«SanPa»: perché Netflix riporta indietro le lancette della storia?

«SanPa»: perché Netflix riporta indietro le lancette della storia?

E' una bomba innescata a scoppio ritardato e telecomandata a distanza. A chi può tornare utile? Non alla verità. Di nuovo non è stato aggiunto nulla. Le catene mostrate per lunghi interminabili minuti sono l’emblema di questo tuffo nel passato che difficilmente trova giustificazione se non in una volontà di «mostrificazione» e di un inutile duello da salotto fra «luci e tenebre».

Che delusione l’interminabile docuserie SanPa. Io in quella comunità ci ho lavorato, a cavallo fra la fine degli anni 80 e i primi anni 90. Mi occupavo del Giornale di San Patrignano, diretto da Chiara Beria di Argentine. Fu un’esperienza professionale e umana entusiasmante. Quando esplose il caso Maranzano e Muccioli prima negò di avere saputo ed anzi commentò «se l’hanno fatto hanno ucciso moralmente San Patrignano», e poi ammise di avere ricevuto la “confessione”, decisi che non avrei potuto continuare. Da esterno non mi era dato conoscere quello che accadeva nel reparto comandato da Alfio Russo, ma dal momento in cui lo venni a sapere mi sembrò un’enormità. Ma cosa c’entra tutto questo con il nostro 2020?
Perché Netflix in questo finale di annus horribilis ha deciso di rispolverare fatti che risalgono al 1983 (rinvio a giudizio «processo delle catene») e al 1993 (quando l’8 marzo alle 7 del mattino la polizia preleva dalla comunità Alfio Russo e si scoperchia l’omicidio Maranzano)?
SanPa è una bomba innescata a scoppio ritardato. In apparenza non si comprendono le ragioni di questa esplosione telecomandata a distanza. Per quale ragione? A beneficio di chi e di cosa? A chi può tornare utile? Non alla verità. Non alla novità. Sarebbe sufficiente sfogliare la rassegna stampa delle disavventure giudiziarie di San Patrignano per farsi un’idea molto più completa delle vicende. Di nuovo non è stato aggiunto nulla.
Sono state riportare indietro le lancette della storia di San Patrignano. Le catene mostrate per lunghi interminabili minuti sono l’emblema di questo tuffo nel passato che difficilmente trova giustificazione se non in una volontà di «mostrificazione» e di un inutile duello da salotto fra «luci e tenebre».

Ne esce un ritratto reale di Vincenzo Muccioli? No. Solo qualche tassello che non rende ragione di quel puzzle grandissimo (molto più di quello da guinness che, pezzo dopo pezzo, permette di ricostruire le 27 meraviglie del mondo) che compone l’avventura di San Patrignano.
Chi lo ha conosciuto sa che il Vincenzo Muccioli che parla in quella lunga ricostruzione, o del quale altri raccontano, sia per lodarlo che per accusarlo, è stato un uomo complesso, impastato di miseria e nobiltà. Capace di artificio e teatralità, di dominio anche, ma allo stesso tempo di umanità e di dedizione totale verso ragazzi “scaricati” nella comunità di recupero per tossicodipendenti prima di tutti dallo Stato. Figli dei fallimenti della cultura, della politica e non da ultimo di una cattolicità in disarmo. Non bisognerebbe infatti mai dimenticare cos’era l’Italia quando i primi cominciarono a salire nel podere di Ospedaletto di Coriano alla fine degli anni 70. Il 68 aveva lasciato campo libero alla guerriglia armata, agli attentati, ai “rossi” e ai “neri” che si fronteggiavano nelle piazze, alla P38. E se questo è il contesto fanno sorridere alcune interviste inserite da Netflix, come quella all’ex sindaco di Coriano che lamenta gli “abusi edilizi” commessi da Sanpa.
Anche a voler fare la tara ai numeri ufficiali, sono davvero tanti quelli che sono tornati a vivere grazie a quell’omone, laico, che sprigionava energia da guaritore, che volle sanare le ferite dell’anima e curare i buchi lasciati sui corpi (e solo da dentro io capì dove può spingersi la devastazione dei corpi disfatti dalla droga) partendo dalla terra e non dal cielo. Non a caso non stravedeva per le comunità di impronta religiosa. Anzi. Non per niente quando San Patrignano barcollò sotto i colpi delle nuove accuse legate all’omicidio della macelleria, don Ciotti e don Benzi introdussero dei distinguo critici rispetto a Muccioli. E l’Osservatore Romano titolò: «Ferita la fiducia di tante persone. Dubbi sui metodi della comunità». Ma anche la chiesa si divise su Muccioli. Don Antonio Mazzi, della Comunità Exodus, nel 93 dichiarava con la schiettezza di cui era maestro: «La triste vicenda di Maranzano non può essere utilizzata per attacchi sciacalleschi, provenienti da chi non vede l’ora di smantellare i centri antidroga per distribuire eroina in farmacia e distruggere così migliaia di vite».
SanPa mette insieme frammenti dando l’impressione di fornirti la chiave per aprire le porte segrete di San Patrignano e svelarti “un sistema”. Già tutto svelato. Mostra dei fili annodati dietro all’arazzo ma non l’arazzo stesso.
SanPa apre il microfono troppo a lungo su poche voci. Ci furono ad esempio tanti giornalisti che seguirono le vicende di Sanpa, non si capisce perché Netflix dia la parola praticamente solo ad uno di questi.
Ma su tutto domina la sensazione di un film già visto.
Oggi sono andato a risfogliare le notizie dell’epoca.
La Stampa, 9 marzo 1993: “Ucciso a botte dai compagni a S. Patrignano”. Di spalla c’è il commento di Luigi Manconi: “Crolla il teorema della comunità modello”.
Il Giorno, 10 marzo 1993: “Ma i casi di violenza sono davvero sporadici”.
Avvenire, 17 marzo 1993: “Uno dei giovani indiziati incastra Muccioli”. Di spalla il commento di don Oreste Benzi: “L’errore di avere taciuto. Soltanto verità e carità rendono liberi”.
Il Giornale, 13 marzo 1993: “Ho taciuto per tanto tempo perché avevo fatto una promessa”.
Il Giorno, 12 marzo 1993: S. Patrignano non si tocca.
Sulla prima pagina de L’Unità (14 marzo 1993), Paolo Villaggio (con un figlio in comunità) trascina il giornale fondato da Antonio Gramsci e allora diretto da Walter Veltroni, in un titolo assolutorio: “Caro Muccioli, io continuo a stare con te”. Scriveva tra l’altro: “Ma cornacchie delle scrivanie sapete almeno cos’è una tossicodipendenza? Sapete in millesima parte cosa vuol dire per una madre convivere con una tragedia di questo tipo? Vincenzo Muccioli ha convissuto, lottato, vomitato, sofferto per quasi 18 anni con più di diecimila malati che non erano certo cresciuti alla Bocconi, ma a Poggioreale o nei ghetti. Signori Boiardi, Eccellenze ed Eminenze dello Stato tangentista che giudicate sui vostri giornali, vi invito con finto rispetto a lasciarlo lavorare in pace. C’è moltissima gente che ha ancora molto bisogno di lui, abbiate pietà di chi sta per morire e al processo che gli farete inchinatevi, semmai, rispettosi al suo passaggio”.
L’Italia si divise già. Ventisette anni fa. Ebbe già chiaro il problema. Non assolse Muccioli ritenendolo un santino da altarino. Mise sul piatto della bilancia le luci e le ombre e decise che le prime, tutto sommato, surclassassero le seconde. Anche perché le comunità di recupero per tossicodipendenti non sono mai state paradisi senza peccati. Lo denunciò don Oreste Benzi in quello stesso 1993. Parlò di «desaparecidos e abusi sessuali» come fenomeni frequenti in quelle realtà. Non aveva nel mirino San Patrignano ma altre comunità. Ai giornalisti che insistevano a chiedergli nomi e riscontri, aggiungeva: «Andate a fondo, cercate, voi siete dei giornalisti, amate la verità. Quel che ho detto l’avete sentito. Sono fatti così gravi che non credo ci voglia una particolare capacità investigativa». Ma i processi si istruirono solo per Muccioli.
Ecco perché SanPa suona come una gogna postuma. Lanciata su una persona sulla quale dovrebbe regnare il diritto all’oblio.
Non manca qualche paradosso nella narrazione di Netflix, come la scelta di dare tanto spazio ad Andrea Muccioli senza chiedergli conto del suo allontanamento dalla comunità. Ma dove SanPa non supera proprio l’esame è sulla decisione di non fare parola della San Patrignano «post Muccioli», cioè un presente che è cominciato da una decina di anni e che ha tagliato i ponti con le tenebre. Perché scagliare un peso così grande su chi guida e abita oggi San Patrignano?

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