Agim Sulaj, il pittore con la valigia: dalla galleria a cielo aperto del Borgo al mondo

Agim Sulaj, il pittore con la valigia: dalla galleria a cielo aperto del Borgo al mondo

Dalla formazione ai lavori pubblicati sulla rivista simbolo della satira in Albania fino all'approdo al Meeting per l'amicizia fra i popoli. Il simbolo del viaggio è diventato il suo tratto distintivo. E' un illustratore raffinato e ormai ha messo radici a Rimini. Intervista.

Quando lo incontro, Agim sta dipingendo una “Gradisca su sofà vittoriano neo-rococò” in via Forzieri, direttamente sul muro della dimora di Cristina Stacchini, ingegnere e architetto, nata a Talamello, ma ora borghigiana innamorata dell’ex quartiere reietto di Rimini e proprietaria del B&B “Amarcord”, dedicato al noto film.

Gradisca. L’ultima creazione di Agim Sulaj nel Borgo S. Giuliano.

Credo sia opportuna una breve premessa per inquadrare meglio la storia del pittore albanese che con le sue opere, ormai da anni, contribuisce a rendere le strette e variopinte vie del Borgo San Giuliano, un oggetto di grande curiosità da parte dei turisti e tra i luoghi più visitati e apprezzati della città dei Malatesta.

Umanità felliniana. Arriva da Tirana l’artista che dipinge sui muri i personaggi che popolano i film del regista riminese.

Negli anni ’90 l’Albania conosce una sorta di ubriacatura dovuta all’improvvisa libertà ispirata dalla caduta del muro di Berlino. Dopo circa mezzo secolo di dittatura comunista, una delle più feroci del mondo, il Paese delle Aquile si trova a vivere considerevoli lacerazioni esistenziali, sociali ed economiche. Questo il contesto in cui il ricordo ancora palpitante della vicenda personale vissuta è schizzato con brevi, ma eloquenti tratti evocativi, dall’artista originario di Tirana, , oggi 62enne, riminese di adozione da circa tre decenni.

La prima immagine che Agim proietta con vivida nitidezza nel racconto, è questa:
«Sono in un’aula della scuola dove insegno, vicino al porto di Valona. Sto dipingendo una grande mela che i miei alunni dovranno copiare. Trafelato, entra il direttore dell’istituto. Ha in mano una borsa. Indicandola, dice: “Qui ho pomodori freschi del mio orto, un po’ di pane e formaggio. Oggi voglio partire per Italia con la nave che è ormeggiata in banchina. Vieni anche tu?” Gli rispondo di no. Senza esitazioni. Di abbandonare la famiglia e il mio Paese, non ci penso proprio. Però, con il passare del tempo, mi requisiscono lo studio. Ma anche colori, tele e pennelli non sono più reperibili da nessuna parte. Si potrebbe dire che smetto di esistere. Il Paese sta vivendo comprensibili fasi di sbando. È fuori controllo. Ognuno si arrangia come può».

Tu non parti, ma nemmeno la tua vita, parte in quel momento. Hai descritto un punto cruciale del tuo vissuto. Ti fa onore che non volessi staccarti dalla famiglia e dalla patria, ma ci sarà stato un prima…
«È vero. Ma ho iniziato la narrazione dalla mela che stavo rappresentando perché è un simbolo che con molteplici significati, attraversa tutte le culture. Ed è l’immagine stessa del mondo. Comunque, ora ti faccio un racconto cronologico. I miei genitori, anziché osteggiarmi, hanno costantemente incoraggiato la passione che ho per la pittura. Dopo il liceo artistico mi iscrivo all’Accademia di Belle Arti a Tirana, dove vive mia nonna. All’epoca abitavamo a Valona. Ci trasferimmo là per motivi di lavoro di mio padre. Avevo due anni».

Frequentare l’accademia significa acquisire buone basi per apprendere il linguaggio dell’arte.
«Per la mia struttura artistica, l’Accademia è stata positiva e negativa nello stesso tempo. Credo che insegnare significhi mettere lo studente nelle condizioni di affinare le tecniche che gli permetteranno di scegliere naturalmente a quali attingere per poi esprimere il proprio sentimento estetico.
Invece, gli insegnanti vogliono incanalarmi nella pittura con la gamma cromatica e le forme del realismo socialista tipica dei paesi dell’est, dove la classe operaia è dominante in ogni àmbito sociale, è intrisa di stile staliniano, raffigurata forte e sorridente e con mani di acciaio. Quella pittura non la capisco. Ma soprattutto, non la condivido. Mi obbligano a usare una tecnica rigida, inquadrata in schemi precisi che non mi appartengono, che viaggiano totalmente al di fuori della mia trama artistica, del mio sentire. Per connaturata predisposizione, quindi senza mediazioni di sorta, mi fluisce una pittura che si richiama fondamentalmente a quella dei fiamminghi. Sulla tela non adopero il pennello con la violenza, tanto in voga, che loro vorrebbero che applicassi. La mia indole è tutt’altra. Eppure, con l’arroganza tipica del potere, vogliono snaturami, tentano di opprimere o addirittura annientare la mia creatività. Ma grazie a un intervento esterno che con un astuto colpo di mano cambierà letteralmente la mia vita, non ci riusciranno».

Si profila il classico colpo di scena, come nelle migliori sceneggiature?
«Certo. Al terzo anno, causa il mancato allineamento con i dettami del regime, mi bocciano. Se non si supera l’ultima sessione, si viene immediatamente arruolati nell’esercito. Sarebbe finita così. Ma interviene il direttore di un periodico molto importante che ha notato alcuni miei lavori. Propone di tenermi per quell’anno a lavorare presso il giornale per formarmi al socialismo, sotto la propria responsabilità. L’Accademia accetta. Vengo affidato al direttore, Niko Nikolla. Felice della soluzione, entro a far parte della squadra della rivista satirica Hosteni che non a caso, traducendo in italiano, significa “Pungolo” (Il primo numero esce il 25 agosto 1945. Negli anni ’60 ha una diffusione record di 30mila copie su due milioni di abitanti; ndr). Con Hosteni si scavalca la dimensione meramente estetica per contemplare differenti chiavi d’accesso. Sta a chi guarda, interpretarle. Alcune sono universali, altre esigono cifre di lettura particolari, demandate all’arguzia individuale. Ed è su questi piani che si gioca con efficacia la provocazione e la denuncia. L’arroganza del potere, solitamente conta sulla forza bruta, ma non sempre ha risorse adatte alla decodifica. Questa è l’arma vincente. Quando il “potere” non si accorge di essere raggirato, là sta la vittoria della satira».

Non essendo più confinato tra rigide pareti, come in uno schematico “rehab” imposto con la forza, in cui perfino i sogni sono negati, le vignette di Agim altro non sono che astrazioni di un pittore che intinto il pennello in una sorta di dimensione parallela, rimesta nell’onirico. Contemporaneamente, egli esprime tuttavia concetti saldi e concreti come il granito. Forzando un po’ la mano, si potrebbe affermare che l’opera di Agim Sulaj sia la trasposizione di un ossimoro che prende vita, che si fa immagine e colore sulla tela.

Dunque, dopo esserti sottratto alle spire di quei perfidi maestri senza fantasia, che succede?
«Finalmente arriva la laurea in pittura. È il 1985. Fino al ’90 lavoro per il periodico satirico di cui illustro sempre le copertine. Anche se molto giovane, divento una figura piuttosto popolare. Le mie vignette valicano i confini nazionali, sono invitato a partecipare a un’infinità di manifestazioni. Cominciano i riconoscimenti e i premi. In verità, il direttore Nikolla è stato una persona fondamentale per la mia crescita, però anche io credo di avere dato il massimo per il giornale, per onorare il nostro lavoro e il debito morale che avevo con lui».

Arriva il momento anche per te di prendere un barcone con destinazione Italia?
«Non proprio: un aereo. Nel ’93 il fotografo di Misano Flavio Marchetti attraversa l’Adriatico per documentare la situazione albanese con immagini da esporre in seguito al Meeting per l’amicizia dei popoli di Rimini. Casualmente, vede le mie vignette satiriche. Flavio mi propone di organizzare una mostra delle mie illustrazioni da inserire in quel contesto. Un’occasione così non si può rifiutare. Gli affido una cinquantina di opere originali. Entro in Italia con tanto di “visto” che all’epoca per noi albanesi, era difficile da ottenere. Per un certo periodo abito a Misano, ospite nell’albergo di Marchetti. Incredulo e felice, non faccio che ripetermi: accidenti, sono nella terra di Leonardo e di Caravaggio, nella patria dell’Arte. In seguito, mi trasferisco definitivamente a Rimini. Mia moglie, con il nostro primogenito di 24 mesi, mi raggiunge un anno dopo. Ci stabiliamo in via Bertola. L’altro figlio che abbiamo, nasce a Rimini quindici anni fa».

Dunque, Marchetti è stato un’altra persona fondamentale alla tua vita artistica, ma non solo…
«Ho grande riconoscenza per Flavio. È stato come un fratello maggiore, mi ha sempre dato aiuto in modo disinteressato e soprattutto, ottimi consigli. Ad esempio, dietro suo suggerimento ho proposto i mei lavori ad alcuni mercanti d’arte come Forni di Bologna con cui ho lavorato, e non ad altri. Sempre grazie a Marchetti ho preso parte a certe manifestazioni e ho evitato quelle non interessanti. Comunque sia, ho sempre lavorato e credo di essermi fatto voler bene. Da anni collaboro con l’associazione del Borgo San Giuliano che con altri artisti ho l’onore di considerare la nostra galleria d’arte all’aria aperta».

Tra quadri a olio e illustrazioni varie, la produzione artistica del pittore albanese è considerevole. Nella vita reale e pittorica di Sulaj esiste peraltro un tema dominante, una traccia ricorrente. Tanto è vero che a Gallarate, durante un concorso indetto dalla Pro Loco, qualcuno lo appella come “l’uomo con la valigia” per la frequenza con cui l’accessorio, evocatore per antonomasia del viaggio, compare nelle sue opere. Del resto è sempre la valigia, a tutte le latitudini, la compagna di ogni migrante. Agim stesso lo considera l’oggetto-metafora della propria esistenza, quello più significativo e che meglio lo rappresenta. Per questo motivo, si potrebbe affermare che con il tempo la valigia abbia assunto un carattere di dignità meta-totemica.

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