“Cogliete l’occasione per ripensare il modello turistico riminese”, parla il prof. Zamagni

“Cogliete l’occasione per ripensare il modello turistico riminese”, parla il prof. Zamagni

Cambiare. E' l'imperativo che l'economista dell'Università di Bologna indica a Rimini e alla Romagna per affrontare la sfida innescata dallo tsunami coronavirus. Come accaduto nel dopoguerra bisogna rimboccarsi le maniche. Il turismo che si è stratificato mostra i segni della obsolescenza e va inserito in una filiera culturale. "Occorre creare un luogo di elaborazione che riunisca persone senza vincoli di interesse personale e politico", spiega. Ma in questa intervista Stefano Zamagni affronta anche i temi cruciali della sanità, delle misure urgenti per mettere mano alle vulnerabilità dell'Italia e del tradimento europeo.

“Non bisogna avere paura…, Rimini ha una capacità che nessuno ha, io che sono un riminese lo so bene. Nel dopoguerra i riminesi hanno fatto i miracoli, ricostruendo la città più distrutta d’Italia, me lo lasci dire perché sono nato a Rimini in tempo di guerra. E se ha fatto miracoli allora, molto di più può fare oggi”. E’ un messaggio di speranza e di ottimismo quello che lancia il prof. Stefano Zamagni, economista dell’Alma Mater e da circa un anno presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, quando gli si chiede un commento su un territorio ed una economia che rischiano di pagare un prezzo altissimo alla pandemia da coronavirus.

Professore, è perfettamente vero che il Dna dei riminesi è quello che lei descrive così bene, ma forse c’è una differenza non banale fra il dopoguerra ed oggi: il benessere conquistato ha fatto nascere la cultura della rendita, ci si è seduti smettendo di innovare…
E’ vero, ma il coronavirus costringe a rimettersi in piedi, fa capire a tutti che occorre una spinta nuova per rialzarsi, io ho questa fiducia e sono sicuro che Rimini non deluderà. Le dirò di più.

Prego.
Ci si è troppo cullati sugli allori ma si può cambiare.

Il coronavirus ha accelerato una crisi iniziata da anni e mai affrontata adeguatamente?
Sì. Il modello turistico romagnolo è diventato obsoleto, però in quel territorio esiste un potenziale incredibile, che manca in altre aree dell’Italia e del mondo. L’entroterra riminese possiede un bacino culturale, una capacità di attrazione, che non vedo altrove. Il tema è quello di cambiare prospettiva: occorre pensare al turismo non più come ad un settore a sé stante, cosa che poteva andare bene nel passato, tutto centrato sulla ospitalità alberghiera, ma inserito in una filiera culturale, appunto. Così facendo tornerà forte, in caso contrario non sopravviverà.

Da chi deve venire la spinta di una nuova prospettiva?
Bisogna creare un think tank, un luogo di elaborazione che riunisca persone senza vincoli di interesse personale e politico, che si mettano al lavoro in maniera seria per avanzare progetti. Non un luogo di chiacchiere ma di progettazione. E Rimini dovrebbe farsi capofila di questa iniziativa anche per un territorio romagnolo più ampio, che comprenda Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini fino al confine con le Marche. Mi auguro che qualcuno prenda questa iniziativa e decida di impegnarsi, perché solo così si avrebbe una reale rinascita.

Dal piano locale a quello nazionale. Cosa pensa delle azioni fin qui decise dal governo per fronteggiare la crisi e quali sono a suo parere le priorità sulle quali intervenire per evitare il default?
I decisori sembrano non capire la differenza fra fragilità e vulnerabilità. Le politiche adeguate per la fragilità non sono le stesse che sono valide per la vulnerabilità. La fragilità fa riferimento all’emergenza e sono le politiche che si stanno attuando a livello regionale e nazionale. Ma nessuno ha ancora pensato come affrontare la vulnerabilità. Vulnerabile è quel soggetto che al momento non soffre di particolari difficoltà ma che ha una probabilità superiore al 50% di cadere in una situazione di fragilità nell’arco di un anno. Le misure prese a livello centrale e periferico sono tutte pensate in funzione delle fragilità. Per affrontare le vulnerabilità bisogna attuare azioni che aumentino il tasso di resilienza, che è l’antidoto alla vulnerabilità. Nel dibattito politico vedo molta ipocrisia ma non indicazioni su cosa fare per attuare politiche che proteggano dalla vulnerabilità.

Lo dica lei.
Primo: deburocratizzare, è la prima misura che va attuata se vogliamo che il Paese finita l’emergenza, cioè la fragilità, possa ritornare a rifiorire. Ma la burocrazia è l’effetto non la causa, che va invece individuata nella ricerca della rendita, in questo caso la rendita politica. Nessuno fa nulla per ridurre la rendita. La burocrazia non si è fatta da sé, è stata istituita da un parlamento che fa leggi in gran parte sbagliate o piene di lacune, consentendo agli alti burocrati di intervenire con le cosiddette circolari applicative, che uccidono la nostra economia, fino alle conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti… devi riempire dieci moduli quando ne basterebbe uno. La politica si serve della burocrazia per far valere vantaggi di tipo politico-elettorale, controllando la burocrazia controllo un potere.
Poi bisogna aumentare il tasso di imprenditorialità, che da vent’anni a questa parte in Italia è diminuito, a differenza di quel che è successo in altri paesi. Muoiono più imprese di quelle che nascono, questo è il problema, e muoiono non significa che falliscono ma anche che vengono comprate dagli stranieri. C’è bisogno che il sistema di tassazione sia tale da premiare gli imprenditori che generano valore e penalizzare coloro i quali estraggono valore. In Italia abbiamo troppe imprese che prendono il valore creato dagli altri.
Terza misura: il principio di sussidiarietà. In Italia manca la sussidiarietà vera, quella circolare, mentre abbonda quella falsa, ovvero la sussidiarietà orizzontale.

Qual è la differenza?
Nella sussidiarietà orizzontale decide l’ente pubblico, che poi “appalta” la gestione del servizio ad esempio ad una cooperativa sociale. La sussidiarietà circolare vede una co-progettazione fra ente pubblico, mondo dell’impresa e terzo settore, cioè la comunità, che devono interagire fra di loro non nel momento della esecuzione ma in quello della progettazione. Vede quel che sta accadendo anche nella gestione dell’emergenza? E’ stato tagliato fuori completamente il terzo settore. Hanno coinvolto la protezione civile, l’esercito, la polizia, il “pubblico”, e va benissimo, ma perché non il terzo settore? Decidono di costituire una task force per la cosiddetta fase 2 e chiamano persone che non si capisce da dove vengano e che conoscenza possano avere della realtà italiana. Perché non hanno coinvolto i soggetti che sono sul territorio, che conoscono i problemi e che sarebbero in grado di dare un grande apporto? Aver tenuto fuori il terzo settore è stato gravissimo, anche perché lo Stato sta spendendo soldi che potrebbe invece risparmiare per altri scopi, ma soprattutto perché in questo modo non è in grado di intercettare i bisogni reali della gente. Lo vado ripetendo fino alla noia: la governance deve essere di tipo sussidiario.
Infine c’è il tema della trasformazione del comparto scolastico e universitario, che non va riformato, perché le riforme sono utili solo a mantenere lo status quo, per mettere delle pezze ai buchi mentre il vestito rimane lo stesso. Sono questi i quattro grandi capitoli che devono essere tematizzati per vincere la vulnerabilità del nostro sistema Paese.

Il coronavirus ha mostrato anche tutta la debolezza del sistema sanitario italiano, mantenuto in piedi dagli eroi mandati a morire senza armi di difesa…
Anche la sanità è soggetta alla critica di cui ho detto prima: non si è voluto applicare alla sanità il principio di sussidiarietà circolare, quindi si è pensato di impostare il tutto sulla base di idee prese centralmente che poi le Regioni hanno modificato chi in una direzione e chi nell’altra. L’errore più grosso è stato quello di puntare quasi tutto sulle strutture ospedaliere, dimenticando la sanità del territorio, fra l’altro gonfiando i costi, rendendo la vita impossibile a medici e infermieri, e così via. Poi a mio parere la sanità privata “for profit” è una indecenza, immorale e scientificamente priva di ogni fondamento. Gli economisti veri spiegano che non è possibile avere una sanità privata “for profit” perché questa è una violazione dei principi di un’economia di mercato. Mentre si vorrebbe far credere il contrario. Puoi avere una sanità privata “non profit”, ma non “for profit”, non si può fare profitto se viene meno la libertà di scelta del “consumatore”.

Cioé?
Il mercato funziona sulla base della domanda e dell’offerta ma queste devono essere libere, mentre un cittadino non è libero di curarsi oppure no, è obbligato a farlo, e chi fornisce questo servizio non può abusare di uno stato di bisogno per fare profitto. Sul Financial Times è uscita la notizia che a Bristol il 95% dei posti letto dedicati ai pazienti psichiatrici si trova in strutture private di proprietà di una società quotata in Borsa, una multinazionale americana che fa profitti sulla salute della gente e poi quei profitti li investe nella speculazione finanziaria: è accettabile questo?

L’Europa non si sta evidentemente dimostrando all’altezza della sfida ed ognuno rema per conto proprio. C’è un cambiamento sostanziale che deve investire l’Unione Europea in questa fase storica?
L’Europa è nata sulla base di un progetto che aveva una caratura principalmente di natura morale, poi in corso d’opera la caratterizzazione dell’UE ha assunto sempre di più una connotazione tecnicistico-economicistica, questo è il problema dell’Europa di oggi, che ha bisogno di un supplemento d’anima, deve tornare alle origini. E’ stato dato troppo potere ai tecnocrati, ai faccendieri, perdendo di vista lo spirito iniziale, che era quello di creare una Unione Europea per salvaguardare tre valori fondamentali: la pace, la libertà e l’equità. In funzione di questi tre obiettivi si è usato come strumento l’economia, e quindi prima il mercato unico, poi la moneta unica, poi la banca centrale, ma questi sono strumenti non fini.

E i fini sono spariti…
Dei tre fini non si parla più, il risultato è che abbiamo nei ruoli strategici delle persone tecnicamente preparate ma che non capiscono niente di politica, di affari sociali, di filosofia… E’ evidente che avendo consegnato l’Europa nelle mani di questi soggetti, non si fa altro che alimentare un dibattito pieno di sciocchezze: anziché discutere sui fondamenti si parla del Mes. Sono aspetti tecnici, importanti fin che si vuole ma che dovrebbero venire dopo aver chiarito se i principali protagonisti sono ancora d’accordo, oppure no, sui principi fondativi da cui è nato il progetto europeo. I guai dell’Europa di oggi sono figli di un tradimento, sono stati traditi i principi fondativi e quando si tradisce si finisce sempre male. Ha presente Giuda? Allora bisogna fare come Pietro, anche lui aveva rinnegato Gesù, per ben tre volte, ma ha capito di avere sbagliato, ha chiesto scusa ed è cambiato. L’altro, Giuda, si è andato a impiccare. Gli errori li facciamo tutti ma occorre capirlo e cambiare. Per farlo intendere all’Unione Europea serve una pressione dal basso, la politica non è pronta.

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