Personalmente mi sono ben guardato dal seguire in TV i Dieci Comandamenti di Benigni, a parte qualche frammento sparato qua e là da una RAI costretta
Personalmente mi sono ben guardato dal seguire in TV i Dieci Comandamenti di Benigni, a parte qualche frammento sparato qua e là da una RAI costretta ad arrampicarsi sugli specchi per esaltare come capolavoro un cabaret da osteria pieno di luoghi comuni e farneticazioni più o meno oscene (dal punto di vista estetico, beninteso) su una materia che avrebbe avuto bisogno di ben altro interprete.
Ma questo è il nostro problema oggi: che l’unico genio rimastoci, in quanto popolo devastato da edonismo e consumismo, nonché giustizialismo, animalismo, femminismo eccetera, è quello comico.
Non la comicità felicemente umanista di cui era capace la commedia all’italiana, bensì il ghigno ributtante dei fratelli Vanzina, quelli che hanno distrutto il cinema italiano a suon di cinepanettoni e scoregge nazional-popolari.
Perché questa è la situazione dello spettacolo italiano oggi: niente più tragedia, niente più dramma, niente più commedia, solo battutismo da avanspettacolo in cui annega l’anima d’un popolo ridotto a folla sciamannata.
All’interno della quale, a un certo punto, un guitto come Benigni, che aveva cominciato la sua carriera a suon di bestemmie e Berlinguerismo disneyano, una volta realizzato che l’opportunismo di sinistra gli avrebbe fatto fare carriera in Italia, ma non all’estero, riuscì a vincere un Oscar con un fumettaccio sui lager nazisti che però vellicava le lobby ebraiche della Hollywood che conta.
Che si trattasse d’un equivoco lo dimostrarono i fallimenti successivi: mai più un film vedibile, mai più uno spettacolo godibile, a parte un Dante “ammente” concluso però con un tonfo d’ascolti RAI memorabile.
Che fare dunque per rialzare tono e quotazioni del guitto nazionale?
Idea: uno spettacolo di Natale da 4 milioni di Euro (come pare) atto a dimostrare, fra l’altro, come in Italia non siano solo i politici a infrangere il settimo comandamento, ma anche i comici.
Oltretutto coi soldi di noi contribuenti.
Con l’aggravante, e qui esco dal caso personale, d’una RAI che per celebrare il Natale ci propina uno spettacolo che parla non del Figlio, poveramente, umanissimamente venuto alla luce nel sottoscala d’una Palestina non ancora assistita da programmi d’aiuto tipo ONU, Medecine sans frontière, Premiata Ditta Carminati & C eccetera, no.
Uno spettacolo che ci parla del Padre invece, del Dio tonante e minaccioso, veterotestamentario e biblico, che sui tornanti del Mont Ventoux, pardon, del Monte Sinai, consegna a Mosé quelle Tavole della Legge che costituiscono la chiave di volta della religiosità anglosassone e protestante.
Una religiosità monoteistica, farisaica e precristiana che contrappone antico e nuovo testamento, privilegiando il primo all’insegna d’un moralismo individualista, d’un rapporto diretto col Dio della coscienza Luterana che non a caso è quello che storicamente ha fatto fuori l’Incarnazione.
Cioè il mistero stesso del Natale.
Quel mistero senza del quale neanche è possibile l’osservanza dei Comandamenti, inquantoché, senza la presenza d’un uomo-dio sulla cui spalla teneramente piangere come l’apostolo Giovanni nei quadri dell’Ultima Cena, chi ci darà le forze per osservare i Dieci Comandamenti?
Forse l’insulso, risibile e qualunquista richiamo all’amore universale in cui è consistito, in definitiva, il messaggio dello spettacolo di Benigni?
In questo mare di banalità e sconcezze dettate solo dalla convenienza del botteghino, Dio comunque torna a rinascere oggi, anzi domani, anzi dopodomani.
Buon Natale a tutti!
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