"Ci sono cinque ragioni per ritenere queste mura a mare le prime della difesa romana di Ariminum". Il prof. Rimondini comincia con questo articolo un approfondito esame sulle mura romane nella parte a mare del centro storico di Rimini. Eccellenze archeologiche e storiche che interessano la cultura del mondo ma che nella nostra città non sempre godono della giusta attenzione: in via Settimia le mura sono state parzialmente scalpellate per farci stare le automobili. Fra i diversi punti toccati, anche la fossa Patara (cloaca maxima) e i muri di difesa della spiaggia a Marina e nel Borgo San Giuliano.
Ci sono nella parte a mare del centro storico di Rimini visibili e in parte invisibili ma documentati, diversi monumenti archeologici e storici di grande interesse non solo per noi Riminesi, ma poco conosciuti dal grande pubblico e forse non proprio bene inquadrati dalla tradizione storiografica locale e aulica.
Sono l’Anfiteatro, le prime mura romane, l’uscita della Fossa Patara, le mura romane imperiali del III secolo dopo Cristo, le mura dette di Federico II (1194-1250) del XIII secolo, le mura dei Malatesta del XIV e XV secolo, la torre faro del porto di Carlo Malatesta (1368- 1429), la porta Galliana di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468) in fase di scavo.
Altri monumenti non ci sono più ma li conosciamo ugualmente per i numerosi documenti visivi e d’archivio che hanno lasciato: le mura malatestiane di difesa della spiaggia e il “bastione di San Cataldo di Carlo Malatesta”.
Infine bisogna proprio spazzare via un falso storico barocco – il secondo porto romano di mare sulla spiaggia – relativo a quell’area storica e archeologica e tutti gli errori che ha prodotto.
La letteratura storiografica locale e internazionale – ripeto: bisogna sempre rendersi conto che Ariminum la nostra città romana interessa la cultura del mondo: quanto meno a Francesi, Inglesi, Svizzeri, Tedeschi e Americani che indagano e scrivono sulle nostre eccellenze archeologiche e anche storiche – la pittura riminese del Trecento, il Rinascimento malatestiano -, pur se in Gambalunga le loro opere non sempre arrivano e pochissime vengono tradotte -.
La nostra tradizione storiografica si è occupata di questi monumenti e resti monumentali in modo articolato e storicamente in gran parte condivisibile, ma non in tutto, a partire dalle opere di Luigi Tonini il più grande storico di Rimini dell’800 e in particolare dal primo volume della sua storia di Rimini: Rimini avanti il principio dell’era volgare pubblicato nel 1848.
Sulle mura romane a mare di Ariminum il Tonini esprime alcune sensate osservazioni indicando la possibilità che esistesse un recinto romano originario a mare scomparso. Osserva giustamente che l’Anfiteatro riminese deve essere stato costruito in epoca imperiale e non repubblicana – il primo anfiteatro stabile a Roma è del 4 a.C al tempo di Augusto – e quindi conclude che l’Anfiteatro non era previsto nella originaria forma urbis all’interno della città. Preferisce credere che l’Anfiteatro sorgesse al suo esterno, tra la città e la spiaggia, posto che ce ne fosse una. Però è incerto sull’esistenza delle prime mura dalla parte del mare e ritiene che al posto delle mura vi fosse piuttosto un fossato con un terrapieno o forse con uno steccato o palizzata.
Queste linee di difesa le immagina, ma senza fare affermazioni definitive, all’altezza dell’attuale via Galeria, o poco più verso mare.
Due osservazioni possibili. La prima: situare l’Anfiteatro fuori città aveva certo senso per molte ragioni, tra le quali il tener fuori dalle mura pericoli di disordini provocati da masse di forestieri o di fazioni urbane. A Roma era fuori mura l’Anfiteatro Castrense, che rimase in parte inglobato nelle mura Aureliane. Un caso simile a quello di Rimini? Ma non mancano anche esempi di anfiteatri costruiti all’interno delle mura. Lasciando fuori come caso eccezionale il Colosseo di Roma, viene subito in mente la splendida forma urbis augustea di Aosta che ospita il suo anfiteatro dentro le mura proprio nell’angolo della posizione dell’anfiteatro riminese. E anche l’anfiteatro di Pompei è a ridosso delle mura all’interno della città.
L’altra osservazione, che rivolgo anzitutto a me stesso, è relativa al pericolo per storici e archeologi di semplificare troppo e identificare una volta per tutte fenomeni storici di lungo periodo, che hanno richiesto millenni e secoli di vita, e parlare, per esempio, di un’unica e immutabile forma urbis – la regolare struttura delle strade – di Ariminum, quando nei diversi secoli romani i cambiamenti saranno stati moltissimi se pure non di tutti abbiamo tracce e riscontri documentali e monumentali. Mario Zuffa (1917-1979), bibliotecario gambalunghiano e archeologo di vaglia, aveva ben chiare queste molteplici possibilità e sulla base dei presunti resti di una torre romana in via Giordano Bruno, esaminava l’ipotesi di mura romane a mare collocate poco distanti dal Corso d’Augusto. Nel qual caso, argomentava, il Corso d’Augusto avrebbe ricalcato un possibile ‘secondo’ decumano massimo della città, dopo un primo decumano massimo declassato situato più a monte, come vien ipotizzato anche da Guido Achille Mansuelli. Notava ancora, seguendo il Tonini e anticipando un’opinione verificata negli scavi più recenti, che la primitiva cinta di Ariminum al tempo dell’erezione dell’Arco di Augusto, più di due secoli dopo la fondazione della città, doveva essere in cattivo stato: in gran parte abbandonata o anche disfatta per prelevare materiale e persino occupata da edifici.
L’Arco stesso venne concepito come una porta aperta – salvo immaginare difese davanti alla sua soglia -, non essendoci bisogno di difese nel lungo periodo di pace inaugurato da Augusto – sia pure la pace del deserto – prima che le lotte di pretendenti al titolo imperiale e soprattutto dal III secolo le prime incursioni ricorrenti di barbari provocassero nelle città stessa il ristabilimento “tumultuoso” delle mura.
1915 – 1995: RISCOPERTA DELLE PRIME MURA ROMANE A MARE DI ARIMINUM
Vittorio Belli (Rimini 1870 -1953), fu una personalità dalle molte qualifiche: affarista coloniale, medico, antiquario, scopritore degli affreschi trecenteschi di S.Agostino, fondatore di Igea Marina, responsabile del primo museo nel convento di San Francesco, socialista. Tra i molti suoi meriti ci fu la riscoperta delle mura antiche a mare di Ariminum. Nell’estate del 1915 il Belli portò a vedere il tratto di mura di cui ci stiamo occupando il primo Soprintendente ai Monumenti della Romagna Giuseppe Gerola – che operò a Ravenna dal 1909 al 1920 – il quale venne, vide e scrisse una lettera al collega responsabile dell’archeologia di Bologna:
“Giuseppe Gerola al Soprintendente agli Scavi di Bologna, 14 agosto 1915. Recatomi stamane a Rimini ho potuto esaminare il muro di cinta che dall’Anfiteatro romano, lungo il lato nord della città, si dirige verso la stazione. Per il passato le piante ed altri impedimenti non permettevano di esaminarlo e ora la mia attenzione è stata richiamata colà dal dottor [Vittorio] Belli, che con molta passione segue i ritrovamenti archeologici della sua città. Contrariamente a quanto io credeva, la cinta originale risale quasi per intero all’epoca romana – sia pure della decadenza. Nell’evo medio fu soltanto risarcita in qualche punto e quasi totalmente stuccata di nuovo. Lungo il percorso delle mura si ammirano gli avanzi di una porta a doppia ghiera di mattoni molto simile ai lavori dell’Anfiteatro, e più avanti un certo arco, sotto di cui passa un corso d’acqua; quivi è pure ricavata nel muro una nicchia che si direbbe destinata ad una statua. Ora siccome questo tratto di mura non è notificato, anzi per il passato si era esplicitamente convenuto che potesse venir demolito, e per di più davanti ad esso si stanno costruendo lavori di incanalatura in cemento ed altre opere di scavo e di sterro, crederei molto opportuno una immediata visita della Signoria Vostra affinché Ella possa prendere in materia quei provvedimenti che più riterrà convenienti.”
Le stesse mura di cui ci stiamo occupando devono avere una qualche capacità di nascondersi. In tempi recenti Stefano Sabbatini, del museo di Rimini, portò a vederle l’ispettore effettivo del momento, l’archeologo Jacopo Ortalli, che poi ha avuto una cattedra nell’Università di Ferrara, e che scrisse:
“A probabile ulteriore conferma dell’antichità del corso d’acqua [la Fossa Patara che passa sotto il Corso, l’antico decumano massimo, mediante un ponte lapideo augusteo da poco scoperto] si segnala pure l’esistenza di un’arcata ricavata nella parte basale, certo ancora di età romana, delle mura di cinta laterizie che fronteggiano viale Roma, all’altezza di via Lepidia, tali resti segnalati da Stefano Sabattini, sono tuttora parzialmente riconoscibili, poco a monte dell’anfiteatro, lungo il confine della stazione delle autocorriere, e proprio effettivamente interpretabili come originario valico di scorrimento verso mare delle acque della Patara.”
I due archeologi sono stati gli ultimi a vedere lo sbocco della cloaca maxima prima che vi costruissero le baracche.
TRE O QUATTRO STRATI DI STRUTTURE MURARIE SUL PRIMO TRATTO DI MURA A MARE, MODELLO IPOTETICO DI LETTURA
State per leggere l’esposizione di un’ipotesi di lavoro articolata di quanto si vede supportata dai dettagli, non però da scavi archeologici che moltiplicherebbero i particolari e correggerebbero non poche interpretazioni di superficie. E’ importante, credo, esaurire questo momento ed esporre quanto sembra ad un primo esame, ripeto: di superficie, in attesa dei risultati di una campagna di scavi diretta, speriamo, da bravi archeologi.
Se nel descrivere questa difesa partiamo dall’alto, abbiamo tre o quattro strati di mura nel tratto che stiamo analizzando: il più superficiale è quello malatestiano, visibile soprattutto nei rappezzi dei paramenti, ma certamente in gran parte scomparso – eventuali beccatelli, battagliere e merli -.
Segue il terzo [o secondo, nel caso non vi siano sotto fondamenta repubblicane] strato romano, che Guido Achille Mansuelli datò al III secolo dopo Cristo – al tempo dell’imperatore Aureliano che governò dal 270 al 275, autore dell’ultima cinta di mura di Roma -. Questo strato si dice caratterizzato da una struttura “tumultuosa”, costruito in gran fretta e formato da pezzi di mattoni e tegole romani che contengono altri pezzi di mattoni e anche frammenti di marmi e pietre. Non è sempre così, a volte presenta strutture regolari, lo vedremo meglio più avanti.
Sotto il tratto disordinato troviamo un muro di mattoni sesquipedali in origine abbastanza regolare. I mattoni romani imperiali formano anche una ghiera doppia di passaggio alla seconda torre a U, tamponata in antico. Per i materiali disposti con ordine – per il mattone sesquipedale o manubriato vedi sotto – e per la struttura simile a quella delle torri ai lati dell’Arco di Augusto, che sono fondate su una base primitiva in arenaria del Covignano ad opus poligonale, queste mura e torri potrebbero essere dell’epoca di Augusto, ma potrebbero essere anche della epoca della prima forma urbis della città romana, del 268 avanti Cristo. Per saperlo basterà fare un piccolo scavo fino alle fondazioni di mura e torri. Se non si trovano massi disposti ad opus poligonale, né a file regolari, che allora sarebbero di epoca sillana – Lucio Cornelio Silla (138 – 68 avanti Cristo) come vedremo -, allora bisognerà assegnarla ad epoca augustea.
Jacopo Ortalli ritiene “tardoimperiale” questo muro con “le torri quadrangolari che dovevano levarsi in buon numero lungo il tracciato”:
“L’esistenza di questi importanti apprestamenti difensivi fino ad ora era infatti nota solo in base ad alcuni indizi rilevati in due distinti punti del circuito: i ruderi anche attualmente visibili in viale Roma, a nord dell’anfiteatro, dove le mura malatestiane vengono a coincidere sovrapponendovisi, a quelle di età romana (91), e i resti di murature solo da poco osservati e segnalati all’interno della rocca malatestiana.” [nota 91] “I resti, anche recentemente segnalati da Stefano Sabbatini e da Giovanni Rimondini paiono in effetti denunciare una pertinenza ad età romana nelle parti basali e nel nucleo interno della cortina e di una torre; essi peraltro risultano di difficoltosa lettura a causa dei rimaneggiamenti di età malatestiana e dei numerosi restauri di epoca moderna che ne hanno profondamente alterato l’aspetto originario.”
Riassumendo, ci sono cinque ragioni per ritenere queste mura a mare le prime della difesa romana di Ariminum. Hanno una forma geometrica ordinata parallela perfettamente ai decumani, e uno; due: le due torri sono situate quasi sicuramente alla fine di due cardini, entrambi tratti che le incardinano nella forma urbis regolare; tre: lo spessore è quello delle mura ai lati dell’Arco di Augusto, circa tre metri.
Si faccia caso: quattro, l’arco a doppia ghiera, al termine di questo muro verso la stazione, non appartiene ad una porta urbana, come credeva il Tonini e come già si è detto, ma al passaggio di entrata alla seconda torre a U – scomparsa dopo il 1906 anno in cui è ancora visibile nel disegno del Piano Regolatore Nord-Est; cinque: i “mattoni sequipedali”, cioè mattoni nominalmente di un piede e mezzo per un piede; un piede romano, o pes è di cm. 29,65; un piede e mezzo circa 44,47; le misure reali però variano, nei nostri muri, da cm. 45 a 48 X 29 X 5 a 6, e ve ne sono altre; pigliate un metro e andate a misurarli. Tali manufatti di cotto sono anche detti “mattoni manubriati”, perché hanno un’intaccatura su una delle sue superfici vicina al lato breve che li rende maneggevoli. I mattoni sesquipedali o manubriati appaiono nella Cisalpina nel II secolo a. C, si diffondono nel I a.C., ma sono prodotti anche nei secoli seguenti. Cinque: le due torri del muro a mare possiedono la stessa struttura architettonica che si vede oggi nelle due torri ai lati dell’Arco di Augusto e nella prima torre a monte dell’Arco scavata nel 1987. O meglio, per essere precisi, non si vede al momento la struttura ad opus poligonale di base, lasciata visibile ai lati dell’Arco, che, per le ragioni già esposte, si può supporre nascosta dal terreno, ma che potrebbe anche non esserci. Lo sapremo quando si faranno gli scavi. Nelle due torri dell’Arco ci sono archi a un’unica ghiera di mattoni sesquipedali disposti a coltello sul muro che formano l’entrata alle torri – tamponati in antico -. Ma nel 1915 le torri e tali archi non erano visibili; saranno scoperti con le distruzioni di case e gli scavi per la sistemazione dell’Arco di Augusto negli anni ’30.
Queste ragioni permettono, in attesa di scavi che diano una certezza cronologica, di formulare cinque ipotesi di lavoro già in parte anticipate, molto schematiche peraltro: la prima che si tratti di mura e torri del primo impianto urbano di Ariminum, la forma urbis del 268 a. C., sempre che sotto i mattoni sesquipedali o manubriati si trovi il muro arcaico ad opus poligonale. Scavando la platea dell’Anfiteatro, in questo caso, si dovrebbero trovare i resti di tale muro.
Una seconda ipotesi considera le mura e le due torri di epoca sillana – del tempo di Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.) che distrusse e poi ricostruì Arimiunm che era politicamente una città ‘progressista’, secondo un’ipotesi di storia politica ribadita da Giancarlo Susini, era cioè seguace della parte di Mario come le altre città della via Emilia -. L’ipotesi sarà considerata certa nel caso si trovino mura di arenaria a blocchi, forme e letti regolari come quelli di porta Montanara. Una terza ipotesi considera le mura e le due torri a U di epoca augustea, sempre per le forme simili a quelle delle torri dell’Arco, che verrebbe buona solo se non si trovasse un muro di pietre, sottostante a quello di mattoni, non ad opus poligonale e non a struttura regolare.
La quarta ipotesi ritiene che le mura e le due torri siano state costruite insieme all’Anfiteatro. Una moneta di Adriano (76 – 138 d.C. imperatore dal 117) trovata in un muro dell’Anfiteatro ne attesta la cronologia di fondazione al II secolo d.C.
L’ultima ipotesi, la meno credibile, attribuisce mura e torri a un tempo posteriore all’edificazione del teatro e immediatamente precedente alla costruzione del muro disordinato-ordinato del III secolo che vedremo più sotto.
L’USCITA DELLA FOSSA PATARA
Il corso d’acqua che veniva tombinato sotto gli occhi del Gerola a partire dall’arco di uscita verso il mare e che Stefano Sabbatini e Jacopo Ortalli non poterono più vedere scoperto, era ed è la fossa Patara, la fogna o cloaca maxima della città romana, ma anche una fonte di energia idraulica, in uso fin quasi ai nostri tempi.
Che fosse romana la fossa Patara, tanto spesso nominata nelle carte medievali, per le quali è ovvio richiamare la grande ricerca di Oreste Delucca, che forniva energia a diversi mulini da grano, da polvere pirica, da seta, da gualchiere, fu chiaro per il ritrovamento nel 1980 di un piccolo ponte monumentale augusteo di pietra d’Istria perfettamente squadrata sotto il quale passavano le sue acque nella parte più bassa del Corso di Augusto, ossia del decumano massimo di Ariminum, a pochi metri dall’Arco.
Credo non ci siano problemi a intuire che la fossa Patara, che nasce sotto Verucchio, presenti numerosi misteri di cronologia e di forma. Lo studioso francese Gerard Chouquer, per citare l’ipotesi più affascinante, riteneva che il percorso semicircolare che prende in città – via Aurelio Bertola – rivelasse la presenza di un “dun” ossia di una fortezza gallica dal contorno circolare su una piccola altura.
E’ l’ipotesi di una preesistenza celtica della nostra città; altri parlano di una preesistenza etrusca o umbra, prima della deduzione coloniale romana latina del 268 avanti Cristo.
In ogni caso la fossa percorre un territorio e un terreno dove in futuro potranno trovarsi, come nei pozzi e nei butti, dei veri tesori archeologici, dall’epoca romana a quella medievale e moderna.
Prendo in considerazione qui di seguito costruzioni ossidionali dal ‘300 al ‘500 scomparse che erano aderenti alle mura antiche in questo punto, mescolando così archeologia e storia. Dovrebbero stare tra gli ultimi argomenti perché non più di epoca romana, ma bisogna cominciare a parlarne perché vennero falsificate come strutture portuali romane da Cesare Clementini, una falsificazione di cui studieremo i caratteri e la sua dannata assunzione dalla tradizione archeologica fino ai nostri giorni. Preciso che la falsificazione del “secondo porto romano” diede luogo ad un grande errore persistente: non sarebbero esistiti due porti romani, ma uno solo, idrologicamente più credibile, formato dal Marecchia che usciva in mare dove c’era la torre detta la Torraccia, presunto faro; ipotesi erronea imbastita dal “proto” veneziano Tommaso Temanza, come vedremo, poi dal Bianchi e infine da Luigi Tonini. Quest’ultimo poi si va a intricare con fantasie sulla base di questo lungo e traverso Marecchia, mettendo necessariamente la chiesa di San Nicolò, da sempre nel Borgo di Marina, dalla parte del Borgo San Giuliano, di là dal fiume rispetto a Rimini. Poi afferma che il Marecchia ha abbandonato la foce della Torraccia e ha girato intorno al convento e chiesa di San Nicolò per uscire dove usciva ai suoi tempi e nostri; finché nel 1400 e nel 1417, Carlo Malatesta l’avrebbe raddrizzato, riportando la Chiesa e il Convento di San Nicolò nel Borgo Marina, tagliando la curva del fiume e raddrizzandolo per l’uscita in mare. Tutte fottutissime e chiarissime balle generate da un patente falso.
Come vedremo meglio più sotto.
Ma vediamo le cose per ordine. Analizziamo il tutto e i dettagli delle torri e mura medievali connesse a quelle romane. Se non l’impianto portuale del secondo porto romano cos’erano di preciso? Prima le due torri, la Tenagliozza del ‘500 e la Torrazza del ‘300.
Il muro verso il Marecchia che prolunga la rientranza – a forma di trapezio rettangolo – dell’uscita della fossa Patara, mi ha mostrato Marcello Cartoceti, è medievale o forse del ‘500 e andava a formare un triangolo che aveva il vertice dentro una torre cilindrica chiamata per la forma a tenaglia “la Tenagliozza”.
Il dottor Giovanni Bianchi – Janus Plancus – e il suo amico ed ex allievo abate Battarra videro su un muro della Tenagliozza lo stemma di un papa Medici e quello dei Guicciardini di Firenze, come apprendiamo in una lettera del 12 luglio 1770 del Bianchi a Giovanni Cristofano Amaduzzi di Savignano allora a Roma:
“Ci è di ben fatto [in un disegno della Tenagliozza del Battarra] l’arme del Pontefice di casa Medici, che sarà o di Leone X [papa dal 1513 al 1521] o di Clemente Settimo [papa dal 1523 al 1534], giacché a sinistra ci è l’Arme di Francesco Guicciardini, che fu presidente sotto di que’ due Pontefici della Romagna…”
La Tenagliozza eretta tra il 1513 e il 1534, più precisamente al tempo della guerra tra Leone X e Francesco Maria della Rovere, tra il 1517 e il 1521, aveva reso più forte e tutelato l’inserimento nelle mura malatestiane verso mare di un telo di mura a pianta segmentata che terminava con una torre in mare (la Torraccia).
Queste mura chiudevano l’accesso allo spazio dalla spiaggia verso Riccione al tratto di spiaggia e terreno tra le mura di Rimini e il mare. In quello spazio ristretto nel 1469, anno dell’assedio pontificio a Rimini, Gaspare Broglia racconta che si sarebbe imbottigliata una parte delle truppe pontificie, dopo avere guadato il Marecchia e occupato o sorpassato il Borgo di Marina, con la speranza di entrare dentro Rimini e di catturare Isotta degli Atti con Roberto il Magnifico, ad un anno dalla morte di Sigismondo Pandolfo. Ma, sotto la supervisione di Roberto, le mura erano ben guardate e difese dai giovani di Rimini. Le truppe pontificie formate da cavalieri e fanti, impossibilitate a guadare di nuovo il Marecchia nel frattempo ingrossato avrebbero occupato la torre terminale o presunto faro antico. I fanti poi avrebbero forato il muro delle Bertesche di Mare e i cavalieri sarebbero passati a cavallo intorno alla torre in mare, che il Broglia chiama “Torre dell’Avesa” e che verrà chiamata la Torraccia.
Tanagliozza e muro detto dell’Ausa fino alla Torraccia – con la scritta “Muro dell’antico Porto” – si vedono nella “Pianta della città di Rimino come si trova nell’anno MDCXVI” di Alfonso Arrigoni, allegata all’opera Raccolto istorico del 1617 di Cesare Clementini che contiene il falso storico barocco del secondo porto romano o “seno di mare” o come diranno nel ‘700 “porto salso”.
LE “BERTESCHE DA MARE”, I MURI DI DIFESA DELLA SPIAGGIA A MARINA E NEL BORGO SAN GIULIANO (1352)
L’espressione “bertesche di mare” si riferisce all’addizione di passerelle o passaggi coperti, il tutto di legno, con buchi nel pavimento, per la difesa piombante, addossate all’esterno dei muri ai merli in caso di guerra. Vennero sostituite quasi dappertutto nel XIV secolo dall’apparato a sporgere o beccatelli in muratura.
Lo storico trecentesco Marco Battaglia scrive che nel 1352 i Malatesta costruirono “muros mirabiles prope Apusam e Burgum S.Iuliani”, dei muri mirabili vicino all’Ausa e il Borgo San Giuliano. Mi sembrano individuabili due teli di mura che partono dalle mura cittadine e si inoltrano in mare per chiudere la spiaggia. Vediamo prima il muro presso l’Ausa.
Abbiamo notizie delle “bertesche di mare” e del “muro de l’Avexa” [Ausa: nel senso di ‘muro presso l’Ausa’] anche nel 1382.
Questi muri dovevano difendere la spiaggia e si prolungavano in mare; ma viene da pensare che i Malatesta stessero studiando anche la realizzazione di una grande addizione del Borgo San Giuliano e del Borgo di Marina con le aree delle spiagge relative alla città romana-federiciana.
Oreste Delucca trascrive un documento straordinario del 1393, da lui trovato nella sua indagine a tappeto dei documenti notarili del nostro Archivio di Stato, nel quale appare, nella descrizione di confini, un muro che dal muro vecchio e dal nuovo del Borgo san Giuliano – se ho capito bene – s’inoltra in mare: “qui murus [novus] protendit in mare ex quinquaginta perticis et quinque pedibus ad mensuram pertice comunis Arimini […] murus vetus dicti burgi qui protendit in mare” [il qual muro [nuovo] si spinge in mare da 50 pertiche [una pertica dieci piedi, un piede riminese d’antico regime è m. 0,5429, dieci piedi per 50 fa 271,45; altri cinque piedi fanno 2, 7145] a misura della pertica del Comune di Rimini […] il muro vecchio del detto Borgo che si protende in mare]. Mi sembra che abbiamo una prova storica letteraria se non documentale, che “il muro dell’Avexa” e quello del muro vecchio e nuovo di San Giuliano – che io ipotizzo come prolungamento del lato verso Cesena delle mura del Borgo San Giuliano – fossero stati concepiti insieme.
La Torraccia crollò nel 1874; tracce del “muro dell’Avexa” sono apparse di recente durante la costruzione dell’edificio delle poste nel recinto della stazione, non rilevate, solo fotografate ed esposte nel museo come banchine del porto romano. Una delle tante occasioni mancate dagli addetti ai lavori archeologici.
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