«Solo una rivoluzione urbanistica può aprire la strada alla riqualificazione alberghiera»

«Solo una rivoluzione urbanistica può aprire la strada alla riqualificazione alberghiera»

Maglie larghe e incentivanti per chi vuole ristrutturare. Ma non tutti gli alberghi possono avere un futuro. L'obiettivo finale? Mantenere alta la ricettività, riqualificandola sostanzialmente, diminuendo il numero degli hotel. Intervista ad Alessandro Ravaglioli. Che lancia anche la proposta di una «bicamerale» riminese per impostare i criteri di trasformazione della fascia turistica.

Per la zona turistica di Rimini occorre osare. Va immaginata una rivoluzione urbanistica per accompagnare la trasformazione del lungomare, altrimenti destinato a diventare la nuova scenografia di una ricettività che, tranne qualche pregevole eccezione, somiglierà sempre di più ad un cimitero dei dinosauri. L’amministrazione comunale annunciando ieri il sequel del “parco del mare” (per ora solo un arredo urbano, peraltro parecchio costoso), si è detta soddisfatta dei «20 progetti dei privati».
Privati che «finalmente si stanno muovendo», sono state le parole del sindaco Gnassi. La realtà è che i privati sarebbero probabilmente pronti a fare molto di più se la pubblica amministrazione fosse stata in grado di creare le condizioni per riqualificare le strutture ricettive. Non a caso proprio oggi un albergatore come Corrado Dalla Vista avanza (sul Carlino) richieste molto dettagliate, come quella di «togliere il vincolo di destinazione alberghiera» e di computare «premi di cubatura a chi accetta di spostarne una parte a monte della ferrovia». Perché l’evidenza sotto gli occhi di tutti è la massa di hotel fuori mercato, degradanti per il contesto nel quale sorgono, destinati ad aumentare a seguito dello tsunami Covid. Una situazione del tutto ingessata, a differenza di quanto accade ad esempio a Riccione.
Uno che si muove nell’ottica della «scossa», ovvero della urgenza di porre le basi per una rivoluzione vera e propria nella Rimini turistica, è l’ingegner Alessandro Ravaglioli, a lungo in consiglio comunale, nonché progettista del prossimo intervento di riqualificazione alberghiera “Le Conchiglie” che con le 198 camere previste diventerebbe il primo hotel della riviera e il volano del Marano.

Alessandro Ravaglioli.

«Ritengo si debba partire facendo un minimo di storia per capire il punto morto nel quale la città turistica è venuta a trovarsi», spiega Ravaglioli a Rimini 2.0. «Lo stallo in cui versa la zona turistica è figlio della visione culturale della sinistra che ha governato questa città dal dopoguerra ad oggi. Paradossalmente per l’area strategicamente centrale è sempre mancata una vera e propria pianificazione urbanistica capace di identificarne e valorizzarne la vocazione. Ci si è limitati a prendere atto di quanto si è stratificato nel corso dei decenni: laddove è stato costruito un albergo non si può fare altro, laddove è stata realizzata una residenza, puoi invece demolirla e ricostruirla oppure “rimpiazzarla” con un hotel».

Neanche il Rue modifica questa impostazione?
«No. Tutti gli strumenti regolatori, dalla variante al Prg degli anni 70, fino al Rue, passando per il Prg Benevolo, non si sono spostati da questa impostazione culturale. Si è così cristallizzata una frammentazione che già da anni mostra enormi limiti, che poi si traducono anche in sperequazioni. La Riviera di Rimini discute, purtroppo a vuoto, da alcuni decenni su questo gap. Negli ultimi dieci anni sono stati fatti interventi importanti che hanno interessato il centro storico, ma la ricettività turistica è ferma agli anni 70».

Perché sperequazione?
«Chi possiede un piccolo albergo, ormai fuori mercato, non ha le stesse opportunità di chi possiede, magari a fianco, un condominio. Ecco perché gli hotel marginali sono cresciuti sempre di più fino a dar vita a sacche di degrado nel cuore turistico di Rimini. Occorrerebbe quanto meno l’onestà intellettuale di riconoscere che questa è la fotografia dell’esistente. E poi impostare un salto di qualità culturale, altrimenti non se ne uscirà».

Fin qui si può dire che in molti sottoscriverebbero la sua analisi, ma passando alle soluzioni?
«Sono dell’idea che l’abolizione del vincolo alberghiero sarebbe una scelta sbagliata perché vorrebbe dire la deregulation totale. La strada da battere è un’altra: anzitutto procedere alla mappatura delle strutture ricettive e individuare quelle che avrebbe un senso far continuare ad esistere per i prossimi 50 anni, e quelle invece che per ragioni oggettive non sono nelle condizioni di potersi sviluppare».

Rischia di essere una scelta politica impopolare…
«Ovviamente parlo di una mappatura che deve essere fatta in base a criteri molto precisi e condivisi, non certo a titolo discrezionale. Con criteri trasparenti e con il coinvolgimento di tutti gli attori del territorio: una sorta di “bicamerale”…. Che metta ad uno stesso tavolo le pubbliche amministrazioni, le categorie economiche e tutte le forze politiche».

Quali criteri?
«Certamente la prima e seconda linea degli alberghi nella quasi totalità deve rimanere a vocazione ricettiva, e ci sono le condizioni e gli spazi per rafforzare e rendere competitive queste strutture, che potrebbero necessitare di interventi di riqualificazione ma anche di tipo più radicale, compresa la demolizione e ricostruzione integrale. La sfida da cogliere è però totalmente diversa rispetto allo status quo: si deve passare da una logica di conservazione e di semplice presa d’atto, ad una di programmazione urbanistica vera. Ora sono anche le conseguenze devastanti della pandemia a chiederci di fare questo passo, perché alla ripresa non potremo farci trovare nelle condizioni nelle quali ci ha sorpresi la pandemia. E non sarà sufficiente il lungomare se gli hotel sono fermi alla Riviera degli anni 80».

Va detto però che “salvare” la prima e la seconda linea lascerà comunque fuori una importante fetta di alberghi. Quale destino per loro?
«Occorre interrogarsi con onestà e realismo. Non viviamo in un sistema di economia pianificata, come nei paesi sovietici, ma in uno che è regolato dal mercato. E cosa è accaduto dal 2008 ad oggi? Una radicale mutazione. Prima di quella data c’era l’illusione che gli alberghi avessero un valore in sé, e le banche si comportavano di conseguenza. Dal 2008, dalla crisi dei derivati e dalla conseguente batosta che ha affossato l’edilizia, per il sistema bancario gli alberghi valgono quanto fatturano. Qual è l’utile e quindi fin dove può spingersi il proprietario di un hotel per pagare la rata del mutuo connesso ad un intervento di riqualificazione? Le strutture condannate alla marginalità non riceveranno aiuti dalle banche e per loro si può immaginare, in assenza di leve urbanistiche valide, solo il degrado inesorabile».

Se il criterio è quello della redditività, potrebbero essere tanti gli alberghi che non si “salvano”.
«Ma qual è l’alternativa? A mio parere non esiste. Ma detto questo bisogna essere molto chiari su un punto: va data ogni possibile chance alle strutture ricettive che vogliono riqualificarsi. Vanno messe in campo tutte le leve più incentivanti…»

Esempio?
«Il “quoziente camera”, che bypassa il concetto di superficie utile. Se un albergo vuole ristrutturarsi o, più radicalmente, optare per la demolizione e ricostruzione, non puoi costringerlo nei parametri preesistenti “inchiodandolo” alla superficie massima edificabile. Se un imprenditore turistico ha la necessità di fare un piano in più o di allargare il sedime dell’albergo per creare dei servizi, deve essere messo nelle condizioni di poterlo fare».

Ma andranno oppure no posti dei “paletti”?
«Facciamo il caso di un albergo di 50 camere da demolire e ricostruire: l’unico vincolo da porre dovrebbe essere sul numero delle camere (50), prevedendo comunque l’incremento di una percentuale massima, perché alzare la ricettività lo reputo un obiettivo fondamentale da perseguire.
Mentre sulla superficie non devono essere posti limiti. Se ho l’esigenza di realizzare una spa su un intero piano, o un’area gioco per bambini (inutile parlare di turismo family se poi mancano le strutture), mi devono essere date in abbuono in termini di superficie. Il principio è quello di spostare il tetto edificabile da un parametro che prende in considerazione la metratura ad uno che prende in considerazione la ricettività. Trasferire le cubature, prevedere anche un cambio di destinazione d’uso in contropartita di alcuni standard di pubblica utilità per la fascia turistica…. Insomma, vanno create le condizioni più “convenienti” per innescare meccanismi virtuosi.
Le strutture che possono rimanere sul mercato devono avere la possibilità di incrementare la ricettività, quelle che non ce la fanno devono avere la possibilità di liberare i lotti. Mentre oggi è tutto bloccato».

A Rimini ci sono attualmente circa 1100 alberghi (e intorno a 500 strutture nell’extra-alberghiero): che impatto potrebbe avere su questo dato di partenza l’impostazione che lei ipotizza per la zona turistica?
«Non è difficile prevedere che ci sarebbe una diminuzione del numero di strutture alberghiere, ma non necessariamente una diminuzione di ricettività, ed è questo che dovrebbe interessare alla città, cioè mantenere alta la ricettività, riqualificandola sostanzialmente, diminuendo il numero degli alberghi.
Perseguire il risultato di mantenere più o meno inalterato il numero dei posti letto a Rimini diminuendo le strutture alberghiere, significa de-densificazione del territorio, che era uno dei principi cardini del Psc del 2011 con l’amministrazione Ravaioli. Un termine (de-densificazione) tradotto anche con “mattoni volanti”, di cui si parlò a Rimini in quegli anni, cioè la possibilità di alleggerire la zona a mare della ferrovia e di riallocare le cubature in altre parti, che erano state anche individuate prevalentemente a Rimini nord. Il problema è che in dieci anni non si è visto un solo intervento nella direzione indicata dal Psc, che dunque si è rivelato come un fallimento clamoroso perché ha individuato il punto d’arrivo ma non gli strumenti per poterlo raggiungere».

Comunque lei sostiene che mettere mano alla zona turistica sia “la” priorità per Rimini, corretto?
«Assolutamente sì, non più rinviabile, e trovo strano che l’attuale amministrazione che governa da dieci anni non abbia messo mano a questo progetto. Anche perché stiamo parlando di una politica di carattere urbanistico a costo zero».

Resta da affrontare la questione, non certo secondaria, della pecunia. Mettere mano a strutture alberghiere vecchie significa forti investimenti: chi finanzia?
«Per fare questi interventi occorrono naturalmente le risorse del privato, e sono convinto che molti albergatori siano pronti, il credito degli istituti bancari – che davanti a business plan fattibili e alla prospettiva di strutture ricettive concepite in termini più industriali non verrebbe a mancare – e la mano del governo centrale: per le strutture ricettive deve essere contemplato quello che è già stato previsto per il residenziale col bonus 110. Assurdo che il governo non ci abbia pensato subito, ma ritengo che ci si arriverà».

Quindi c’è un pezzo di strada che deve essere tracciato a Rimini e un pezzo che è compito del governo centrale…
«Sì, ma tenendo conto che se anche Roma facesse il suo pezzo da oggi al domani, a Rimini non saremmo pronti. Ma perdere il treno oggi significherebbe rimanere a piedi. Ecco perché dovremmo essere pronti con una “maglia urbanistica” flessibile per cogliere anche le eventuali opportunità che potrebbero essere date da norme fiscali che prima o poi arriveranno. Viceversa, senza l’apporto dello Stato, il tema della riqualificazione del parco alberghiero, e parlo in termini generali, su scala nazionale, rimarrà una chimera. Per Rimini una cosa è certa: non possiamo più permetterci di galleggiare. Dopo essere stati gli apripista e gli innovatori, avanti di questo passo non ci resta che di finire ai margini della offerta turistica».

Fotografia: Fotoreporter Regione Emilia Romagna (Marco Nirmal Caselli)

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