Castel Sismondo non appartiene a Fellini

Castel Sismondo non appartiene a Fellini

Credenziali, falsari e storia di Rimini

L'iperattivo "sindacone", ma sprovveduto in fatti di storia e archeologia, ha destinato il Castello di Brunelleschi, degno di diventare patrimonio dell'Umanità, a Museo felliniano. Ma il Castello appartiene ai signori e alle donne della casa Malatesta e agli uomini di cultura del loro mondo: Neri, Giuliano, Giovanni, Pietro, Francesco, Giovanni Baronzio e gli altri pittori riminesi del Trecento, a Dante, Giotto, a Petrarca, al Boccaccio, a Filippo Brunelleschi, a Leon Battista Alberti, a Piero della Francesca. Certamente anche Fellini è importante per Rimini, ma dedicargli tre o due musei è eccessivo.

Sento il bisogno di presentarmi, di giustificare e dare un fondamento accettabile al mio interesse per l’archeologia e la storia di Rimini. E’ giusto chiedere a chi parla o scrive di archeologia e storia le sue credenziali di competenza.
Viviamo in tempi nei quali chiunque può mettersi al pc e esternare quello che pensa di archeologia e storia, sproloquiando“di sua certa scienza” come un sovrano d’antico regime, con risultati tra il ridicolo e il disastro, se viene preso sul serio. Purtroppo sono proprio le falsificazioni maliziose oppure risultato dell’ignoranza presuntuosa e arrogante ad avere una certa fortuna presso la gente non colta. “Vulgus vult decipi, ergo decipiamus”; la Zenta vuole essere ingannata, allora la si inganni. No, non si deve ingannare nessuno, anche se si verifica spesso che la gente ama essere ciarlatanizzata. E’ un difetto congenito della democrazia, per questo va detta sempre la verità, anche su se stessi, anche a costo di essere emarginati.

Che ha a che fare poi con l’archeologia e la storia di Rimini uno che non è nato a Rimini? L’ho sentito dire da qualche riminese DOC. Prima di venire a Rimini circa mezzo secolo fa ero ispettore onorario della Soprintendenza Archeologica di Bologna, la spia del governo per due comuni, Medicina e Castel Guelfo, dell’area di confine tra bolognese, ferrarese e Romagna. Avevo avuto giovanissimo la tessera di ispettore onorario da Guido Achille Mansuelli, e ho scavato a Trebbo Sei Vie, un villaggio dell’età del bronzo, con Giovanna Bermond Montanari, e a Claterna, una città romana scomparsa, con Maria Bollini, tutti venerati maestri. Non per questo facevo parte degli addetti ufficiali ai lavori. A Rimini ho insegnato, dopo un anno alle Magistrali, storia e filosofia nel Liceo Alessandro Serpieri, materie del triennio, fino al pensionamento, ma all’inizio della mia carriera dovevo insegnare anche storia romana in seconda.
Mi sono così messo a studiare archeologia e storia di Rimini per dovere professionale, per interessare i miei studenti alle antichità romane della città e agli splendori, a volte tenebrosi, dei Malatesta. Argomenti culturali entrambi di prim’ordine, raccontati da una splendida tradizione storiografica secolare. Mi occupavo e mi occupo, per mie scelte, prima di venire a Rimini anche di storia dell’architettura e di altre materie come la storia ecclesiastica e quella erotica, con qualche pubblicazione che può servire a saggiare la mia preparazione.

Mi lamento. Spesso mi sono mancati la piena solidarietà e il consenso degli addetti ai lavori soprattutto di archeologia, sopratutto locali, credo per colpa del mio metodo di revisione delle metodologie di ricerca, di critica relativa al patrimonio delle conoscenze da tutti accettate della tradizione archeologica e storica cittadina. Il patrimonio tradizionale storiografico riminese è stato costruito nei secoli ed è certo esemplare e persino di approccio emozionante, ma non è sempre verificato e accettabile. E spesso ho segnalato presunte verità da scartare o sulle quali sospendere il giudizio. Ad accertare di continuo la validità di quanto è stato trasmesso sono stato abituato dai miei ottimi insegnanti dell’Università di Bologna dai quali ho avuto la fortuna di essere culturalmente educato. Ezio Raimondi ha affinato e premiato la mie capacità di analisi filologica non solo letteraria. Ho fatto una strampalata ricerca fuori moda sulla storiografia bizantina – affascinato da Ravenna bizantina – per la tesi di laurea in estetica con Luciano Anceschi. La medievista Gina Fasoli mi ha convinto con ottimi argomenti di non accettare a priori la validità dei racconti storici di Dante Alighieri. Analizzando un documento del 1288, in base al quale era formulabile l’ipotesi che Francesca da Polenta e Paolo Malatesta sarebbero morti a distanza di anni uno dall’altra, ho spiegato in diversi articoli, uno pubblicato dagli “Studi Romagnoli”, le mie ragioni e ho concluso di “sospendere il giudizio” di verità storica sulla tragica fine dantesca dei due cognati. Nessuno mi ha risposto.
L’argomento però verrà buono, per me o per altri, nel 2021, ottavo imminente centenario della morte di Dante. I Dantisti che ho incontrato, che sono insieme raffinatissimi critici letterari e boccaloni, non hanno nemmeno voluto discutere la possibilità che Dante non conoscesse la verità storica del suo tempo. Eppure non la conosceva, in preda a umori politici filoghibellini, visto che fa dire al capostipite dei re di Francia Capetingi, a Ugo Capeto “ figliuol fui d’un beccaio di Parigi” – Purgatorio XXII, 43, 49 ss. –

Due rimproveri ho sempre fatto e faccio agli addetti ai lavori riminesi di tipo tradizionale. Il primo è che accettano acriticamente tutto quello che la tradizione riminese ci ha trasmesso senza verificare ogni volta la verità fattuale e la tenuta critica dell’argomento che viene affrontato. Certamente si tratta, ripeto, di una grande tradizione storiografica a partire dal secolo XVII; è un piacere leggere i libri di Cesare Clementini e di Raffaele Adimari, per gustarsi, ma senza farsi incantare, anche le favole che gli storiografi ‘barocchi’ di Rimini hanno mescolato alle verità fattuali che pure hanno trasmesse. Nel secolo XVIII abbiamo a Rimini una bella famiglia di archeologi e storici “illuministi” che lavorano sodo sui documenti e che non inventano niente o quasi; e alcuni, come vedremo, cominciano a denunciare le invenzioni barocche prive di fondamento. Nel secolo XIX Luigi Tonini, che illustra e giustifica sempre o quasi sempre le sue affermazioni, che ha cominciato gli scavi ‘scientifici’ a Rimini e ha aumentato di molto il sapere archeologico e storico, spesso denuncia le falsità barocche del Clementini, ma ahimè, come vedremo, si lascia affascinare da una delle sue invenzioni più strampalate e più evidenti, quella che attribuisce ad Ariminum non uno ma ben due porti in epoca romana. Il presunto secondo porto romano “Seno di Mare” orlato da un muro che sarebbe partito dalla chiesa di San Gerolamo fino a nord dell’area dell’attuale piazza Clementini, è un falso patente e mal costruito che nessun archeologo tradizionale locale e bolognese osa mettere in dubbio e nemmeno discutere.
Purtroppo tranquillamente questo falso è passato nella storiografia aulica bolognese del ‘900 e internazionale – la storia romana è uno dei quattro temi culturali di Rimini che interessano il mondo -.

L’altro rimprovero è relativo all’ovvio che è lì da sempre visibile, in monumenti e documenti sotto gli occhi di tutti, che in sé sarebbero senza problemi, ma che sono la prova di esistenza di scotomi, aree invisibili, e che non vengono presi in considerazione per chissà quali ragioni dalle generazioni di archeologi e storici tradizionalisti che si passano questi testimoni incompleti. Per fare un esempio non solo locale, sembra ovvio che studiare la centuriazione – il reticolo regolare o la quadrettatura dei campi romani – facendo caso solo al tracciato delle strade è limitante. Perché le strade non sono autosufficienti per sopravvivere solo in virtù del tracciato regolare; un anno piovoso fa sparire una strada di terra battuta e anche di ghiaia, mentre quello che ha mantenuto per quasi duemila anni la rete centuriale, il grandioso ordinamento del suolo in diverse province della nostra regione, è il sistema idraulico degli scoli, dalla baulatura dei campi, ai fossi di diversa grandezza che scaricano le acque nei fiumi e nei torrenti. Tale sistema è attualmente tenuto d’occhio e revisionato fin nei dettagli da istituti amministrativi specifici, consorzi idraulici che hanno la pianta di tutti i corsi d’acqua e che dovrebbero estendere la loro esperienza all’archeologia e alla storia.
Certamente anche in antico questo grandioso sistema idraulico doveva essere riparato e ricomposto annualmente – i fossi si riempiono di terra ogni anno –; si indovina in questa prospettiva una continuità di presenza umana bimillenaria continua, che è un fenomeno storico non ancora studiato così importante da mozzare il fiato. Purtroppo sono troppo vecchio per occuparmene in modo ‘scientifico’. Me ne sono accorto troppo tardi. Ci vuole tempo e capacità di muoversi che stanno finendo. E Leon Battista Alberti, per fare un altro esempio di epoca rinascimentale, conosce Sigismondo Pandolfo Malatesta vent’anni prima del suo intervento nel Tempio. Ci sono le prove mai considerate, fenomeni, informazioni e cronologie sotto gli occhi di tutti, e li si può notare semplicemente spostando l’occhio e riflettendo sui dati conosciuti da sempre.

Come un ‘eretico’ per questi motivi disturbo molti studiosi e vengo poco citato in loco quando mi capita di pubblicare qualcosa di archeologico o storico in contrasto con la tradizione, quasi sempre su riviste e pubblicazioni non specifiche dell’argomento. Quasi sempre in loco mi accoglie il silenzio astioso.
Magari citano i miei lavori i giovani archeologi non di qui, come è successo per l’ ipotesi del ponte romano ‘sotto’ quello, piuttosto bello, malatestiano di San Vito, ipotesi confermata da uno scavo archeologico, che potrebbe cambiare anche la grande storia romana di Giulio Cesare e dell’universalmente noto passaggio del Rubicone. Marcello Dibella ha segnalato questa mia scoperta a Luciano Canfora che mi ha espresso via mail il suo interesse. Capisco peraltro di essere ripetitivo e noioso, anzi offensivo come quando denuncio i numerosi falsi esibiti con superficiale e ripetuta persistenza nel museo di Rimini, dalla falsa stele etrusca, della quale ho pubblicato su “Ariminum” il progetto di fabbricazione del simpatico falsario Vittorio Belli, al sigillo del “duca Orso” attribuito al X secolo, nel quale è rappresentato l’Arco di Augusto con i merli ghibellini del XIII-XIV secolo, e ad altri. Sul Belli torneremo in questa stessa occasione, ma non lo si creda un farabutto, era rimasto un ‘socialista’ anche sotto il fascio e regalò a Rimini la falsa stele del guerriero etrusco, tenuta in caldo da un decennio, l’anno stesso nel quale il Duce regalò la copia della statua di Giulio Cesare.(1)

Denunciare i falsi e gli errori degli addetti ai lavori e degli amministratori che li finanziano e cercare di far capire l’importanza di tesori archeologici, storici e artistici veri trascurati o abbandonati al degrado è diventata una mia missione, forse ha dell’ossessivo, ne convengo, e certamente non mi fa diventare popolare e ricco. E convengo anche che avrei potuto dedicare le mie energie a qualcosa di più umanamente valido e di meno frustrante.
Inoltre, come tutti, ovviamente anch’io commetto degli errori, che ho sempre scelto di non nascondere quando me ne sono accorto. Quasi certamente ce ne saranno anche in questo testo.

Per questo la rubrica Forma Urbis di Rimini 2.0 è aperta al contributo sensato di chiunque – soprattutto geologi, storici, archeologi – voglia confutare o aggiungere o proporre nuove prospettive critiche o di ricerca sugli argomenti presentati. Mi rivolgo in particolare al ricercatore assoluto Oreste Delucca, all’archeologo Marcello Cartoceti e alla geologa Veronica Guerra.

E tuttavia la mia attività di denuncia e valorizzazione non è sempre stata solitaria e frustrante.
Qualcosa ho, anzi abbiamo ottenuto, se penso alla ricostruzione polettiana del teatro di recente terminata, lavorando duro per vent’anni con Attilio Giovagnoli e Roberto Mancini, con i numerosi soci ormai nel mondo dei più come Nedo Zavoli, Maria Luisa Zennari, Tale o Giorgio Benzi, fratello di Luigi o Titta, e con i mille riminesi che abbracciarono con noi il teatro e infine sopportando l’attiva antipatia e le ritorsioni delle amministrazioni socialiste e comuniste.
All’apertura del teatro nel 2018, non siamo stati ringraziati dalle autorità comunali protempore che hanno dimenticato la storia recente della ricostruzione. Ma questo non è poi rilevante.
L’importante è che nel rinnovato teatro riprenda alla grande la tradizione lirica riminese con i suoi non pochi famosi cantanti e musicisti. La nostra lingua risuona nei teatri dell’opera di tutto il mondo e con essa la nostra cultura e persino la nostra economia ne risentono.

Per dare ancora spazio alle denunce e frustrazioni, ho avuto un bel da protestare per il modellino del ponte di Augusto e Tiberio da anni esibito nel museo che mostra il ponte com’è oggi, con l’acqua che arriva all’inizio degli archi, senza far vedere com’era all’epoca romana, cioè con le pile a forma di barche e le due rampe dalla parte della città e del borgo di cui si hanno anche, ovviamente, testimonianze documentali e prove di scavo. Lo stesso errore banale e ossessivo, da sprovveduti persi, si è ripetuto nei cubi che il sindaco delle notti rosa ha messo qua e là in città con la ricostruzione pittorica della Rimini romana, tra altri errori si vede il ponte com’è oggi. Il ponte oggi appare sprofondato di 4 metri circa dal livello romano originario a causa di un fenomeno macroscopico di “subsidenza” di cui dovremo occuparci in seguito. Ma non basta, gli sprovveduti ‘storici’ e ‘archeologi’, gli ‘esperti’ del “sindacone” hanno riproposto il ponte ‘antico’ com’è oggi anche nella postazione di accoglimento turistico dentro la ex-chiesa di S. Maria ad Nives, costata, si dice, quanto un appartamento in centro.

Vedremo, e sarà oggetto di un mio prossimo intervento, che questo errore si collega con altri tre presupposti sbagliati: l’ignoranza del fenomeno di subsidenza in una vasta area della città e del borgo, la mancata indagine archeologica negli anni ’70 sul porto romano vero di Ariminum che cominciava al ponte di Augusto e Tiberio, e la falsa credenza già ricordata che il porto antico fosse quello che il Clementini chiama il secondo porto romano di Ariminum, in un “ Seno di Mare” nella spiaggia tra Marecchia e Ausa. Ho cercato di smontare queste che io credo trasmissioni di falsità archeologiche e storiche ormai per quattro secoli di storiografia. Potrei sbagliarmi? Certo che sì. Ma allora bisogna darsi da fare e ‘dimostrare’ vincendo la reazione del silenzio astioso.

Desidero attribuire un affettuoso attestato di riconoscenza, nell’anno in cui finisce la sua venticinquennale geniale e operosa redazione di “Ariminum”, al caro amico Manlio Masini che mi aprì le porte della sua rivista dopo che venni spinto fuori da “Chiamamicittà” per un articolo in difesa dei gay risultato sgradito a un comitato cattolico, fondato da un collega del liceo che mi teneva d’occhio per contenere le mie banali esternazioni anticlericali, e ai cattocomunisti della redazione che pure l’avevano pubblicato. Senza di lui avrei forse smesso di fare ricerche storiche e archeologiche e di pubblicare. E un grazie affettuoso anche a Claudio Monti per lo spazio che mi ha offerto in Rimini 2.0. Spero di corrispondere alle aspettative sue e dei frequentatori di questo sito.
Sono già verso gli 80 anni e di salute non proprio eccellente, questo ultimo tempo di attività culturale che mi rimane vorrei dedicarlo alla verifica di alcune mie ipotesi di ricerca relative alla ‘nostra’ città, non ancora prese sul serio, e alla valorizzazione dei nostri beni culturali, che sono come si dice il nostro petrolio.

In particolare penso di dedicarmi alla valorizzazione di Castel Sismondo, opera certa di Filippo Brunelleschi. Fatica sprecata?
Vi rendete conto di chi sto parlando? Dai primi del ‘900 in tutto il mondo, in Europa e in Italia Castel Sismondo è attribuito all’architetto più grande di tutti i tempi, ma non a Rimini perché la gran parte degli studiosi locali tradizionalisti a partire da Carlo Tonini non ha aderito a questa scoperta critica nazionale ed europea sicura dell’inizio del ‘900. Attualmente se la presenza del Brunelleschi a Rimini viene certamente citata da studiosi locali, non ne seguono studi degni di tanto soggetto. La mancata valorizzazione riminese dell’unica opera ossidionale brunelleschiana rimasta in gran parte intatta, degna di diventare patrimonio dell’Umanità, è responsabile della mala sorte minacciata al castello di Sigismondo Pandolfo dall’iperattivo, ma sprovveduto in fatti di storia e archeologia, “sindacone” che ha destinato Castel Sismondo a diventare un Museo Fellini, e, dicono, a riempirsi dei ciaffi delle scene dei film felliniani. Che ci azzecca? Lo sanno e lo dicono tutti. Ma il “sindacone” non ama sistematicamente di essere contraddetto. Se uno lo contraddice diventa subito un nemico da abbattere. Qualcuno che gli vuole bene dovrebbe insegnargli cosa significa la democrazia e magari anche quanto il Brunelleschi superi in valore culturale il pur noto Federico Fellini.

Il castello di Rimini appartiene di diritto ai signori e alle donne della casa Malatesta e agli uomini di cultura del loro mondo: a Neri, Giuliano, Giovanni, Pietro, Francesco, Giovanni Baronzio e gli altri pittori riminesi del Trecento, a Dante, a Giotto, a Petrarca, al Boccaccio, a Filippo Brunelleschi, a Leon Battista Alberti, a Piero della Francesca, e a tanti altri noti nel mondo. Certamente anche Federico Fellini è importante per Rimini, ma dedicargli tre o due musei è eccessivo e comunque Castel Sismondo non gli appartiene. E non si creda che i Malatesta siano una piccola famiglia romagnola, di valore storico solo locale; al loro più importante membro, che non è Sigismondo Pandolfo (1417-1468), ma suo zio Carlo I Malatesta (1368-1429), la Chiesa Cattolica deve il superamento dello Scisma d’Occidente e il mantenimento della continuità apostolica nella successione dei pontefici, e lo stesso recupero della unità della chiesa europea. E non lo ha mai ringraziato. Anzi Pio II denigrò i Malatesta e ne disfò lo stato.

Gli storici cattolici però lo sanno bene, Carlo ospitò per anni a Rimini Gregorio XII il papa romano ‘vero’, lo salvò dalle mani di Ladislao re di Napoli, degli antipapi pisani, residenti a Bologna, Alessandro V e Giovanni XXIII, e collaborò per convincerlo a rinunciare al papato per amore dell’unità della Chiesa, portando al Concilio di Costanza la sua convocazione canonica del concilio e subito dopo la rinuncia al papato, assicurando così l’elezione unitaria e legittima del nuovo papa Martino V.
I Malatesta sono anche un argomento non trascurabile della storia greca e russa perché hanno avuto Pandolfo arcivescovo di Patrasso e Cleofe sua sorella imperatrice di Costantinopoli, due figli di Malatesta dei Sonetti. Cleofe era moglie del Despota di Morea Tommaso II Paleologo coimperatore col padre Manuele II e con i fratelli. E attraverso i Paleologi i Malatesta si sono imparentati con gli zar moscoviti quando Zoe, col nome di Sofia Paleologa, nipote di Cleofe, sposò nel 1472 Ivan III Gran Principe di Mosca, e fu la nonna di Ivan IV primo Zar di Russia. Queste vicende e parentele sono anche prospettive di collaborazione culturale internazionali.

Infine desidero ribadire che un discorso storico e a maggior ragione archeologico non può presentarsi compatto e senza lacune come un romanzo. La metafora comparativa più vicina per descrivere la situazione dei lavori archeologici e storici è l’immagine di una fetta di formaggio coi buchi. Non abbiamo tutte le risposte a tutte le domande formulabili e non abbiamo tutte le domande.
Ci sono anche romanzi archeologi e storici, narrativamente ben fatti e piacevolissimi da leggere, che però non sono opere di storia.

Seguiranno a questo testo molte ‘ipotesi di lavoro’, e relativamente pochi ‘fatti’, e alcune decise denunce e rimozioni di supposte verità e anche di vere falsificazioni che hanno inquinato e inquinano il campo storico. Sono sicuro che alcune mie ipotesi di lavoro cadranno in futuro per mancanza di ulteriori sostegni fattuali o miglioramenti dei dispositivi critici, non di meno desidero esporle anche se io stesso ho dei dubbi. In particolare la grande ipotesi di una ‘forma urbis’ integra verso mare, cancellata da un’esondazione fluviale eccezionalmente catastrofica o da un terrificante maremoto – ce ne sono stati, in una cronaca del ‘700 sono registrati due grossi tsunami – mi sembra nello stesso tempo un grande fenomeno ovvio e una ipotesi impossibile da dimostrare.
Le ricerche future potrebbero confermare o falsificare questa ipotesi.

(1) Giovanni Rimondini, Vittorio Belli (1870-1953). La realtà e il mito del fondatore di Igea Marina, Panozzo, Rimini 1999: Id., La Stele “etrusca” del Museo della Città, “Ariminum”, XXIII, 2 III-IV 2016.

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