Ecco perché il fossato non è un contorno (sacrificabile) di Castel Sismondo

Ecco perché il fossato non è un contorno (sacrificabile) di Castel Sismondo

«Il fossato è la parte più interessante e nuova dell'edificio brunelleschiano, che accendeva l'interesse di Roberto Valturio e di altri umanisti. Riaprirlo è quindi nel destino di Rimini, per ricomporre l’unità architettonica (così come avvenuto per la ricostruzione filologica del Teatro) e rimettere in luce la parte ampia, scarpata come un fronte bastionato, che sarà anche la causa del maggiore effetto ottico dell'edificio, che 'si alzerà' complessivamente di circa dieci metri». L'intervento del prof. Rimondini.

“A SIMIGLIANZA DI PIRAMIDI”, L’IMMENSO FOSSATO DI CASTEL SISMONDO OPERA “MAGNAE MENTIS ET PRAECELLENTIS INGENII”

E’ un’immagine già vista, ma questa volta serve per seguire meglio la descrizione del Valturio. Gaetano Stegani (1719-1787), architetto bolognese operante a Rimini. Pianta di Castel Sismondo, commissionata da Jean Baptiste Seroux D’Agincourt (1730-1814), il primo storico dell’arte medievale e rinascimentale. Si noti il fossato tagliato in due dalle mura della città – fossa interiore e fossa esterna -, l’ingresso principale modificato rispetto a quello descritto dal Valturio, e nel fossato interno a sinistra di chi guarda l’origine della sorgente che serviva per riempire d’acqua il fossato.

LA TERZA PROVA DELL’AUTORIA DI CASTEL SISMONDO DI FILIPPO BRUNELLESCHI

Sto scrivendo per i Riminesi, e spero per i giovani, che non conoscono o non apprezzano a sufficienza il patrimonio culturale di importanza mondiale che possiede Rimini, perché gli studiosi del Brunelleschi in Italia, in Europa e nel Mondo lo sanno molto bene, come appare puntualmente nei libri dedicati al Brunelleschi, che l’autore di Castel Sismondo è stato il grandissimo architetto fiorentino.
Spero che quanto segue abbia una rilevanza anche fuori di Rimini, e spinga gli studiosi del Brunelleschi a darci una mano nel progetto di reintegrare al nucleo del castello la sua parte interrata; e spero che a Rimini contribuisca a preparare la gente per la rimessa in luce del fossato, finita che sarà questa amministrazione comunale.
Le due solide prove dell’autoria brunelleschiana del castello di Rimini sono, come già è noto, ma non ci stancheremo di ribadirlo, la biografia del Brunelleschi scritta dal contemporaneo Antonio di Tuccio Manetti: “fece uno castello fortezza mirabile al Signore Gismondo di Rimino”; affermazione che risponde alla domanda: a Firenze sapevano che il Brunelleschi era l’autore del castello più celebrato dagli umanisti del tempo? Sì, lo sapevano. E a Rimini? Anche a Rimini, e questa è la novità, come vedremo. La seconda prova è custodita nell’Archivio dell’Opera del Duomo di Firenze: nel Registro degli stanziamenti – II, 4, 14 – che annota i giorni del salario quotidiano non pagati all’architetto data l’assenza per la visita che Filippo Brunelleschi faceva nei territori di Sigismondo Pandolfo Malatesta e di suo fratello Domenico o Malatesta Novello Signore di Cesena, dal 28 agosto al 20 ottobre 1438. Una prova questa “a stento credibile” per usare un’espressione che Valturio riserva al nostro castello, perché il Brunelleschi a Firenze non era senza lavoro, aveva da governare il tormentato cantiere della immensa cupola di Santa Maria del Fiore ancora aperto.

Ci sarebbero poi anche le ipotesi di lavoro sulle tre immagini contemporanee del castello, le possibili derivazioni dai disegni del Brunelleschi, e le “difese ottiche” sui quali temi torneremo in altra occasione.
Infine c’è anche un indizio interessante, ripreso e pubblicato da Angelo Turchini, l’orazione dell’umanista Giacomo da Pesaro, in onore di Sigismondo Pandolfo per la vittoria di Monteluro nel 1443. Con l’arx o Castel Sismondo, afferma l’umanista, Rimini ha una meraviglia da esibire ai frequentatori delle spiagge adriatiche – “universae huius orae maritimae firmamentum” -, come Firenze ha la chiesa della Beata Riparata, di San Giovanni Battista di San Michele – Orsanmichele -; la chiesa della Beata Riparata, come noto è Santa Maria del Fiore, dove Filippo Brunelleschi aveva appena eretto la grande cupola. Roberto Valturio (1405-1475) era tornato a Rimini dalla curia romana nel 1446.

La terza prova risponde alla domanda: a Rimini lo sapevano che l’architetto di Castel Sismondo era Filippo Brunelleschi? Sissignori, a Rimini lo sapevano. Lo si apprende leggendo con diligenza la descrizione del castello fatta da Roberto Valturio nel De Re Militari (vedi sotto).
Il fossato, come vedrete, non è un contorno del castello sacrificabile, ma è la parte più interessante e nuova dell’edificio brunelleschiano, che accendeva l’interesse di Roberto Valturio e di altri umanisti.
Capirete che è nel destino di Rimini la riapertura per ricomporre la sua unità architettonica, come è stata la ricostruzione filologica del Teatro, e la rimessa in luce della parte ampia, scarpata come un fronte bastionato, che sarà anche la causa del maggiore effetto ottico dell’edificio, che ‘si alzerà’ complessivamente di circa 10 metri.

Il De Re Militari è certamente un testo difficile da tradurre, forse per il latino ricercato con frasi paratattiche, affastellate, con pochi soggetti e verbi, o forse per l’intervento degli stampatori che lo hanno riempito di refusi, per non parlare della quasi coeva traduzione di Paolo Ramusio, di famiglia riminese passata a Venezia, un volgare che sembra a volte un’insalata di parole. Vedete sotto.
Qui di seguito potete leggere la mia traduzione della descrizione del castello fatta dal Valturio, di modi casalinghi, spesso libera – e nell’ultima parte decisamente mirata – e con qualche aggiunta esplicativa, in attesa che un bravo latinista ce ne fornisca una migliore. A questo scopo trascrivo in fondo la parte finale della descrizione.

“AMBITUS”, “PROMURALIS”, “PROFUNDITAS PROCLIVIS” O SCARPA

La mia tradizione diverge da quella di Angelo Turchini – in Castel Sismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta, Ghigi 1985, pp.181-182 – in molti punti, specialmente però nell’inizio, dove Angelo traduce “promuralis” con “scarpa”, la parte obliqua del muro, mentre nella mia versione si distingue l'”ambitus” cioè il muro che fa un semicerchio, il “promuralis” il tipo di muro dell’ambitus, che è il muro più basso dei due della “falsabraga” – per il significato del termine “falsabraga” e degli altri tecnici qui usati rimando in rete al dizionario di termini militari ICASTELLI.ORG di Dino Palloni – questo muro più basso sta davanti al muro più alto, mentre la “scarpa”, la parte inclinata del promurale, che certamente è la riconosciuta protagonista della prima frase e di tutta la descrizione, è indicata dal Valturio con il sostantivo e aggettivo “profunditas proclivis”: “la parte in basso inclinata” di cui viene data l’altezza di 50 passi, individuati come passi romani, un passo metri 0,295, pari a 14 metri; in alternativa col piede riminese di metri 0,542; con il piede riminese l’altezza di tutto il muro, parte verticale e scarpa, sarebbe di metri 27; questa misura, che articolata in 10 metri di scarpa e 7 del promurale verticale potrebbe pure essere accettata, temo che risulterebbe invece sballata nelle altre indicazioni di misure in piedi – le torri di 60 passi sarebbero alte 32 metri, una casa di dieci piani, misurate i passi riminesi, mentre i passi romani risulterebbero di metri 17, una casa di tre piani – perciò preferisco quella romana, ma potrei sbagliarmi. Seguiranno altre precisazioni.
Si consideri anche che il fosso e la parte bassa del promurale che gira tutt’intorno al castello sul davanti e anche dietro, non è attaccabile dalle artiglierie nemiche perché si nasconde, per così dire, nel fossato. Resta allora da scoprire il segreto della sua “astuzia” bellica. Probabilmente è un’architettura di vuoti e piani bassi che costringe il nemico a scendere in un fossato dal piano in un primo momento asciutto, bloccato da pareti oblique e costretto a subire gli attacchi di un contingente di fanti e cavalieri. Forse dentro il fossato funzionava una linea di bombardiere, come aveva ipotizzato Dino Palloni. Ma la risposta a questa domanda la troveremo ripristinando lo spazio del fossato, e troveremo la cronologia e la funzione dei tramezzi che si notano nella pianta dello Stegani. Secondo questa logica a Mondaino, sotto la falsabraga di Sigismondo Pandolfo, che circonda il palatium trecentesco, nel fossato che va dal ponte morto inserito in un vero bastione, all’angolo verso Rimini, è stata scavata di recente una probabile “capponiera” con due bombardiere i cui pezzi sparavano all’interno del fossato. La scelta del piede romano si basa anche sulle sezioni della scarpa di Pacifico Barilari (vedi sotto).

Anche questa immagine di Pacifico Barilari è stata già pubblicata, ma si faccia caso al triangolo che si vede a sinistra, sul quale c’è la sezione dell’acquedotto praticabile che proviene da via Dario Campana e si dirige alla piazza Cavour, un triangolo rettangolo con l’altezza di metri 10 e la base di metri 4, si tratta della sezione della “scarpa” esterna.

“FOSSA PRIMA ET POSTREMA” UN’UNICA FOSSA DIVISA DAL MURO DELLA CITTÀ

Quello che c’è di straordinario nel testo del Valturio è l’enfasi riservata al “fosso” che viene preso in considerazione cinque volte, come vedremo. Nella prima appare la metafora delle piramidi, più sotto c’è la metafora del fiume, uniche metafore o comparazioni in tutta la descrizione. La comparazione delle piramidi l’avevo sempre intesa riferita, anche per metonimia, alle torri, e funziona certamente anche per le torri, ma il Valturio l’usa soprattutto per evocare l’aspetto del fossato, con le scarpe, ossia la parte a scivolo, alte dai 10 ai 14 metri, larghe 4, come vedremo. Nella terza citazione del fossato arriva la risposta alla domanda se a Rimini si sapeva che il Brunelleschi era l’autore di Castel Sismondo. Non è una risposta precisa, come vedremo, ma non lascia dubbi.
Valturio afferma che il “fosso”, evidentemente la parte più importante del castello, è “opera di una grande mente e di un ingegno eccellentissimo.”
Manca il nome, ma chi poteva mai essere? Con le altre due prove sappiamo che si trattava di Filippo Brunelleschi, già noto in Italia per la grande cupola, inaugurata il 24 marzo del 1436 quando papa Eugenio IV e i suoi prelati e funzionari, tra i quali Roberto Valturio e Leon Battista Alberti, erano esiliati a Firenze.
Si potrebbe obbiettare che la grande mente e l’ingegno eccellentissimo potevano essere attribuiti a Sigismondo Pandolfo, al quale il Valturio non manca di rivolgere numerose lodi considerandolo anche per due volte “auctor” del castello, ma, anche se il Ramusio traduce “auctor” con “autore”, il termine latino “auctor”, ci ha ricordato Angelo Turchini, significa “committente”. E poi il termine “opus” è di significato attributivo di un progetto artistico.
Ma perché il Valturio non ha scritto il nome e il cognome dell’autore dell'”opus”?
Forse per ragioni cortigiane, per non spostare in secondo piano il nome di Sigismondo Pandolfo Malatesta, il grandissimo narcisista rinascimentale non avrebbe gradito la “diminutio” indiretta del confronto che si sarebbe instaurato col Brunelleschi.
La parte finale della descrizione, qui tradotta secondo l’ipotesi che l’astuzia difensiva sia legata allo spazio tra le due scarpe, rivela l’espediente principale della fossa, come vedranno quelli che leggeranno tutto il testo, o solo l’ultima parte.

Particolare di un disegno del pittore bolognese Pio Panfili 1790. La fossa è nascosta da un leggero terrapieno che aumenta l’effetto di voragine del fossato, solo sull’orlo.

Il fossato malauguratamente venne riempito negli anni ’20 dell’800, e così è scomparsa dai nostri occhi proprio la parte più innovativa, più originale di Castel Sismondo, non un ordinario fossato pieno d’acqua, anche se lo spazio tra le due sponde poteva essere allagato, ma un vuoto definito da un’architettura, con scarpe o scivoli da entrambi i lati che anticipano, come vedremo, il fronte bastionato dei secoli successivi. E infine doveva trattarsi di uno spazio praticabile per fanti e cavalieri per attaccare il nemico sceso nella fossa. Quando sarà scavato il fossato troveremo le entrate e discese – probabilmente nascoste dalle torri portaie, eventualmente anche le bombardiere e forse anche tracce delle capponiere che rendevano terribile quello spazio intermedio. La falsabraga, come a Costantinopoli, poteva permettere in alto le manovre di fanti e cavalieri, qui invece queste manovre restavano nascoste ai nemici rimasti fuori della fossa mentre travolgevano i nemici che vi erano scesi.
Ecco l’impronta del genio ossidionale, l’unghiata del leone, nel nostro castello.

Va da sé, come osservato, che dobbiamo recuperare e restaurare il fossato eliminando le ridicole superfetazioni kitsch che hanno costruito e stanno costruendo gli attuali amministratori comunali particolarmente sprovveduti di sapere storico ed estetico.

IL FOSSATO DI CASTEL SISMONDO NELLA DESCRIZIONE DI ROBERTO VALTURIO

Prendiamo allora in esame analitico tutta la descrizione di Castel Sismondo nel libro primo del Valturio che ci è arrivata in diversi originali manoscritti e incunaboli latini; l’incunabolo del 1472 della Biblioteca di Verona, è stato pubblicato nel 2006 da Guaraldi in fac simile. Nel 1483 Paolo Ramusio di famiglia riminese trasferita a Venezia ne pubblicò una traduzione in volgare, sempre a Verona ne hanno un esemplare pubblicato in fac simile nel 2011. Come vedremo, Valturio per cinque volte in questa descrizione si ferma sul fossato, e scrive che il fossato è opera di una grande mente e di un ingegno straordinario: “magnae mentis et praecellentis ingenii opus.”

La precisa idea della forma e della grandezza delle scarpe l’abbiamo da un disegno del matematico ed ingegnere pesarese Pacifico Barilari (1813-1898) firmato e datato 26 luglio 1839 – Archivio di Stato di Rimini, Archivio Storico Comunale, B. 641, pubblicato da P.G.Pasini e A.M. Bernucci, Acqua da bere, acqua da vedere, nel 1998. Il Barilari ha disegnato una sezione della scarpa del fossato: altezza m. 10, e larghezza m. 4. Roberto Valturio, vedi sotto, nella parte verso la città scrive che il fossato è profondo 50 passi. Sono passi misura di Roma m. 0, 295 – ci sono varianti nel terzo numero dopo la virgola – sono quindi m. 14.

Vediamo negli originali latino e volgare l’inizio del brano con una precisa descrizione del fossato:

“Primo versus urbem ambitu Emicicli formam habens promuralis eius vix credibilis relatu; profunditasque pyrrhamidum instar proclivis a fundamentis erigitur; amplissima latitudine ad summitatem altitudinem pedum quinquaginta…”

Ed ecco la traduzione del Ramusio:

“Nel primo circondare ver la citade de uno mezo circulo la forma havendo la fortecia delle mura di quello a pena è incredibile da dire, et la profunditate la quale a simiglianza di pyramide inclinata da le fondamenta, se drecia cum una dispietata larghecia alla cima laltitudine de pedi cinquanta…”

La frase non è finita, la riprendiamo sotto.
La mia modesta articolata traduzione: “Il promurale, ossia la parte bassa della falsabraga della rocca, che ha forma di semicerchio, nel primo girone di mura verso la città, a stento è credibile da descriversi; la parte bassa – profunfitas proclivis, alla lettera: la profondità inclinata, ossia la scarpa – del muro si erge dalle fondamenta simile alle piramidi; di amplissima lunghezza alta sino in cima 50 piedi – metri 14 -…”

LE SCARPE [IL PIANO INCLINATO], LA PROFONDITÀ DEL FOSSATO E LA METAFORA DELLE PIRAMIDI

Nella traduzione libera del Ramusio si perde un poco la precisione dei dettagli. Il Valturio inizia la descrizione dalla parte che ritiene essere la più più importante, l’emiciclo del castello verso la città, col suo “promuralis” che è il muro basso merlato che oggi chiameremmo la falsabraga, sul quale subito dopo l’autore si sofferma, come vedremo, e che valuta incredibile da descriversi. E’ infatti si tratta di una delle due parti nuove della fortezza. In altre pubblicazioni ho scritto che le novità di Castel Sismondo sarebbero per prime le mura basse – il “promuralis”, con l’ampio spazio dietro prima di arrivare alla linea delle torri. Si potrebbe però sostenere che il “promuralis”, presente in quasi tutte le costruzioni ossidionali di Sigismondo Pandolfo, non è proprio una novità di architettura militare, basta pensare alla sua presenza nella grandissima fabbrica delle mura di Costantinopoli dell’imperatore Teodosio (347-395), messe alla prova due volte dai Turchi nella prima metà del ‘400 – tenne nel 1421, non resse a tutto il popolo turco, una marea di gente nel 1453 -.
In effetti la novità riminese consiste nello spazio ampio tra le due linee di mura della falsabraga del castello, terreno necessario per trasferire più agevolmente le bombarde alle molte bombardiere del promurale e la grande bombarda dei Malatesta – fatta a pezzi dal duca di Urbino Francesco Maria I della Rovere nel corso della riconquista di Urbino, da dove papa Leone X Medici l’aveva cacciato nel 1517.
Ma la seconda novità, delle due la più importante, è il grande fossato con la doppia definizione a scarpe o scivoli.

VIVI EFFETTI DI PAURA DEL PROFONDO FOSSATO

Se ora vedessimo con gli occhi della mente il grande spazio vuoto del fossato, ci sentiremmo come se ci trovassimo in un canyon; e l’emozione virerebbe subito verso la paura. Ci spaventerebbe il gran vuoto dove prima c’era uno spazio orizzontale. L’inquietudine si manifesta con un’infilata di immagini ed emozioni sgradevolmente iquietanti. Se il fossato è stato chiuso, se tuttora ci sono forti resistenze ad aprirlo non sarà perché questo spazio enorme, questa voragine al centro di Rimini ha fatto nell’800, e ci farebbe oggi, l’impressione di vedere un insopportabile girone dantesco? E se, come in certe fantasie letterarie, quei muri fossero impregnati di dolore, della sofferenza di tutte le vittime dei Malatesta, peggio ancora se fossero… – l’immagine è nata dal grande sarcofago di metallo nero costruito da poco al margine del fossato verso il fiume -, se quelle piramidi fossero le pareti della tomba di un Sigismondo Pandolfo Dracula che dissotterrato emergerà a tormentare le notti non più rosa del sindaco?
Ma no, mi dico, Gina Fasoli, la mia maestra di storia, sorpresa dal livore dantesco nei confronti dei Signori di Rimini, scriveva che i Malatesta non erano dei galantuomini, ma nemmeno erano peggiori o migliori dei signori e dei papi contemporanei.
E poi Sigismondo Pandolfo, preso di mira dall’odio di papa Pio II e calunniato abbondantemente in una farsa di processo, cattivo fin che si vuole non si è macchiato le mani del sangue di suo fratello come Federico da Montefeltro il suo rivale vicino, sempre descritto da storici proni alla tradizione bugiarda come un cavaliere senza macchia. Ultimamente i delitti di Federico, dal fratricidio alla organizzazione della congiura dei Pazzi, sono stati affrontati dai nuovi storici.
E poi dentro quelle scarpe altissime sono contenuti i resti di altri muri sacri, quelli della Cattedrale di Santa Colomba, che l’imprenditore forlivese Francesco Romagnoli aveva acquistato e distrutto per ottenere mattoni da riutilizzo e con i marmi di statue, ancone ed epigrafi fare della calce.
E qui ricordo di avere avuto tempo fa una certa sorpresa studiando la storia di Santa Colomba, come tutti pensavo che la cattedrale vecchia di Rimini fosse stata distrutta da Napoleone. Santa Colomba è stata l’unica cattedrale requisita e venduta dai Francesi e dai Giacobini riminesi, che avevano confiscato i beni degli ordini religiosi e delle canoniche, mai però avevano toccato i beni dei vescovi. Perché allora Santa Colomba era stata l’eccezione?

Pio Panfili 1790, veduta di piazza Malatesta, particolare con Santa Colomba.

DIGRESSIONE: LA VERA FINE STORICA DELLA CATTEDRALE DI SANTA COLOMBA

Il vescovo di cui sto per parlarvi è l’ultimo dell’Antico Regime a Rimini, l’anconetano Vincenzo Ferretti, parente dei Mastai Ferretti di Senigallia, vescovo di Rimini dal 1779 al 1808.
Il Ferretti aveva perseguitato con zelo i Giacobini riminesi e, fuggendo sui monti feretrani prima che Napoleone entrasse a Rimini, aveva inchiodato alle porte di Santa Colomba un invito all’insurrezione armata contro i Francesi. Ma Napoleone gli aveva mandato un ufficiale del suo Stato maggiore nei boschi del Montefeltro per farlo tornare a Rimini. I Giacobini riminesi volevano fare i conti col loro persecutore e lo avevano incarcerato. Ma Napoleone aveva preteso che il Ferretti venisse subito liberato dal carcere e non ulteriormente molestato.
Napoleone stava pensando già al suo destino imperiale e non voleva rotture insanabili con la chiesa; in Romagna poi si era fatto amico e collaboratore l’arcivescovo di Ravenna Antonio Codronchi.
Allora i Giacobini riminesi si vendicarono sulla cattedrale. Nel 1798 intimarono al vescovo di consegnare la cattedrale. Aveva poche ore per trasportare fuori gli arredi indispensabili e trasferirli in Sant’Agostino, già ridotta a chiesa demaniale, assegnata in cambio di Santa Colomba.
Dovevano arrivare contingenti dell’esercito francese e serviva un locale da trasformare in caserma.
Nel 1815 Napoleone era caduto e Rimini era tornata sotto il governo pontificio. Alcuni riminesi ricchi e di grande fede e amore per l’antica cattedrale, offrirono al vescovo il denaro per ricomprare la cattedrale, ma il Ferretti non volle ritornare alla vecchia cattedrale, per la sua comodità, disse. Napoleone gli aveva dato come cattedrale il Tempio Malatestiano che era più vicino alla sua residenza, l’antico palazzo malatestiano del Cimiero, che sorgeva fino al 1960 dove oggi c’è il condominio Fabbri in piazza Ferrari. In effetti andando a piedi dal Condominio Fabbri al Tempio, e non in carrozza con il solito tiro di cavalli, avrebbe fatto qualche passo di meno rispetto al tragitto per Santa Colomba. Così l’imprenditore riminese Francesco Romagnoli potè demolire il duomo del VI secolo, rinnovato nel XIII. Le macerie furono buttate nel fossato di Castel Sismondo, dove sono tuttora.
Possibili resti di affreschi del Trecento su croste di calce, teste di cherubini in gesso opera del Trentanove, pezzi di trabeazioni di ancone in cotto di Bernardini Gueritti, frammenti ricomponibili di epigrafi in pietra di San Marino, monete – ce ne sono sempre -, medaglie, resti di ceramiche dal ‘300 alla fine del ‘700, candelieri rinascimentali di legno, e altro non vi farebbero gola?

Roberto Valturio, De Re Militari, dedica a Sigismondo Pandolfo Malatesta.


ALTRA DIGRESSIONE SU SIGISMONDO PANDOLFO MALATESTA “REX ARIMINENSIUM”

La dedica del De re militari di Roberto Valturio recita:

AD MAGNANIMVM. ET. ILLVSTREM. HEROA. SIGISMVNDVM. PANDULFUM. MALATESTAM. SPLENDIDISSIMVM. ARIMINENSIVM. REGEM. AC IMPERATOREM. SEMPER INVICTVM. ROBERTI VALUTVRII. REI. MIL[ITARIS]. PREFATIO
[Prefazione del Res Militaris di Roberto Valturio [dedicata] al magnanimo ed illustre eroe Sigismondo Pandolfo Malatesta splendidissimo re dei Riminesi e generale sempre invitto]

In effetti a metà ‘400 Sigismondo Pandolfo non era ancora stato sconfitto, e la sua vittoria contro l’esercito del malevolo Pio II a Nidastore, con un esercito pagato dagli Angiò, nel 1462, era stata l’ultima.
Quello che colpisce in questa dedica è l’espressione “splendidissimum Ariminensium regem”.
Ramusio traduce “principe di Rimini” ma non è la stessa espressione di Valturio. Segue un’ipotesi da approfondire con studi di diritto istituzionale medievale e rinascimentale, che si appoggia ai titoli di Napoleone “imperatore dei Francesi” e re d’Italia. Napoleone era imperatore per sovranità dei cittadini francesi trasferita a lui con plebiscito, e re d’Italia per grazia di Dio, due titoli di logiche storiche diverse che sancivano due tempi diversi di diritto istituzionale uno per la Francia post rivoluzionaria e uno per l’Italia mantenuta in antico regime, riapparsi poi insieme nel titolo di Vittorio Emanuele II re d’Italia “per grazia di Dio e per volontà della Nazione”, gli Italiani che l’avevano scelto con i plebisciti. Poteva darsi che il comune di Rimini fosse titolare di sovranità trasmessa a Sigismondo Pandolfo Malatesta?

Rimini, Torre dell’Orologio in piazza Tre Martiri, il doppio stemma del Comune di Rimini con la corona regia.

Un giacobino riminese chiese alla municipalità, prima della regressione monarchica napoleonica, di scalpellare via, come si era fatto con gli stemmi dei magistrati sul tamburo inferiore della fontana di piazza della Fontana [poi Cavour], la “corona regale” sul doppio stemma comunale della torre dell’orologio in piazza S.Antonio [oggi Tre Martiri], probabilmente di origine cinquecentesca. Sto cercando nella mia discarica di fotocopie e di appunti la citazione esatta archivistica, non l’ho ancora trovata, ma vi prego di fidarvi della mia parola, anche se non posso chiedervi di fidarvi della mia memoria.
La corona dello stemma di Rimini sull’arco chiuso della torre dell’orologio nel medioevo era ed è in effetti una corona regale, come quelle che vediamo raffigurate sulle teste e sugli stemmi dei re di Francia o d’Inghilterra o di Spagna e vediamo ancora oggi sulla testa di Cristo che incorona la Vergine con una corona da regina nelle tavole e negli affreschi del Medioevo e del Rinascimento.
La stessa corona nei repertori araldici settecenteschi e successivi è raffigurata come corona marchionale o generica di nobiltà. Nel ‘700 sarà stato così, ma prima no, avrebbe senso pensare che Cristo incorona la Regina del cielo con una corona da marchesa?

A Rimini dunque dal ‘500 all’800 con quella corona sullo stemma si attribuiva alla città una dignità regia. A ‘giusto’ titolo o per piaggeria?

Ipotizzo a giusto titolo. Rimini malatestiana era la capitale di un territorio esteso come due ricche province, ed era governata da un Vicario pontificio per periodi rinnovabili, titolo analogo a quello di Vicerè che poteva vantare il trattamento regio. Ma questo titolo di Vicario non potrebbe essere inteso come Vicario dei Riminesi, ma Vicario Apostolico di Rimini, di Fano, di Senigallia, di Pennabilli ecc.
Bisogna allora prendere in esame i titoli di origine comunale: i Malatesta avevano ricevuto il potere nelle città comunali dai Comuni e dai cittadini con i titoli di “Difensore della Città” e altri, mentre il titolo di “Dominus” – Signore – era un titolo di origine antica che indicava il nuovo potere assoluto dei Malatesta come sovrani. Piccoli sovrani, “Domicelli” come li chiamavano nei documenti i pontefici, tanto per stabilire delle distanze.
Il Comune di Rimini possedeva frammenti di sovranità concessi dagli imperatori Svevi e confermati dai papi; era padrona del suo porto e delle spiagge, poteva erigere castelli, batteva moneta, il consiglio comunale conferiva la nobiltà patrizia e altri piccoli poteri; per metonimia – la parte per il tutto – Rimini poteva considerarsi una città regale o sovrana, e questa sovranità era stata data per acclamazione, con il consenso muto o con la violenza ai Malatesta. Gli Statuti di Rimini registravano questo passaggio di sovranità.
Questo voleva significare Sigismondo Pandolfo, lamentandosi mentre faceva il sediario di Pio II, e significando che lui era un Signore di Città costretto a fare il facchino delle terga pontificie? Insomma Sigismondo Pandolfo ricordava al papa l’altra origine del suo potere su Rimini, come aveva fatto nelle epigrafi greche del Tempio Malatestiano – lui, Dio e la città -? Problemi di storiografia per i futuri Riministi.

L’effetto piramidale delle basi delle torri. Ma Valturio usa l’immagine di “piramidi” per le scarpe o scivoli del fossato.

Incisioni su matrice di legno del De Re Militari di Roberto Valturio.

RIPRESA DELLA DESCRIZIONE DI CASTEL SISMONDO FATTA DA ROBERTO VALTURIO E TRADOTTA DALLO SCRIVENTE: IL PROMURALE O FALSABRAGA

Finisco la prima frase latina della descrizione valturiana sopra citata:

“…pedum quinquaginta, phenestris centum sexaginta supra terram totidemque infra ex oridne per intervalla quedam dimissis, ubi balistae lapidum sagittarumque ad propulsendos hostiles impetus, ac omnem intestinam seditionem si quando contigeret collocentur.”

Traduco qui e di seguito il testo vitruviano, intervallando con titoli in stampatello le parti descritte e tra parentesi quadre le spiegazioni e i commenti:

“…cinquanta piedi, con cento sessanta intermerli sopra terra e altrettante aperture sotto, dove sono collocate le bombarde per respingere gli assalti dei nemici e ogni interna sedizione quando dovesse capitare. La battagliera sulle mura è tanto larga che molti difensori, che si muovono, non si danno fastidio.”

[Interpreto “phenestrae” in due modi: l’apertura tra merlo e merlo, e le bombardiere. Le “aperture basse” potrebbero essere a livello del piano interno, come nel muro a mare del Borgo San Giuliano, opera di Roberto il Magnifico, oppure, come ipotizzava Dino Palloni, nel muro della scarpa. “Balistae” e “tormenta” stanno per bombarde, come si vede scritto nei disegni di bombarde del De Re Militari.
Si direbbe che il massimo dei dispositivi di difesa del castello sia proprio concentrato verso la città, tanto che i Veneziani ritenevano che la rocca non fosse finita perché nella parte esterna c’era solo il vecchio muro della città. Vero è che i nemici avrebbero potuto occupare più facilmente la città e poi assediare la rocca dall’interno. Lo si vide nel 1469 quando le truppe pontificie, che volevano togliere il governo di Rimini a Isotta e a Roberto, non attaccarono il castello ma occuparono prima il Borgo San Giuliano e poi tentarono di entrare in città, guadato il Marecchia, dalla parte della spiaggia, senza riuscirci. Oppure, in un altro famoso assedio, alla fine del 1499 quando le truppe di Cesare Borgia entrarono a Forlì senza combattere, poi misero l’assedio alla rocca del Ravaldino, dove era richiusa Caterina Sforza Riario.]

DIMENSIONI DELLA FOSSA
La prima fossa e interna dove scorre l’acqua di una sorgente perenne è larga cento piedi [piedi romani uguali a m. 29] trentacinque e più di altezza [ m.10].

[Il fossato era diviso in due parti dalle mura urbane; il muro verso il Ponte esiste ancora, quello verso l’Arco fu demolito nel 1905. Nel disegno di Gaetano Stegani la sorgente si vede sbucare dalla scarpa sotto il palazzone del notaio Pelliccioni.]

LA MOLE E LA PARTE POSTERIORE ESTERNA DEL CASTELLO
L’ambito di tutto l’edificio interno, che è costruito con mattoni e con pietre ben tagliate, è di 350 passi [metri 103]; dall’altra parte posteriore, che volge in quadrato, ci sono il pomerio, la strada dentro e lungo le mura, e il muro comunale del castello, verso la città, con un duplice ponte e una larga torre sulla quale “più credibile che a ciascheduno sia”, a sua tutela, con “dispietati” merli e una saracinesca di ferro; più all’interno, uno spazio molto largo e un pozzo con due accessi, e il mirabile ordine delle abitazioni, e presidiata dal suo castellano, prospetta davanti la stessa città.

L’INGRESSO DALLA CITTÀ. DUE TORRI SUL FOSSATO, I PONTI LEVATOI
Nella prima entrata c’è un vallo difeso da guardie con una porta molto piccola; sulla fossa seguono due larghissime torri edificate con non poca industria, la prima verde, la seconda rossa, con due ponti levatoi.

[Il rosso, il verde con il bianco sono i colori araldici dei Guelfi, dei Gonzaga, degli Este e dei Malatesta; qui le torri rossa e verde vanno insieme al color bianco del resto del castello; i colori hanno anche significati teologici: il verde la Speranza, il rosso la Carità e il bianco la Fede. I castelli erano dipinti coi colori araldici.
Ma in Castel Sismondo era rossa, come appare nel dipinto di Piero della Francesca e nei resti di colore sul muro, non la torre sul fossato ma la piccola torre portaia esistente.] con due ponti levatoi.”

L’EDIFICIO CENTRALE O MOLE VISTO DAL PRIMO CORTILE
Passato questo ponte vi è uno spazio ed una certa area, che gira intorno a tutta la mole, che è riempita di terra trasportata per rinforzo del primo muro, poi l’altezza del secondo muro è di 55 piedi [m. 16] la larghezza di 20 piedi [metri 5], e appare di dimensione eminente.

La torre verso il fiume con la scarpa parzialmente scoperta.

LE SEI TORRI
Ci sono sei torri alte 60 piedi [metri 17] dalle fondamenta larghissime, riempite di terra fin quasi al sommo fastigio; nella parte alta e finale di ciascuna torre, meno 19 braccia [metri 8] di muro; dove da ogni parte delle torri vi sono le postazioni dei difensori; vi sono 8 aperture per le bombarde, in tal modo 16 bombarde sono disposte con ordine.

[Le torri sono piene di terra “fin quasi al sommo fastigio”, ma poi devono avere spazio per le cannoniere, allora Valturio si spiega meglio, diminuendo – “altiores” significa “più profonde” perché “altus” è una parola a due sensi – con le 19 braccia profonde, per farci un vuoto dentro. Qui Valturio dice che ci sono sedici bombarde in tutto. I Malatesta già nel ‘300 avevano sugli spalti o in cima alle torri delle aperture ogivali per balestroni e altre armi da tiro, come nel castello di Roncofreddo, o come si può vedere nella rocca di Bertinoro e all’interno del mastio di Gradara.]

La torre portaia con le epigrafi e lo stemma.

LE EPIGRAFI SULLA PORTA E LO STEMMA
A destra, nel mezzo di questo muro, si vede un’epigrafe ornatissima di marmo di forma quadrilatera, incisa con lettere d’oro in sequenza di versi, indica e celebra Sigismondo Pandolfo costruttore di tutta la mole; sulla parte destra della mole a quelli che entrano si presenta una porta piccola, di marmo sotto un velo di colore, di straordinaria fattura, ammirevole nei dettagli; sopra la quale l’elefante di alabastro indiano, antichissima insegna dei Malatesta, con molto oro luminoso, è affiancato dal nome espresso da alcune lettere maiuscole del suo signore Sigismondo Pandolfo.

Lo stemma delle bande staccate e il cimiero dell’elefante con la corona regia alla gola.

L’epigrafe col testo di Roberto Valturio.

[Le epigrafi in caratteri umanistici sono tre, una sulla porta, una sul fianco esterno del palazzo di Isotta, e una sulla facciata della torre verso il ponte; il testo:
SIGISMVNDVS. PANDVLPHVS. MALATESTA. / PAN[DVLPHI]. F[ILIVS]. MOLEM. HANC. ARIMINENSIVM. / DECVS. NOVAM. A. FVNDAMENTIS. EREXIT. / CONSTRUNXIT. QUE. AC. CASTELLVM. SVO. NOMINE. SISMVNDVM. APPELALRI. CENSVIT. / M.CCCC.XLVI

Sigismopdno Pandolfo Malatesta figlio di Pandolfo questo nuovo edificio, onore dei Riminesi, eresse e costruì dai fondamenti, e col suo nome decise di chiamare Castello Sismondo. Si faccia caso che ha nominati i Riminesi, presunti detentori della sovranità comunale trasferita ai Malatesta, non Rimini di cui era sovrano il pontefice.

Augusto Campana riteneva Roberto Valturio autore dell’epigrafe.

L’elefante con la corona regia alla gola è nel cimiero dell’elmo soprastante lo stemma malatestiano delle bande a scacchi rossi e oro su campo argento – resa araldica astratta di tre torri su un declivio a banda, esistente al naturale a Verucchio, Pennabilli, Casteldelci – una bordura a triangoli oro e nero, segno araldico imperiale piuttosto misterioso, circonda lo scudo. Il cimiero usato da Sigismondo Pandolfo è quello del padre Pandolfo III. La corona regia è presente anche nei cimieri dello zio Carlo, sopra la testa dell’elefante e su uno dei cimieri dello zio Andrea, che sono i primi Malatesta a sfoggiare una corona regia e Sigismondo Pandolfo è l’ultimo. Carlo commissiona una “Regalis Historia” per inventare una leggenda bianca sulla casa Malatesta, – con l’invenzione della discendenza scipionica, suggerita forse dal Petrarca Pandolfo II suo amico cugino di Carlo, Pandolfo III e Andrea -; fino a quel momento, da Dante in poi, I Malatesta erano stati oggetto di una spietata leggenda nera.
La buona fattura dello stemma lo ha fatto attribuire a Pisanello – Pier Giorgio Pasini, Gabriello Milantoni – o a Matteo de Pasti veronese come il Pisanello. Lo stemma comprende anche la rosa quadripetala e quadrisepala ritenuta impresa degli Scipioni. Ai lati dello stemma una stretta elegantissima epigrafe in caratteri gotici veneziani rilevati e molto allungati presenta il nome Sigismondo Pandolfo. La doppia natura culturale del Malatesta appare in quest’uso contemporaneo di scrittura gotica e rinascimentale.]

LA “REGGIA”, L’ABITAZIONE DI SIGISMONDO PANDOLFO
Un certo muro di mezzo, con un’intercapedine a metà di tutto il luogo, divide a metà la rocca e i suoi due castellani con la loro area di competenza, con un pozzo e una casa di fabbri; presso il quale muro si trova la tua sublime reggia, non altrimenti con una base quadrilatera dai fondamenti larghissima, e con chiusura di tre porte piccole, con saracinesche sospese, e minacciose opere di difesa e un pozzo profondissimo; col castellano e una sua ampia residenza, e un pozzo profondissimo.

[Questo muro di mezzo con l’intercapedine potrebbe esser il muro di confine della mole interna verso i monti, costruito sopra il muro romano, confinante con il prato dietro.]

L’ARSENALE E LA PARTE PIÙ ALTA DELLA ROCCA
C’è una scala a chiocciola elegantissima per salire all’armeria, piena di gran quantità e ogni genere di frecce e proiettili, mirabile per incombente altezza e potenza, che [dalla parte più alta] supera le cime dei monti e si estende lontano sulle superfici marine.

CASTEL SISMONDO UNA DELLE MERAVIGLIE D’ITALIA
Finalmente non posso tralasciare ciò che fin dall’inizio avevo stabilito di dire, che Castel Sismondo sia non solo salvezza e tutela della città di Rimini, ma vera meraviglia della magnificenza d’Italia.

[L’eccellenza italiana di Castel Sismondo verrà ripetuta in fine descrizione. Credo che debba essere presa sul serio, per quanto un’architettura ossidionale che chiudeva la transizione non sarebbe stata a lungo una meraviglia d’Italia.]

PASSAGGI SEGRETI
Infatti la residenza nel mastio è pensile e ha molti percorsi e luoghi segreti, dai quali possono essere introdotti dall’esterno in città eserciti armati attraverso passaggi segreti, senza che alcun cittadino residente li senta, in modo che il castello possa essere immune da ogni assedio esterno e dalle intestine sommosse.

LA FOSSA, IL PROGETTO DI UNA GRANDE MENTE E DI UN ECCELLENTISSIMO INGEGNO

Con acqua da irrigare in due tempi [uso “altera” come l’avverbio “alteras” per “alias”] dal di fuori gira intorno al castello una larghissima fossa, invenzione senza dubbio di una grande mente e di un eccellentissimo ingegno.

LA FOSSA LUOGO DI COMBATTIMENTO

Ben ordinata dall’una e dall’altra parte, la rocca è poi fermissima per lunghissimi muri con postazioni difensive e argini, con torri fortissime, con strette bombardiere, come già detto, fino al livello dell’acqua e del suolo e con sufficienti postazioni dei difensori, con piccole bombardiere e saettiere ordinatamente disposte, con tanta solidità. E tanto stupore provoca per la disposizione dell’interspazio tra l’una e l’altra fossa delle postazioni per contenere fanti e cavalieri, e per liberarla dalla possibilità che i colpi delle punte degli arieti e l’impeto delle bombarde possa distruggerla. E rimane incerto se gli uomini ammireranno la fortificazione di questo luogo per la parte più di sicurezza che non per la bellezza.

[E questa mia è certamente una traduzione mirata alla dimostrazione dell’astuzia nascosta nel fossato, ma non del tutto inventata. Ho tradotto “tam mirifica utriusque fossae interstitii habitationum depsositione ad peditum omnem equitatumque continendum” mantenendo il significato di “interstitii” spazio tra le due fosse, e traducendo “habitationum” con “postazioni”. Un’altra possibile versione in italiano avrebbe tradotto “interstitii” come allusivo a “spazi di risulta” presso le due fosse per contenere le abitazione dei fanti e cavalieri. Preferisco la prima. Ma sono ben cosciente che presenta delle difficoltà. Ci si può chiedere come facevano fanti e cavalieri ad appostarsi nell’acqua e nel fango e poi come entravano ed uscivano nel fondo della fossa? Alla prima domanda si può rispondere che il fossato aveva due tempi di utilizzo durante un assedio. Primo uso: quando molti attaccanti erano scivolati o discesi con scale dentro il fossato, venivano attaccati da fanti e cavalieri appostati o entrati all’ultimo momento dentro il fossato. Sì, ma entrati da dove? Solo gli scavi ci mostreranno se nelle scarpe ci sono porte ampie per far uscire ed entrare i cavalieri. Come già detto, nelle falsabraghe gli interspazi tra mura alte e basse erano usati proprio per queste operazioni belliche. A Rimini erano previsti sotto il suolo della piazza d’armi nescosti dentro il fossato?

Notevole anche l’elemento estetico, per la seconda volta Valturio afferma che Castel Sismondo è bello. Credo che vada preso sul serio.]

La parte posteriore del castello.

DEDICATO AI LATINISTI: TRASCRIZIONE DELLA PARTE FINALE DELLA DESCRIZIONE DI CASTEL SISMONDO NEL LATINO DEL VALTURIO E NEL VOLGARE DEL RAMUSIO

Tanto per rendere manifesta la difficoltà del testo latino e della sua prima traduzione in italiano. Magari però a un bravo latinista verrà voglia di tradurlo e di stabilire la validità o l’erroneità della mia traduzione. Sono sicuro che Claudio è disposto a pubblicare una buona traduzione.

“Tota namque mole pensilis quum sit plurimos aditus atque recessus habens et a quibus armati exercitus urbem versus per abditos specus educi possunt: nullo incolentium civium percipiente: quoque ab omni esterna oppugnatione intestinaque inuiria esse queat immunis: altera estrinsecas late patens instar similiter amnis irrigua circumfluit fossa magnae mentis et praecellentis ingenii opus sane utrinque enim per ambitum latissimis est firmissima muris cum propugnaculis et aggeribus: Densissimis deinde turribus a fundamentis errecta: angustisque ut supra munita phaenestris aqua ac terrra tenus cum defensorum habitaculis parvis machinis ac sagittariis eque dispositis tanta firmitate tam mirifica utriusque fossae interstitii habitationum dispositione ad peditum omnem equitatumque contingendum ut dissolvere eam nec crebi arietum impulsus quaeant: nec metallicae vis ulla machinae possit diruere: inertumqe munimentum loci huius ne tutius an pulcritudo plus adimirationis apud homines sit habitura.”

Ramusio:

“In po che tutta la grandecia de l’edificio essendo pendente molto loci da entrare et da partirse havendo et da quelli gli eserciti armati ver la citade per gli occukti speci fuori condure se puono: niuno de gli habitanti citatini udendo; anchore da qualunque bataglia forestiera et iniuria di quelli che sono in la citade possi esser libera, una altra aqua di fuori largamente patente a semilianza di uno fiume in la madida fossa da cerco discorre: di uno grandemente excellente ingengno certo opera: de qualunque paret certamente per il circuito di largissime mura e firmissima cum gli lochi da combattere et arzeri cum spisse torri dopoi dal le fundamente edriciata: et di stritte fenestre come e disopra fornite infino a la aqua et terra cum de gli defensori le habitationi con le pichole machine et dactatori equalmente ordinati cum tanta fermecia et cum tanta maravegliosa di l’una e l’altra fossa dil spacio de le habitationi la dispositione ad tenere tutta la gente da piedi et da cavallo che dissolvere quella ne le spesse de gli arieti bote possino ne de la metallica machina forcia alcuna ruinare et non se può sapere se le munitioni di tutto questo loco over la beltade mazore maraveglia apresso agli homini sia per avere.”

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