A beneficio del principe di Palazzo Garampi (ed eventualmente di chi gli scrive i discorsi) e di quei sardoni dei riminesi che hanno ascoltato a bocca aperta il suo funambolico sermone prima di assistere al rogo del Castello. Che ricorda quel che avvenne nell'aprile del 1462 e che un osservatore del tempo definì una "festa da maschera". Ma da quella carnevalata cominciarono le disgrazie di Sigismondo. Da questi nuovi fuochi, le disgrazie future di Castel Sismondo.
Fino ad ora, nessun mortale è stato solennemente canonizzato all’Inferno. Sigismondo sarà il primo uomo degno di questo onore. Per editto del Papa, sarà condannato alla città infernale dove si unirà ai dannati e ai demoni. Né aspetteremo la sua morte, perché non vi è alcuna possibilità di un suo pentimento. Egli è con ciò condannato, mentre è ancora vivo, all’Orco e al fuoco eterno.
(Pio II, Commentarii, V)
Anniversario e compleanno non vogliono esattamente dire la stessa cosa. Il primo, come ci dice il suo stesso etimo composto dal latino annus e da un termine derivato del verbo ugualmente latino vertere, è la ricorrenza dedicata a commemorare la nascita o la morte di qualche personaggio o l’inizio e la fine di qualche importante avvenimento. Il compleanno, che come parola è entrata nell’italiano soltanto nella seconda metà dell’Ottocento (prima si usava genetliaco) ed è un prestito dallo spagnolo cumpleaños, è di immediata comprensione.
Mentre il compleanno si festeggia, l’anniversario è invece una sosta di riflessione per considerare ciò che è stato e rinnovare il valore e la vitalità di un ricordo.
Sta diventando sempre più di comune percezione che chi governa la città non ama la riflessione, non si ferma per confrontarsi e questo vale ormai per qualsiasi tema, sociale o culturale. Al piacere di pensare, all’ascolto della critica e alla logica comparativa, si preferisce lo sfarfallio del fila dritto, fila sopra, fila sotto, faccio tutto io, qui si cambia. La mediazione, razionalistica e umanistica, immagine dell’equilibrio, è estranea alla mente assolutista, decisionista, fanatica.
L’anniversario dovrebbe metterci di fronte alle sollecitazioni e all’indagine di ciò che è stato e che fa parte del nostro destino civico. Ma chi ci governa recalcitra. Preferisce far festa e banalizzare e in ciò c’è qualcosa che sa di adolescenza protratta o di patologico. Una delle poche liturgie concrete che ci restano – il ricordo di ciò che è stato e potrebbe ritornare –, per la profonda funzione pedagogica che ha, dovrebbe essere in queste occasioni la sfida, e, specialmente in questo caso, lo scopo di chi oggi ci governa dovrebbe essere di travasare in qualche modo quel senso di meraviglia, quel carattere del rinascimento, nelle nostre risposte alle circostanze di oggi. In questa ricorrenza vi era una grande potenzialità comunicativa e culturale che avrebbe potuto rivolgersi alla nostra città che vive in uno stato di grande disorientamento e alienazione, secondo il mio parere. Questa sarebbe stata un’offerta concreta al fantasma di Sigismondo. Non che ci si aspettasse la capacità, nello stile di Leon Battista Alberti, di far diventare l’antico moderno e il moderno obsoleto, ma almeno il minimo sindacale dovuto alle ricorrenze. Si vede bene non solo la mancanza di una cabina di regia capace di disegnare un filo rosso unitario e incisivo. Si dice che mancano i soldi, non sono stati chiesti i finanziamenti ministeriali per le celebrazioni, ma tutto questo non giustifica progetti frettolosi e raccogliticci che servono a colmare il palese vuoto che c’è dietro.
Senza girarci intorno, si ricava l’impressione che le ricorrenze sigismondee ripropongano la questione dell’utilità marginale del passato nel tempo presente della nostra città. Si direbbe anzi che non se comprenda per nulla l’utilità o il senso e che questi ultimi appaiano più che altro come un’inevitabile scocciatura. Ci si limita, perciò, a trasformarle, in qualche pessima e scadente maniera, in un «passato su misura» e in un «passato da rivendere» al proprio elettorato.
Sia chiaro: nutro una apertura totale e senza riserve ai molteplici aspetti della realtà e mi sottraggo ai riduzionismi tipici degli approcci monistici per i quali, nelle loro versioni contrapposte, nel caso in esame tutto è festa oppure tutto è cultura. Amo maggiormente le politiche che, invece di ridurre ed escludere, accolgono ed ospitano, che evitano contrapposizioni frontali e svolgono una funzione armonizzatrice e di integrazione. Occorre tuttavia riconoscere che, nella nostra città, ogni momento sé dicente culturale è divenuto consumo veloce e merce funzionale ad altri disegni poco chiari e vive un rapporto totalmente avulso dal mondo della ricerca storica e filosofica. Così che la sfida preliminare dovrebbe essere quella di riconnetterli e ricomporli, a partire dalle diverse maniere in cui le celebrazioni sigismondee possono oggi essere pensate da chi studia quel periodo, ma soprattutto da chi lo vive. Perché, a ben riflettere, Tempio e Castello sono temi viventi, aspetti sintetici dell’anima della Città che Sigismondo volle ad essa donare (così come Augusto fece con Ponte e Arco) e che c’entrano con i suoi cittadini che li hanno continuamente sotto gli occhi, ma di cui faticano a riconoscere le coordinate reali, ma anche simboliche e psicologiche.
Non credo possa servire a molto ciò che dico. Ciò che si è allestito in quella serata corrisponde ed è il frutto di stati di coscienza o di livelli di conoscenza diversi che non possono essere modificati in nessun modo con interventi aggressivi. Devo perciò limitarmi, con serenità, ad esporre alcune osservazioni che derivano da quelle che sono le mie conoscenze, derivanti da un diverso angolo visuale. Fatemela chiamare la mia Weltanschauung diversa dalla vision.
Se si sovverte l’anniversario in compleanno, dopo aver festeggiato il compleanno mi chiedo se il prossimo anno, per analogia, si celebrerà il funerale di Sigismondo. E questo mostra quanto sia ridicolo il modo di ragionare «assoluto» che agisce senza condizioni, senza confini, in modo indipendente e disimpegnato, «a ruota libera», mentre l’idea di città rifiuta di pensare che ci sia chi creda, seppur per un tempo limitato posto al vertice di essa, di piegarla al proprio uso e al proprio ristretto ego, confinati al qui e ora, senza mai un atteggiamento interrogativo o riflessivo che è il primo passo per prendersi cura della collettività che ha vari corollari: conservare, condividere, ascoltare, includere. Corollari che conferiscono potere agli altri, in primo luogo alle minoranze, all’autentico «civismo sociale» e «civismo del fare» e non alle loro maschere, ai cortigiani, vecchi e nuovi, che già il potere ce l’hanno e che, essendo interamente vuoti di pensiero e dando solo fiato alle trombe, vanno dove tira il vento. Più di tutti, il principe di loro dovrebbe diffidare e tenerli a debita distanza. Di ben altra tempra erano gli uomini della corte di Sigismondo, veri e propri consiglieri competenti.
Io non so se Andrea Gnassi abbia, tra i suoi cortigiani, qualcuno che gli scriva i discorsi. Ma dopo aver letto, sul sito del Comune di Rimini, quello che ha pronunciato in occasione della festa di compleanno per quell’«anormale» di Sigismondo, mi permetto di consigliargli, con molto affetto, di cambiarlo. Se, invece, quelli che ha espresso sono davvero pensieri suoi, rifletta, almeno una volta, sul fatto che la conoscenza e il sapere sono un serio ostacolo a qualsiasi delirio di onnipotenza. È vero che tutto si può comprare e ogni cosa ha il suo prezzo: posso comprare una camicia, posso comprare persino il potere. Ma non la conoscenza, perché il prezzo da pagare è di ben altra natura. Nemmeno un assegno in bianco o la più autorevole lettera di patronage può consentirci di acquistare in modo automatico ciò che è il risultato di un lungo e faticoso percorso, di uno sforzo individuale e di una passione inesauribile.
Sui contenuti di questa orazione di Andrea Gnassi, dove Sigismondo viene definito «un bipolare ante litteram», non solo, per parafrasare ancora una volta Oreste Delucca, nei miei vent’anni di studi e traduzioni malatestiane, non ho mai trovato nessuno, ma proprio nessuno che abbia mai certificato per Sigismondo una diagnosi della sindrome maniaco depressiva, ma anche, se con questa definizione del tutto fantastica quanto altrettanto imprecisa, si voleva con la versione gnassiana di un Sigismondo «spietato e raffinato, mecenate e distruttore, crudele e sensibile all’arte, bello e ceffo da galera. Novanta chili di contraddizioni» alludere al vecchio e trito cliché ottocentesco della stretta congiunzione in una sola persona «di animo delittuoso, empietà, talento militare e alta cultura» della versione burckhardtiana (1867), occorrerà che qualcuno informi il nostro attuale principe, che fa solo figate e vuole sempre essere up-to-date, che questo mito – la «leggenda nera», la mostruosità di Sigismondo – è stato demolito da più di un secolo dagli studi di Giovanni Soranzo, che hanno dimostrato che le principali accuse contro Sigismondo lanciate da Pio II, nascevano da precise ragioni politiche ed erano contraddette da numerosi e più affidabili documenti. Cosa direste se il racconto su di voi fosse fatto dal vostro peggior nemico, il quale, essendo per di più papa, vi ha anche scomunicato e letteralmente mandato all’inferno. Riterreste questo racconto affidabile e degno di fede?
Non basta: raccontare ancora la leggenda nera di Sigismondo, che poteva anche avere un senso e una funzione di verniciatura byroniana nell’epoca del Romanticismo, oggi non solo è segno di scarsa dimestichezza con gli studi, ma quel che è più grave è che è profondamente diseducativo. Lo dico a beneficio di quei sardoni dei riminesi che avranno ascoltato a bocca aperta il funanbolico sermone.
Mi permetto alcuni suggerimenti per qualche azione tempestiva al fine di superare l’emergenza da deficit gnoseologico «come si dice in linguaggio forbito». Lo so, di Giovanni Soranzo ha parlato per primo Giuseppe Chicchi in un articolo che ho ricordato in precedenza, ma certamente Gnassi non se ne adombrerà e per non mostrarsi fabbricatore di effimero, come l’ha accusato il suo predecessore, vorrà allargarsi «con coraggio curiosità e sguardo» a questi traguardi. Si faccia mandare dalla Biblioteca Gambalunga nel suo ufficio due testi di Soranzo: Pio II e la politica italiana nella lotta contro i Malatesti: 1457-1463 (Fratelli Drucker, Padova 1911) e «Un’Invettiva della curia romana contro Sigismondo Pandolfo Malatesta» (pubblicati in La Romagna 7, 1910 e 8, 1911). Non ha tempo di gettarvi uno sguardo affaccendato com’è nel suo ruolo di Sindaco, Presidente della Provincia, Presidente di Destinazione Romagna, dirigente del PD in affanno, organizzatore di giostre ed eventi e posatore di ponti, pontili, arredi, rotonde e rotondine? Li faccia leggere a Sergio Funelli e Fabrizio Bronzetti, che potranno fargliene un riassunto, all’occorrenza anche orale. In questo secondo caso, si perderà, purtroppo, una botta di vita malatestiana, coerente con le virtù neoplatoniche della vita activa e della vita contemplativa che furono un tema fondamentale del pensiero intellettuale dell’Italia del Quattrocento. Sigismondo credeva tanto a questi due aspetti della vita che ne troviamo l’espressione diretta dall’iconografia del Tempio malatestiano nei due bassorilievi detti Il trionfo di Minerva e Il trionfo di Scipione, che, non a caso, si trovano nella Cappella detta non solo degli antenati ma anche dei discendenti (e non casualmente). La spiego semplice semplice e con parole diverse cosicché i più possano capirmi: non si dà prassi senza teoria, non si fa bella storia senza filosofia, l’azione non ha senso se dietro non c’è un pensiero forte, non si ottiene la gloria se non con la sapienza. Beh, se qualcuno ha la tracotanza di sentirsi il discendente di Malatesta se lo appunti.
Senza nessuna pelosa condiscendenza o ipocrita commemorazione, confesso che nel lontano lustro in cui ho presieduto quelle che erano allora le più importanti associazione e cooperativa culturali del territorio (Arci e O.N.U. One Nation Underground) non sono mai andato d’accordo con Silvano Cardellini, col quale ho avuto più che frequenti scontri di penna e col quale scorreva una reciproca e ferma antipatia. Proprio per questi motivi lo leggevo e ho continuato a leggerlo con grande attenzione e col rispetto che si deve a un duellante. E ricordo benissimo che diceva che «normali non siamo» per la necessità di essere sempre e costantemente in vetrina e in vendita nel mercato delle vacanze. Non perché siamo straordinari come Fellini (o come il Malatesta), ma perché, secondo Cardellini, siamo condannati a stare sotto i riflettori fingendo di essere i vitelloni (o i sudditi di una nuova era malatestiana).
E qui mi rassicuro: questo compleanno non è per nulla rimbalzato sugli specchi e rifratto sulle vetrine dell’universo globo. È rimasto, turisticamente, data l’inconsistenza creativa, piuttosto oscurato.
Oscurità e grigiore che si sono conclusi, come di dovere, con uno spettacolo di fuochi. Ho visto il video del rogo del castello. E qua m’immelanconisco e mi dispero per il suo aspetto macabro. Il rogo del castello a me ha ricordato la bruciatura in effigie del Signore di Rimini – dei fantocci impagliati con un cappello di color rosa – in tre pubbliche piazze di Roma (Campidoglio, Campo dei Fiori e scalinate di San Pietro). Un osservatore del tempo definì l’intero evento dell’aprile 1462 una «festa da maschere», ossia una carnevalata. Da lì cominciarono le disgrazie di Sigismondo.
Da qui, da questi nuovi fuochi, le disgrazie future di Castel Sismondo con i suoi nuovi interventi «non solo storicamente infondati, ma anche fuorvianti», come ha correttamente annotato Giulio Zavatta in Ariminum, ma oramai, direi, decisamente distruttivi. Il fuoco, d’altra parte, è sempre stato un elemento privilegiato nella tutela delle vision.
E poi gli attizzatori devono sempre dare qualche bell’esempio dei supplizi che ci attendono: il rogo della memoria malatestiana e il falò pirotecnico della sua gloria.
Fotografia: la Rocca Matestiana al tempo di Sigismondo – Ricostruzione dell’Ingegner Meluzzi, incisione da Charles Yriarte, Rimini: Un Condottiere au XVe siècle…, J. Rothschild Ed., Paris 1882
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