Sul PART e sulla musealizzazione di Rimini

Sul PART e sulla musealizzazione di Rimini

«Nell’epoca della crisi, ormai conclamata, dei musei “tradizionali” e delle collezioni storiche stabilizzare tutti gli spazi è una scelta in controtendenza, obiettivamente rischiosa o se si vuole coraggiosa, a maggior ragione in assenza di una conduzione o di direttori che possano dettare una linea, immaginare futuri programmi, osservare la situazione e tarare risposte e proposte, modulare eventuali e ulteriori necessità di cambiamento. Credo che questo sia il punto cruciale. Avrà successo questa stabilizzazione? Desteranno un duraturo interesse Fellini multimediale (multimediale e permanente è un altro ossimoro museale e espositivo, considerata la rapidità dell’obsolescenza tecnologica) e la contemporaneità di nicchia del PART? Riusciranno a sopravvivere intanto le “vecchie” istituzioni culturali? Riuscirà la città a sostenere economicamente questo sistema?» Stimolanti interrogativi e riflessioni di Giulio Zavatta.

L’inaugurazione del PART a Rimini costituisce insieme una novità e qualcosa di tradizionale, una sorta di ossimoro espositivo. Il museo, che occupa due dei più importanti palazzi affacciati su piazza Cavour, ha piuttosto l’aspetto di una galleria d’arte su grande scala: non è una esposizione, non è una collezione perché non si apprezza un taglio collezionistico, si percepisce pertanto un andamento, se non rapsodico, polifonico. Per un appassionato di colophon come me – i colophon sono quelle noiose pagine iniziali dei cataloghi con scritto chi ha fatto cosa, che solitamente nessuno legge – balza subito all’occhio qualcosa di insolito. Questa mostra di opere non ha un curatore. Esiste un “coordinamento curatoriale” (mi risulta un neologismo) che evidentemente ha coordinato – da prima inter pares? – dei “curatori” (visto che c’è scritto “a cura di”), ben dodici, che hanno scelto le opere. Un comitato scientifico? Non proprio (anche se si annuncia che poi verrà indicato un comitato di gestione): intanto però vi figurano i collezionisti, i donatori, alcuni artisti presenti in mostra, perfino il sindaco, non esattamente persone terze. Mi chiedo se non fosse il caso di presentare intanto l’iniziativa come mostra, nell’attesa di strutturarsi. Si tratta dunque di un organigramma particolare e viene da chiedersi se questo non sia uno sguardo sul futuro di una città che continua (e continuerà) a inaugurare musei senza direttori, così come pure i direttori mancano nelle istituzioni storiche: non un direttore al Museo della Città (che versa da tempo in condizioni che reclamano un urgente intervento, se non di ripensamento, almeno di manutenzione), non un direttore, da anni, alla Biblioteca Gambalunga. In generale, dunque, non si ha bene idea di quale sarà la governance di questo ambizioso sistema di musei che si sta approntando in cui quelli nuovi sfavillano (ma per quanto?) e quelli vecchi arrancano (per quanto ancora?). Credo che questo dovrà essere un tema importante per la città e ogni nuova inaugurazione lo rende sempre più impellente: chi manderà avanti tutti questi musei? Esiste un programma, non dico triennale, ma almeno anno per anno di quello che verrà realizzato da queste che sono pur sempre istituzioni culturali, e che dunque necessitano di una progettualità e di una programmazione? Per ora si sa che una dopo l’altra inaugureranno, in futuro si vedrà. Leo Longanesi nel dopoguerra sentenziava che l’Italia preferisce l’inaugurazione alla manutenzione e questo infondo è un assunto che resta sempre valido. Speriamo che a Rimini non sia così.

Il PART è comunque un bell’intervento su palazzi storici che vengono riconfigurati a sedi museali, portando a termine un percorso – non mi pare gli sia stato adeguatamente riconosciuto – avviato dall’ex assessore Massimo Pulini, che aveva intuito le potenzialità di quegli spazi affacciati sulla piazza creando la FAR. La sfida sarà ora capire se questo “museo” che raccoglie opere della contemporaneità premiata dal mercato avrà un vero impatto sui riminesi e sugli ospiti della nostra città. Ho qualche dubbio, sui primi in particolare, che Vanessa Beecroft possa risultare un nome famoso, ma voglio essere ottimista: se l’operazione riesce lo diventerà anche a Rimini, la sua opera è comunque molto bella.
Le opere contemporanee del PART non vengono accompagnate da apparati particolari: semplici didascalie ne sanzionano l’autore, il titolo, la tecnica e l’anno (e se non ricordo male anche il donatore); perché questi artisti siano famosi, o dati sulla loro carriera non sono forniti, da modernista continuo a non capire questo deficit informativo dei colleghi contemporaneisti, il visitatore non specialista può non sapere chi è Roberto Coda Zabetta, per citare un esempio, e credo vada facilitato. Infine, in mezzo alla sala dell’arengo campeggia il grande frontone con il Giudizio Universale proveniente da Sant’Agostino, un’opera trecentesca conservata in museo e concessa in prestito per un anno e mezzo. Non sono stato in grado, per mie evidenti lacune, di ravvederne il crossover, il “dialogo” (“dialoga con” sembra essere l’attuale mood riminese) con le opere contemporanee che lo circondano, che risultano dunque a mio avviso schiacciate dalla sua fragile maestà. Va detto che il Giudizio così non l’avevamo mai visto: con più luce (anche luce naturale, andrà ben controllato che dalle finestre non arrivino mai tagli di sole diretto), senza dissuasori, con la possibilità di avvicinarci a un palmo di naso. Sono stato colpito dalla estrema delicatezza di questo affresco strappato: potendolo meglio osservare si nota quanto sia sottilissimo lo strato di intonaco fissato su tela, una tela che mostra in più punti, tra le lacune e le crettature, la sua trama. Mi chiedo: avrà sofferto dello spostamento? Sembra quasi impossibile che non sia così, ma anche ammettendo che le crepe, le lacune, le ondulazioni della tela già sussistessero tutte, è ugualmente evidente che necessita di un accurato restauro manutentivo, che potrebbe occasionarsi all’atto della restituzione (monitorandone intanto le condizioni e come si adatterà alla nuova sede, che ha caratteristiche di clima e di luce molto differenti da quelle del museo).

Ho inizialmente detto che l’operazione del PART è anche tradizionale. Lo è perché la musealizzazione dei palazzi storici è appunto tradizionale in Italia e ha una lunga storia sostanziata dai grandi protagonisti dell’architettura del Novecento. Ma estendendo il discorso a un campo più ampio, a Rimini si sta assistendo a una fase interessante e non priva di implicazioni. Vincenzo Trione, nel suo libro del 2014 Effetto città ha notato un cambiamento epocale in corso, che può essere riassunto in una riconfigurazione mediale delle città. Le città sempre più si stanno dematerializzando, non sono più opere d’arte – o le principali opere d’arte dell’uomo, come sosteneva Argan – ma tendono a corrispondere alle installazioni. Le città che sono sempre state un tema prediletto del cinema ora sembrano aspirare a diventare cinema esse stesse, concretizzando in maniera allestitiva, scenografica queste visioni. La Rimini di Fellini (e pare del solo aspetto circense di Fellini) penso possa essere un esempio assai calzante di questa tendenza che, per inciso, è contemporanea, ma non nuova.
L’esito di questi processi è che le città stanno virando il loro appeal dalla bellezza monumentale a una bellezza più episodica, epidermica, effimera, fatta di videomapping, proiettiva. I monumenti in sé sembrano non bastare più. Il fatto che a Rimini si pensi di proiettare il Rex su una fontana davanti alla rocca malatestiana è la quintessenza, credo, del nuovo mainstream: cinema, installazione, visione pellicolare da anteporre a quella monumentale. In tutto questo però, nel caso riminese, c’è mi pare una contraddizione, un interessante punto di rottura dalle imprevedibili conseguenze. Questa Rimini così installativa e vivace degli ultimi anni ha finito o sta finendo infatti per cristallizzarsi. Quelli che erano eventi, con la loro ragion d’essere, quello che era effimero o comunque temporaneo, sta prendendo sede fissa e sta diventando stabile, o comunque nel ripetersi anno dopo anno si sta consolidando. L’evento si fa istituzione, la visione astratta prende posto nei palazzi storici. Dentro, con le opere d’arte, e fuori, con le proiezioni, occupa i monumenti e le piazze come superfici, non solo come spazi. Questa saturazione porta con sé una rinuncia: ogni superficie così occupata è sottratta proprio a quella eventualità che l’ha generata. È il provvisorio che diventa definitivo. E per questo ora c’è da domandarsi: a Rimini, dove si potrà fare una mostra? Non esiste più nessuno spazio per esposizioni temporanee di una certa portata: il castello, già sede delle cosiddette “grandi mostre”, è consacrato a Fellini; i palazzi di piazza Cavour al PART; il museo non ha strutturalmente spazi per mostre con 50, 60 o 70 opere. Avere uno spazio espositivo vuol dire darsi la possibilità di fare proposte culturali, di celebrare eventi o ricorrenze o personaggi identitari, vuol dire avere la possibilità di offrire approfondimenti o argomenti inediti, o anche iniziative ruffiane che ammiccano al gusto del momento, che portino a visitare nuovamente le collezioni permanenti, a guardare il già visto con nuovi occhi e nuove prospettive. Il prezzo della vision felliniana e contemporanea è la rinuncia allo spazio museale temporaneo. Nell’epoca della crisi, ormai conclamata, dei musei “tradizionali” e delle collezioni storiche stabilizzare tutti gli spazi è una scelta in controtendenza, obiettivamente rischiosa o se si vuole coraggiosa, a maggior ragione in assenza di una conduzione o di direttori che possano dettare una linea, immaginare futuri programmi, osservare la situazione e tarare risposte e proposte, modulare eventuali e ulteriori necessità di cambiamento. Credo che questo sia il punto cruciale. Avrà successo questa stabilizzazione? Desteranno un duraturo interesse Fellini multimediale (multimediale e permanente è un altro ossimoro museale e espositivo, considerata la rapidità dell’obsolescenza tecnologica) e la contemporaneità di nicchia del PART? Riusciranno a sopravvivere intanto le “vecchie” istituzioni culturali? Riuscirà la città a sostenere economicamente questo sistema?

Evidentemente va riconosciuto ad Andrea Gnassi e a questa amministrazione che di cultura, di monumenti, di restauri, di musei la città non si era mai così tanto interessata, ed è una rivoluzione copernicana per i distratti riminesi che nel comune stereotipo sono solo gente da spiaggia. Certo, questo è avvenuto consentendo la discussione sui lavori intrapresi, anche quelli che hanno inciso e stanno incidendo sul tessuto storico della città, solamente ex post. Si ha così l’impressione che a Rimini ci si trovi ora sul crinale tra la fase di forte cambiamento, che ha indubbiamente il grande merito di aver messo al centro come mai prima gli aspetti culturali, e la necessità di governare e ripensare questo rinnovamento ora che sta prendendo dimora, in modo che il coraggioso impulso iniziale non diventi un procedere disordinato o una stanca musealizzazione. È chiaramente un’impresa sfidante perché è noto come sia molto più difficile gestire e far vivere un museo che aprirlo. Credo che il caso riminese sarà un interessante materia di studio da osservare negli anni a venire.

Fotografie: Comune di Rimini

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