E. Augusta King: un incontro con la Rimini di 122 anni fa

E. Augusta King: un incontro con la Rimini di 122 anni fa

E le Male-teste di oggi: ci sono modi per curare la follia, ma nessuno per porre rimedio alla testardaggine

Il "pedigree eminentemente rispettabile e antico" rappresentato dai monumenti di Rimini, sgorga come acqua freschissima (ancora più dissetante in questi giorni) dalle pagine di questo racconto di viaggio di fine 800. Che ci riconduce anche alla mesta meditazione sulle attrattive turistiche perdute. Ma, soprattutto, alla riflessione sui danni che sta infliggendo alla città e al suo patrimonio chi considera i monumenti delle location.

Dedicato a quei viaggiatori accanto al camino che vedono le terre straniere solo attraverso gli occhi degli altri e che mai hanno attraversato le strade principali calpestate dai turisti che sono qui ricostruite.
(E. Augusta King, )

Di E. Augusta King non sappiamo praticamente nulla. Se fosse stata un autore antico le si sarebbe applicata l’espressione latina floruit. Abbreviata spesso in fl., l’espressione significa letteralmente «fiorì». In pratica, non conoscendo la sua data di nascita e di morte, di lei possiamo solo dire che «fu attiva» (uguale a «fiorì») dal 1877 al 1896.
Di questa scrittrice britannica di epoca vittoriana, infatti, sappiamo solo che ha scritto due libri. Il primo in due volumi, intitolato The Diary of a Civilian’s Wife in India, 1877-1882 (R. Bentley, London 1884), descrive i suoi cinque anni di vita trascorsi in India da memsahib, ossia come moglie di un alto funzionario britannico dell’amministrazione coloniale. Il secondo libro, che è quello che ci interessa, è Italian Highways (Richard Bentley and Son, London 1896), un racconto del suo viaggio in Italia tra il 1894 e il 1895. Vivace e talora abbastanza umoristico, è un libro che conserva ancora un suo singolare fascino: leggere le sue pagine è un po’ come tenere accostata all’orecchio una conchiglia del mare del passato che ci mormora la Rimini di un tempo.
Avendo di recente dato torto a Croce, rimetto i piatti della bilancia in pari, affermando che sono decisamente tra quelli che credono, con lui, che in fin dei conti di un autore contano solo le sue opere. Consideriamo quindi solo ciò che questa autrice scrive del suo viaggio per Rimini e della sua visita.
Nondimeno non posso esimermi dal far precedere la traduzione del suo racconto da un piccolo mosaico, fatto di pochi tasselli diversi, sparsi e primi a venirmi in mente: qualche breve commento e alcune utili informazioni, tutte segnate dall’intendimento di ridare la parola alla memoria, facendo intravvedere il contrasto col «mondo civile» di questi giorni, o meglio col nostro «nuovo umanesimo» o vagheggiato «nuovo rinascimento riminese» di cui i loro promotori, ausiliari e servi sciocchi cianciano e di cui sarebbe bene che la nostra città si scrollasse di dosso, inclusi i loro banditori sui social.
Colpirà la suggestiva descrizione della ferrovia faentina, inaugurata nel 1893. Sfido qualunque colto e sensibile viaggiatore odierno, atterrato nell’aeroporto di AIRiminum, a darmi una narrazione del suo viaggio per Rimini di pari valore.
Del sermone di sant’Antonio ai pesci, come attrattiva turistica cittadina, se ne è già parlato. È un richiamo perduto per sempre dalla nostra città. A chi fa sconsiderate elegie dell’innovazione e a piantarla con questa ammuffita «sacralizzazione del territorio» o polverosi «feticci» occorrerà far notare che anche i bombardamenti aerei furono una novità. Quello che non hanno potuto fare le bombe – ma poi dietro alla fine ci sono sempre lorsignori, i potenti – lo hanno fatto coloro che ci amministrano che vogliono trasformare i cittadini da spettatori a consumatori, in una merficifazione selvaggia di ogni luogo pubblico.

George Frederic Watts, “Paolo et Francesca”, olio su tela, 1872-1875, Watts Gallery, Compton (Regno Unito)

L’altra attrattiva turistica perduta per sempre è, infatti, l’amabile e toccante leggenda di Paolo e Francesca che un tempo aleggiava su tutta la città. Si è scelto di delocalizzare il loro assassinio nel Castello di Gradara, pura invenzione degli anni Trenta del secolo scorso, basata su una dubbia tradizione popolare e rafforzatasi con strategie di pubblicità turistica nei successivi anni Sessanta, con indubbia generosità masochistica e preclara noncuranza da parte della città di Rimini, allora più affaccendata in materiali opere di cementificazione che in quelle culturali. Era l’innovazione di allora, bellezza! Ma anche oggi gli stessi epigoni di lorsignori, mancando di qualsivoglia stile nelle arti del bello e di cultura, si stanno dando il loro bel da fare per cancellare il Ponte di Tiberio e Castel Sismondo con pratiche dolorose e strane idee che chiamano «valorizzazione», come fossero capaci di intenderla. O come dice bene Gianrico Carofiglio ne La Manomissione delle Parole (2010): Noi facciamo a pezzi le parole (le manomettiamo, nel senso di alterarle, violarle) e poi le rimontiamo (le manomettiamo nel senso di liberarle dai vincoli delle convenzioni verbali e dei non significati). Solo dopo la manomissione, possiamo usare le nostre parole per raccontare storie. Bisognerà ben dire che qui a Rimini, sempre prima nella sua anormalità come osservava Silvano Cardellini, oltre a fare a pezzi le parole per poi rimontarle si è passati ai fatti con le mura malatestiane, restaurate nel XVIII secolo: le si manomette come se i vincoli culturali non esistessero in nome delle fruizione e, se qualcuno se ne accorge, si raccontano storie per coprire gli errori di una dubbia e forse errata procedura amministrativa.
La King – è vero – poi ci propina le solite esagerazioni su Sigismondo. Ma questa romantica signora inglese era giustificata. Oggi, dopo le ricerche che si sono succedute, non è più possibile se non si vuol fare, come già illustrato, la figura del peracottaro.

Il busto di Luigi Ferrari nell’omonima piazza

Infine qualche notazione sulla politica riminese del tempo.
Curiosamente, la visita della King coincide con il giorno delle elezioni nel collegio di Rimini del 26 maggio 1895. A contendersi il seggio di deputato al parlamento da un lato Nicola Barbato (1856-1923), medico condotto a Piana dei Greci, uno degli organizzatori dei moti dei fasci siciliani (movimento di massa diffusosi tra proletariato urbano, braccianti agricoli, minatori ed operai), arrestato durante le repressioni del 1894 e condannato a dodici anni, presentato dai socialisti locali. Dall’altro Luigi Ferrari (1849-1895), inizialmente repubblicano ultrà, poi simpatizzante socialista, poi moderato, che ottenne il 51,6 dei voti contro il 44,1 di Barbato, riuscendo eletto al primo turno ma con una percentuale di voti ben lontana da quella ottenuta nel 1892, il 96,4, quando aveva ancora l’appoggio della sinistra.
Ferrari, per quelli della mia generazione, è un nome indissolubilmente legato agli omonimi Giardini dove da bambini si giocava. Ex giardini, ora sono una piazza sempre più cementificata e disboscata, dove anche le rare aiuole superstiti sono state lignificate da coperture di assi che tanto vanno in voga nella corrente vision. Chi voglia saperne di più su Luigi Ferrari dovrà rivolgersi al pregevole studio dell’amico Arturo Menghi Sartorio, pubblicato nel nr. 4 del 2011di Ariminum, il bimestrale di storia, arte e cultura della provincia di Rimini, fondato dal Rotary Club Rimini. Non sarò accusato di conflitto d’interessi, non avendo mai pubblicato su questa rivista, elogiandola e dicendo che rappresenta da decenni un valore aggiunto di conoscenza della nostra città, dei suoi personaggi, del dove siamo venuti, del chi siamo e dove stiamo andando.
Bastava poco alla nostra cittadina per «esibire prove di un pedigree eminentemente rispettabile e antico con un grande arco e un ponte» (show proofs of an eminently respectable and ancient pedigree in a great arch and a bridge). Oggi, invece, la nostra cittadina esibisce allegramente la mancanza di rispetto per l’articolo 9 della nostra Costituzione e l’impossibilità di essere non dico una città straordinaria ma almeno normale.
Nella nevrotica ansia del cambiamento, a ogni e qualsiasi costo, la nostra è una realtà che corre costantemente il rischio di essere perduta al punto di rendere la nostra città irriconoscibile, coinvolta com’è nella mercificazione spinta del suo patrimonio, nella trasformazione dei cittadini in spettatori e consumatori. Del tutto sopraffatta e distorta, un po’ per distrazione e un po’ per operazioni che – anche grazie a queste disattenzioni di una cittadinanza disinformata, remissiva, acritica, incapace di rendersi conto del proprio passato – sono sempre troppo eccessive nella loro disinvolta intraprendenza e barbarica invasività dei nuovi speculatori che usano i monumenti come fossero una location. Mentre la storia, che si fa quotidianamente, chiede memoria se vuole essere decifrata e compresa e soprattutto liberata dai guasti procurati dalla indifferenza, dall’incuria e arretratezza culturale, che sono comunque e sempre prepotenze complici della maggiore violenza della non-conoscenza, da cui solo il ricordo costantemente vivificato ci può affrancare perché ci mostra un passato diverso e ci dà la speranza di un futuro diverso.
Ma da chi scrive su Ariminum e dalla un tempo fiera schiera di intellettuali riminesi mi aspetterei un maggior senso di responsabilità civica verso gli ultimi accadimenti (e quelli a venire) di politica, per così dire, culturale. La dignità, mostrata con le rare eccezioni di Giovanni Rimondini e Giulio Zavatta, richiede coerenza tra pensiero e azione, tra ciò che si scrive da decenni e responsabilità civica di tutti i giorni. Se non si ha oggi la schiena diritta non si conta nulla e domani si sarà destinati a contare ancor meno di niente, perché responsabilità civica significa un solo dovere: quello di essere utili al bene di Rimini, con un’altra politica dei beni culturali, radicalmente diversa, civile, rispettosa, sostenibile, incentrata sulla redistribuzione della conoscenza prodotta da una ricerca forte, non asservita alla politica.
Ma lasciamo questo mare muto e tocchiamo la sponda delle parole di E. Augusta King, lasciandola raccontare.

“La tomba di Isotta nella Cattedrale”, acquarello di William Wiehe Collins (1862-1951) da “Cathedral cities of Italy …”, Dodd, Mead and Company, New York 1911

Quando lasciammo Firenze per andare a Rimini prendemmo la linea diretta per Faenza, che evita la lunga deviazione da Bologna. È stata aperta solo negli ultimi dieci anni e per fare questa linea devono essere stati affrontati molti costi. Non ricordo di aver mai visto una simile successione pressoché ininterrotta di gallerie, come quella che attraversammo per più di un’ora mentre passavamo la catena appenninica. Dovevano essercene venti o trenta, alcune molto lunghe. Tra i tunnel ottenemmo scorci intermittenti di colline selvagge e desolate tra le quali stavamo passando: i loro strati sembravano una muratura titanica, così regolari e massicci erano i suoi corsi, ma spesso inclinati in un angolo acuto e violentemente rotti in modo brusco. Pochi giorni dopo essere passati, la linea fu interamente bloccata da un grande frana che si era verificata.
Dopo aver lasciato le colline dietro di noi, entrammo in una campagna piacevole e fertile, ancora collinosa, ma in ondulazioni dolci, come placate dopo la furiosa tempesta che aveva creato i livelli più alti. Dopo aver passato Faenza, ci siamo avvicinati a un picco azzurro di forma notevole a sud, che si è rivelata la roccia repubblicana di San Marino, la più antica e più piccola repubblica del mondo. Il suo profilo è più impressionante visto da Cesena.
Gli argini della ferrovia erano pieni di interesse, ora ricoperti di acacia nana, agghindati di dolci fiori bianchi, ora gioiosi di ginestra, o di papaveri e fiordalisi, margherite e masse di timo selvatico e un piccolo gladiolo che cresceva in abbondanza.
Rimini è una tranquilla cittadina semi-marina, a circa un chilometro dalle rive dell’Adriatico, ma collegata da un canale che funge da porto per la sua flotta di pescherecci. Questo porto è famoso per essere stata la scena del sermone di Sant’Antonio ai pesci.
Si era recato a Rimini per convertire i suoi abitanti atei ed eretici, ma non volevano saperne di nessuna predicazione e si chiusero le orecchie per non sentirla. Sicuramente trovavano sgradevoli le sue spiacevoli verità. Addolorato per la durezza dei loro cuori, il santo se ne andò sulla riva, e chiese ad alta voce ai pesci di venire a sentire le lodi di Dio, essendo più degni degli uomini che si erano rifiutati di ascoltare.
Dopo di che, oh meraviglia! La superficie delle acque divenne viva con i pesci che alzavano le loro teste e ascoltavano con fervore il discorso del santo. Quando ebbe finito il suo sermone, diede loro la benedizione e li congedò, per cui obbedientemente si immersero nelle profondità e non si videro più. Questo stupendo miracolo, testimoniato da una folla di curiosi perdigiorno che avevano seguito Sant’Antonio sulla riva, ebbe l’effetto di convertire il popolo di Rimini, che assiduamente abbandonò le sue eresie e diventò devoto figlio della Chiesa.

Il ponte di Augusto, da “The English illustrated magazine” 2 (1884/1885), p. 104. Disegno datato 1883 dell’artista americano Joseph Pennell (1857-1926)

Rimini è una cittadina abbastanza comune, ma può nondimeno esibire prove di un pedigree eminentemente rispettabile e antico con un grande arco e un ponte, entrambi con un’iscrizione del tempo di Augusto. I viaggiatori, però, si prendono meno cura dei resti romani che non per il collegamento del nome di Rimini con la triste tragedia di Francesca e Paolo. Il suo pathos principale consiste nel fatto che quando Francesca diede il suo amore a Paolo, pensava in tutto onore di poter farlo e prese una tale profonda radice da non poter strapparla dal suo cuore quando troppo tardi scoprì il suo errore.
Due erano i fratelli della casa dei Malatesta, i signori di Rimini, il maggiore dei quali, Gianciotto, era brutto, malvagio e deforme, e il più giovane, Paolo, bello e vincente. E quando il padre di Francesca decise di concedere sua figlia in matrimonio al figlio maggiore, un amico – esperto nelle cose della vita, e cinico – gli disse:
«Ricorda che tua figlia ha un animo fiero e una sua volontà, e se per caso dovesse vedere Gianciotto non la obbligherai mai a sposarlo. Adotta il mio consiglio e, se vuoi che il matrimonio avvenga, fallo per procura, e fa mandare il fratello minore al suo posto».
E così fu deciso e così fu fatto, non vedendo nessuno alcuna bassezza nel grazioso intrigo. E quando Francesca e le sue dame guardavano giù nella corte per vedere il corteo a cavallo arrivare da Rimini, una di loro gridò:
«Vedi! Arriva il tuo futuro signore!».
E mirando Paolo, Francesca gli diede il suo cuore. E mai dopo avrebbe potuto riprenderselo, anche se scoprì il crudele tradimento che era stato praticato quando fu portata a Rimini e consegnata all’odioso gobbo.
La fine della triste storia è nota a tutti, in che modo quando lei e Paolo stavano leggendo la storia di Lancillotto e Ginevra insieme si dissero involontariamente l’un l’altro il proprio amore e come Gianciotto scoprì il loro segreto e li mise a morte; come Dante li vedeva ancora insieme in quel cerchio dell’Inferno dove il vento infuria senza posa, e li porta per sempre in circolo sulle sue ali, il loro amore e il loro dolore egualmente eterni. La casa di Francesca si può ancora vedere, e la storia del suo amore infelice, del suo tradimento e dell’assassinio, la investe di un interesse che non si trova in semplici mattoni e malta.
La storia della casata dei Malatesta è una lunga testimonianza di crimine e passione. Male-teste di nome, le caratteristiche che originariamente hanno guadagnato il nome alla famiglia connesse ad esso con tenacia ereditaria, e Male-teste sono rimasti alla fine del capitolo, una maledizione per tutti coloro che hanno avuto a che fare con loro, e un’illustrazione della verità del detto di Talleyrand: ci sono modi per curare la follia, ma nessuno per porre rimedio alla testardaggine.
La Cattedrale di Rimini – popolarmente conosciuta come il Tempio dei Malatesta – è un esempio straordinario della loro insolente indifferenza alla decenza. È stato restaurato o ricostruito, come dicono ripetutamente le iscrizioni sulla sua facciata e sulle sua arcate, da Sigismondo Malatesta nel 1450. E Symonds di questo particolare Malatesta ci dice: «enumerare i crimini da lui commessi nell’ambito della propria famiglia violerebbe le decenze della letteratura. Basti dire che ha ucciso tre mogli in successione».
Dopo essersi liberato delle sue mogli in questa caratteristica maniera, con lui aveva vissuto, al momento della ricostruzione della Cattedrale, una bellissima dama di nome Isotta, che non era sua moglie. Non l’ha uccisa. Al contrario, l’ha elevata al rango di una divinità e posto in tutta la chiesa, come se fosse un monogramma cristiano, le iniziali del nome di lei e suo – I. S.
Non contento di ciò, pose la di lei effige, a guisa di San Michele che schiaccia il diavolo, sopra l’altare nella sua cappella, che è così dedicata: Divæ Isottæ Sacrum. E questa memoria di ambedue sempre prospererà nella città che ha tanti motivi per ricordarli, questo triplice assassino ha introdotto nell’ornamento scolpito della Cattedrale, dentro e fuori, il suo distintivo di un elefante e quello di lei di una rosa, insieme con il suo stemma e il suo ritratto e il loro monogramma congiunto. I visitatori, però, cercheranno invano il curioso epitaffio che Hare e altri dicono fosse sulla tomba di Sigismondo. Ora non c’è, e il sacrestano professa la totale ignoranza di qualunque epitafio mai esistito. Presumibilmente è stato cancellato come non decoroso, e sostituito da altro.
Si dice che tutti i Malatesta siano stati sepolti in questa Cattedrale, che è veramente un tempio per loro piuttosto che per l’Onnipotente, ed è come un monumento a un colossale aggregato di prospero vizio e crimine, condonato da una Chiesa politica.
Ci siamo trovati a Rimini il giorno delle Elezioni Generali, che saggiamente in Italia si svolgono contemporaneamente in tutto il paese. Quest’anno si prevedeva che fosse un momento critico per Crispi e si sono svolte domenica 26 maggio. Molto prima dell’alba eravamo stati risvegliati da voci e risate nella strada, come se gli operai fossero impegnati in qualcosa. Quando arrivò la luce del giorno, fu chiaro quale fosse la loro occupazione. L’intera città era sbocciata improvvisamente in vistosi manifesti – alcuni che ti dicevano che l’umanità ti obbligava a votare per Barbato Nicola – altri supplicanti di votare per Luigi Ferrari, l’amico dei lavoratori.
Papa Paolo V, la cui statua in bronzo è in piazza, è stato trasformato per l’occasione in addetto alla propaganda elettorale e aveva un manifesto porpora sulla sua mitra e uno giallo sul pugno, mentre entrambe le mani erano piene di raccomandazioni elettorali. Nessuno dei colori di partito era indossato, e potevamo vedere solo una minima parvenza di eccitazione o di sentimento di partito in città. Ma ci deve essere stata una forte e amara corrente sotterranea, perché, nell’arco di due settimane dalle elezioni, Ferrari, il candidato che aveva vinto, fu assassinato nelle strade di questa piccola cittadina tranquilla. L’altro candidato era in carcere per qualche reato politico al momento della sua nomina.

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