuro non mi sono stancato della Diocesi. Sono contento del servizio che il Signore attraverso la Chiesa mi ha chiamato a svolgere qui, a Rimini.

C’è un luogo all’interno della Diocesi oppure al di fuori, nel quale ama rifugiarsi quando ha bisogno di meditare e magari riflettere su decisioni importanti: un monastero, una chiesa, un angolo nascosto…
I santuari della Diocesi sono luoghi di pace in cui sperimento luce sulle varie scelte che sono in cantiere per la vita della nostra bella Chiesa riminese. In particolare provo una forte attrazione per il santuario della Madonna di Saiano.

La sua immagine pubblica è quella di un pastore cauto e diplomatico, mai polemico, riflessivo, che raramente prende posizione in maniera diretta su temi scottanti e altrettanto raramente mette in discussione scelte “politiche” che hanno però ricadute su valori importanti per i cattolici e sulla loro presenza pubblica: di recente però lo ha fatto a proposito del gay pride. Le chiedo: è importante una presenza pubblica dei cattolici? Quali debbono essere a suo parere i connotati caratterizzanti questa presenza? Non è un po’ troppo silenziosa la chiesa di Rimini su temi come la famiglia, la difesa della vita e tutta una serie di eventi che l’amministrazione comunale organizza in prima persona e che sono all’insegna dello “sballo”? Pensa che l’amministratore pubblico Alberto Marvelli avrebbe qualcosa da ridire al riguardo?
I cattolici vantano gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini, come il diritto di testimoniare pubblicamente la propria fede. E lo stile è sempre quello indicato in un celebre passo della Prima Lettera di San Pietro, laddove si invita ad adorare il Signore, «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Tuttavia questo «sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo (1 Pt 3,15). Per quanto riguarda la presenza del Vescovo nella ‘agorà’ dell’opinione pubblica, preferisco qualche intervento del Vescovo in meno e qualche intervento dei laici cattolici in più. Mi piacerebbe che a Rimini chi cerca il Vescovo, trovi una Chiesa. Certamente in alcuni casi il Vescovo deve suggerire la ‘nota’. Solo per restare al recente discorso per San Gaudenzo, confermo e rinnovo l’invito alla Città ad aprire porte e a non sprangare cancelli. Oggi c’è bisogno di abbracciare una cultura dell’accoglienza degli immigrati, in particolare dei richiedenti asilo. Occorre un convinto ed efficace sostegno per la lotta contro la povertà, per affrontare con cuore evangelico la questione dei Rom e Sinti, per rifiutare gli affitti in nero, per rigettare la rovinosa cultura del gioco azzardo. In questa orchestra il Vescovo può dare la nota, ma è compito di tutta la Chiesa suonare lo spartito del Vangelo perché diventi una coinvolgente sinfonia di «tutti per tutti». È sempre valido il grido accorato di sant’Ignazio di Antiochia: «Ognuno di voi si impegni a fare coro!».

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