Il quadro politico in vista del voto di ottobre e i responsabili della maionese impazzita: il protagonismo del sindaco uscente e quello del colonizzatore forlivese. Smanie personaliste dei capi a parte, è la decomposizione dei partiti il vero problema.
Osservando da fuori le trame del quadro politico nella prospettiva delle elezioni di ottobre, è difficile sottrarsi all’impressione d’una maionese impazzita che sferra qua e là i suoi colpi senza riuscire a trovare un termine ragionevole alle proprie convulsioni.
Senza entrare nei particolari d’uno storyboard che purtroppo, data la sua miseria, non interessa più nessuno, vorrei cercare di individuare i due massimi responsabili della crisi attuale.
Da una parte il sindaco uscente Andrea Gnassi, che col suo protagonismo istituzionale ha di fatto distrutto, ignorandolo e scavalcandolo a ogni pié sospinto, un partito, il suo, che era l’unico a conservare qualche tratto dei grandi partiti popolari della Prima Repubblica.
E che, col binomio Melucci-Petitti, gli si è rivoltato contro nel tentativo di ristabilire un corretto rapporto tra partito e pratica amministrativa.
Dall’altra un segretario regionale della Lega, Jacopo Morrone, a capo d’un partito che di fatto non esiste (come tutti gli altri di questa Seconda o Terza o Dodicesima Repubblica) se non nel protagonismo leaderista d’un segretario che da Forlì pretende di ingerirsi negli affari interni d’una città che non conosce nei suoi umori, nelle sue dinamiche interne, nei protagonisti della sua società civile.
Incorrendo negli stessi pateracchi dell’ultima tornata, quando, con risultati disastrosi, impose un candidato sindaco Pesarese mentre ora ne vuole uno di Bellaria.
Trattando Rimini (e questo è l’aspetto più inquietante) come una colonia di Forlì: ma non eravamo diventati anche noi provincia di pari grado, nel frattempo?
Tutto questo, a parte le smanie personaliste dei protagonisti, non fa che riflettere la decomposizione del quadro politico nazionale, iniziato almeno quarant’anni fa con la famosa intervista a Enrico Berlinguer da parte di Scalfari su Repubblica.
Quando l’allora segretario del Pci si inventò la famigerata “questione morale” per uscire dal vicolo cieco dell’Andreottiano governo delle larghe intese cui aveva aderito e contro cui s’era rivoltato non solo il partito, ma la sua stessa base elettorale.
Eppure fu proprio quella trovata, che evidentemente aveva colto gli umori del tempo, a decretare la fine della politica nel nostro paese.
Sostituita, la politica, da un moralismo onnipervasivo che aprì la strada al giustizialismo Dipietresco, poi a un personalismo prima Berlusconiano, poi Renziano, poi Salviniano, poi Lettiano ecc. che di fatto ha distrutto i partiti.
Sostituiti da un coacervo di bande armate preoccupate solo del potere (parola di Zingaretti a proposito del Pd, non mia) che hanno definitivamente seppellito ogni forma di azione politica dialetticamente e correttamente intesa.
Come dire insomma che, se siamo ridotti così, la responsabilità non certo è dei politici locali.
La loro colpa essendo semmai non avere inteso il senso d’un trend che, distruggendo i partiti e il loro carico ideologico, ha distrutto anche la società civile.
Attraverso oscenità legislative e/o gestionali quali, per esempio, il Ddl Tarzan a livello nazionale e il Pacco del Mare a livello locale.
Incapaci come sono, questi pseudopolitici, di opporsi alle spinte eversive della mentalità dominante: da una parte per l’oggettiva mancanza di partito e quindi di politica, dall’altra per ignoranza crassa o ingordigia d’immagine che li condanna inesorabilmente al fallimento.
Purtroppo non solo loro, ma nostro in quanto società nel tempo sempre meno “civile”.
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