Se cessasse il Meeting cosa lascerebbe di culturalmente duraturo alla città?

Se cessasse il Meeting cosa lascerebbe di culturalmente duraturo alla città?

Il Meeting dovrebbe guardarsi dallo stesso rischio ed errore in cui è incorso il Pio Manzù. Il quale, in forza del deficit culturale d’una città senz’anima né background effettivo, abituata a fare solo da palcoscenico alle colonizzazioni altrui, è scomparso senza lasciar tracce.

Uno dei risvolti più intriganti dell’ultimo Meeting di Cl è stata la polemica innescata da alcuni su quanto affermato dal Presidente del Meeting Emilia Smurro, cioè che il Meeting stesso non avrebbe il compito di dar voce a chi non ha voce.
Notizia mai smentita, quindi da ritenersi in qualche modo fondata.
Ribadisco subito di essere sostanzialmente d’accordo con la mia amica Emilia.
Inquantoché il Meeting nasce fin dall’inizio come opera di carattere culturale, differendo in questo da intraprese di tipo esclusivamente caritativo come, ad esempio, la Giovanni XXIII.
Il che non significa che, all’interno del Meeting, non abbiano trovato posto negli anni tutta una serie di testimonianze di tipo missionario e “valoriale” incentrate sul brand caritativo, ma insomma, l’accentuazione di giudizio è sempre stata preminente nella manifestazione riminese.
Al punto da avere, il Meeting, molti più nessi con una manifestazione totalmente laica, però di tipo culturale, come le altrettanto riminesi Giornate del Pio Manzù che non con la Giovanni XXIII.
Da questo punto di vista è vero che il Meeting non è nato “per dar voce a chi non ha voce”.
Il nodo semmai è un altro, cioè il modo tutto sommato strascicato e precario con cui il Meeting ha sviluppato, in quasi quarant’anni, questa vocazione.
Diciamolo da un punto di vista impropriamente politico: se fino ad oggi il suo (del Meeting) percorso è stato più vicino a ipotesi culturali di tipo catto-liberale (si pensi alla lunghissima fase “Berlusconian-Milanista” di Formigoni e Vittadini) e mentre quest’anno il Meeting è sembrato volersi rifare a una matrice genericamente di sinistra e post-comunista, il problema è l’occasionalità in qualche modo fieristica con cui tutto questo continua ad avvenire.
La questione infatti non è essere di destra o di sinistra (come qualche anticomunista impenitente continua a sbraitare), il problema è la pertinenza critica e autocritica con cui si verifica un’ipotesi (di destra o di sinistra che sia) per farla e farci uscire dalla trappola dell’ideologia.
Fino alla verità, cioè alla realtà totale.
Chiamala se vuoi dottrina del rapporto teoria-prassi, ma oggi non ce la si può più cavare evocando magicamente (vitalisticamente) la categoria della presenza o dell’avvenimento nella speranza di sopperire a un vuoto culturale che rischia di far appassire lo stesso carisma del fondatore di Cl.
Il quale invece non faceva che invitare i suoi discepoli a far proprie “le ragioni” del carisma, evitando una ripetizione sostanzialmente sterile delle sue parole cui far seguire pragmatismo e associazionismo, senza il collo di bottiglia, cioè l’ascesi, del processo ermeneutico.
Cosa che conduce inesorabilmente all’irrilevanza d’ogni tipo di manifestazione (già quest’anno i media sono stati assai meno attenti al Meeting) a livello sia nazionale che locale.
Sempre da questo punto di vista, e come ho già detto altrove, il Meeting dovrebbe guardarsi dallo stesso rischio ed errore in cui è incorso a Rimini il Pio Manzù.
Il quale, in forza del deficit culturale d’una città senz’anima né background effettivo, abituata a fare solo da palcoscenico alle colonizzazioni altrui, è scomparso senza lasciar tracce.
Detto in altre parole: se dall’oggi al domani il Meeting cessasse, cosa lascerebbe di culturalmente e non solo istituzionalmente duraturo (per questo bastano i carrozzoni municipali) alla città?
E’ una domanda su cui varrebbe la pena aprire un dibattito, ammesso si sia ancora interessati a dibattere su alcunché senza censure o demonizzazioni preventive.

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