“Per fare il bene non serve nessuna ideologia”. Nei giorni scorsi si è letta questa dichiarazione attribuita a Vittadini. Mentre Corsera, nella intervista a Carron, ha scritto che "il movimento assapora i vantaggi del buonismo". Parliamone. Con qualche riferimento a don Luigi Giussani.
Ne “Il Senso Religioso” ci sono due passaggi in cui Giussani parla di inevitabilità, ma anche utilità e valore, dell’ideologia.
Nel primo, a pag. 11, Giussani dice che l’uomo non può rifarsi alle esigenze elementari del cuore (verità, libertà, giustizia ecc.) se non formulando un PROGETTO (una visione del mondo, un’ideologia) in grado di modificare la realtà a partire da quelle esigenze.
Nel secondo, a pag. 129, dice che, quanto più uno è umanamente ricco, tanto più è capace di PRECONCETTI e quindi di ideologia, come specificato subito dopo.
L’ideologia insomma è parte costituiva e inevitabile del vissuto, così come è doveroso il tentativo di superarla in un confronto con la realtà (vedi la teoria del rapporto teoria-prassi in Marx) che ne permetta l’inveramento.
Dire allora come fa Vittadini (o come forse gli fa dire il giornalista de Il Sussidiario) che “per fare il bene non serve nessuna ideologia”, è doppiamente scorretto oltreché infantile.
Primo perché l’evoluzione dell’ideologia (in quanto approssimazione asintotica alla verità) è il sale dell’esistenza, secondo perché “fare il bene” è l’ultima delle preoccupazioni di Giussani.
Il quale, in un passaggio della sua biografia, dice esplicitamente che tutto ciò che egli ha fatto, creato o “fondato” è sempre stato per “desiderio di conoscere”.
Ovvero, desiderio del vero.
Da questo punto di vista (cioè dal punto di vista del cambiamento di pelle di CL e del Meeting) si può comprendere tutta la perfidia dell’articolo comparso sul Corriere, a firma Dario De Vico, che così dice a partire dalla fenomenologia del Meeting stesso:
“…spostare oggi l’accento dall’”io” al “tu” non è operazione da poco… nell’estrema confusione di una modernità che ha perso il suo senso di marcia, Carron predilige mettere l’accento su tutto ciò che può unire. Ponti, cuciture e dialogo sono le parole del momento… mentre il movimento assapora i vantaggi del buonismo…”
Laddove la parola “buonismo” è uno sberleffo bello e buono lanciato in faccia a chi, nell’ansia di sdoganarsi, secondo il giornalista eccede in moralismo acefalo, omologato al mainstream dominante.
La critica di De Vico è sferzante anche dal punto di vista d’una “mutazione genetica” che rischia di rottamare quella dimensione culturale su cui Giussani tanto insisteva.
Prova ne sia il totale fraintendimento d’un concetto di politica da Giussani intesa come “forma compiuta di cultura”, in quanto superamento della prigione ideologica in cui tutti, politici e no, credenti e non, inconsciamente o meno, ci rinserriamo.
In questa avventura del significato, in questo lavoro di scavo critico, in questa ascesi di tipo conoscitivo, non etico, potrebbe consistere il contributo d’un cristianesimo non ridotto al miraggio dell’egemonismo o alla testimonianza personale.
Come dice ancora Giussani, “Laico, cioè cristiano”, non (come in genere viene inteso e frainteso) “Cristiano, per ciò stesso laico”.
Nel senso che tutti, laici e cristiani, siamo alla pari in quel processo di escussione del vero che solo attraverso l’erosione dell’ideologia (vedi Althusser) riesce alla liberazione.
Altro che “fare il bene” illudendosi d’esserne magicamente liberi solo in forza del carisma incontrato.
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