Lo sfalcio sugli argini dei fossi non lo fa più nessuno, così dicasi delle briglie di contenimento. La montagna è abbandonata a sé stessa, l'agricoltura non ha più ruolo perché non è più economica e il risultato è questo: al mare arriva di tutto. Serve un'unica figura a cui affidare lo stato di salute dei fiumi dalla sorgente alla foce. E poi il ruolo dei Consorzi di bonifica e il grande tema, che continua a non essere affrontato: quello della captazione dell'acqua nei periodi di grande abbondanza. Sul Marecchia ci sono tre cave che potrebbero contenere 10 milioni di metri cubi d'acqua. Intervista a Enrico Santini.
Eletto nel 1984 come più giovane (36 anni) presidente italiano di un Consorzio di Bonifica e in seguito presidente del C.E.R. (Canale Emiliano Romagnolo), carica che ha rivestito fino al 2010, Enrico Santini chiarisce subito che è tuttora un socio (l’unico, a titolo privato) dell’A.N.B.I., associazione che rappresenta i Consorzi di Bonifica. Questo, a certificarne l’intramontabile passione. Come tiene a precisare, “Bonifica significa sostanzialmente bonum facère, fare bene il proprio lavoro. E ciò ci viene dall’eredità della bonifica”.
L’introduzione ci dà il carburante giusto per partire con la prima domanda. Gli chiediamo un parere riguardo le recenti “migrazioni” di alberi, rami, tronchi e detriti vari, comprese variopinte plastiche micro e macro, tutti scesi in allegria verso il mare, sospinti dalla corrente, in genere placida, del Marecchia.
“Quello che è successo”, attacca, “è la dimostrazione evidente dell’incuria, e non voglio usare espressioni più forti, che abbiamo nei confronti dell’ambiente, dando per scontato che oggi la questione ambientale più che mai è di attualità e più che mai deve unire le varie anime e le ideologie, se ancora ce ne sono. Intendo dire che se non affrontiamo la questione ambientale insieme, credo che il futuro ci riserverà sorprese amare”.
Non c’è condivisione di intenti tra le maglie del tessuto socio-politico? E’ questo il problema?
“Andando sullo specifico, la situazione che si è creata dopo due giorni di pioggia intensa, alla quale purtroppo ci dobbiamo abituare, non ci consente di perdere di vista neppure per un attimo il categorico impegno di prevenirne i risultati. Vedere quello che è successo a mare è la dimostrazione più eclatante di quello che non si fa a monte. Il mare e la pianura sono le risposte concrete della totale mancanza di prevenzione nell’alta collina e nella montagna. Di coesione socio-politica, nella fattispecie ne colgo poca.
“Quando inizieremo ad ascoltare gli amministratori dell’entroterra e i Comuni dell’alta Valmarecchia, sarà già troppo tardi perché i danni dei dissesti della montagna, della collina e del fiume ricadranno in pianura e sulla costa.” Questo concetto lo afferma Stefano Zanchini, sindaco di Novafeltria. Gliene sono grato. Lo stesso pensiero è sostenuto dai responsabili di quell’entroterra, di cui ci riempiamo la bocca quando ci fa comodo, che continuamente vengono trascurati, se non addirittura emarginati dal potere centrale”.
I sindaci dei paesi-gioiello dell’entroterra, sono quindi in costante affanno finanziario?
“I sindaci vivono una situazione Kafkiana perché devono fare rispettare divieti e vincoli, senza poter discutere di quello che è invece il motivo del loro costante lavoro nei confronti del territorio. Non si può valorizzare la montagna solo a parole; bisogna rendersi conto di quelli che sono i fatti e soprattutto le condizioni. Spesso vado nel Montefeltro, dal momento che è un territorio incredibilmente bello tanto che solo un poeta come Tonino Guerra poteva descrivere da par suo un’immagine di queste bellezze. Tuttavia, ragionando sul concreto, gli interventi di sistemazione, di preservazione e cura del territorio, li vedo completamente assenti.
I Comuni, chiaramente, dal punto di vista economico non hanno forze adeguate per sostenere certe operazioni. La tassazione oramai ricade su un numero sempre più esiguo di cittadini e gli interventi, come è nella logica, vanno preventivati. Di fatto, lo stato di salute del Marecchia peggiora di giorno in giorno, di anno in anno, senza che nessuno si assuma la responsabilità e soprattutto l’attenzione nei confronti di ciò che si può e si dovrebbe fare. Un esempio: il legname che è arrivato in spiaggia, nei mesi e negli anni passati andava raccolto, stoccato piano piano, giorno dopo giorno. Queste erano le consuete pratiche giornaliere del contadino. L’intero mondo rurale ha subìto un cambiamento profondo e talvolta le ripercussioni sono risultate laceranti per l’ecosistema. Mi riferisco non solo a quello locale, ma nazionale.
Concretamente, non c’è più nessuno che si occupi dell’idrologia minore, dei fossi, dei canali delle piccole manutenzioni quotidiane che contribuivano a far sì che la terra, all’occorrenza, fosse pronta a ricevere fenomeni come le piogge intense di questi giorni. E’ anche evidente che più cementifichiamo, maggiore rischio idraulico e geologico produciamo. E’ da anni che i geologi si spolmonano per metterci in guardia”.
Stiamo raccogliendo i frutti avvelenati di una politica ambientale distratta, per usare un eufemismo?
“L’ambiente avrebbe bisogno di una sorveglianza capillare da parte di soggetti tipo il Consorzio di Bonifica, ma nella strutturazione operativa di un tempo. Molti dei nostri migliori operai provenivano dalla Valle dell’Uso perché avevano una conoscenza del territorio, di quella parte del Montefeltro e non solo, che permetteva loro di anticipare ed essere efficaci negli interventi. Sarebbe necessario un responsabile di circoscrizione che ad esempio possa essere allertato sui problemi dall’utenza, in tempo reale. Quindi: uomini, mezzi e tecnologia. Si pensi solo all’odierno utilizzo dei droni che danno possibilità di segnalazioni e interventi rapidissimi. Conosco la realtà sociale e politica di questi luoghi e il Marecchia, argomento dal quale siamo partiti con il ragionamento, è porzione integrale del reparto ecologico locale. Esso rappresenta un’immensa risorsa con un potenziale notevole. Il fiume tosco-romagnolo trasporta al mare 300 milioni di metri cubi di acqua all’anno. Un’enormità. E il pensiero corre ai paesi che combattono giornalmente con la sete…”
In periodi di grande abbondanza (vedi questi giorni) non sarebbe bene creare riserve di “oro blu”?
“Certo. Quell’acqua va utilizzata al meglio, specialmente nei periodi di siccità. Da sempre i Consorzi di Bonifica (ma anche io l’ho sempre fatto personalmente) conducono una battaglia sulle possibilità di captazione dell’acqua. Sul Marecchia ci sono tre cave che potrebbero contenere 10 milioni di metri cubi d’acqua; equivalgono grosso modo a un terzo della potenzialità di Ridracoli (ndr: la diga artificiale del Fiume Bidente di Ridracoli e del Rio Celluzze. Dagli anni ’80 fornisce acqua a circa un milione di persone della Riviera Romagnola e della pianura delle province di Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini). Averli a disposizione, anche in estate, tutti quei metri cubi rappresentano una risorsa fondamentale dal punto di vista agricolo, naturalistico e della bellezza ambientale. Per diversi motivi, per i quali non mi voglio più spendere in quanto è la politica che deve sbrogliare certi nodi, noi siamo ancora all’anno zero. Le tre cave, prodotte dagli sconsiderati scavi effettuati già molti anni fa, andrebbero adoperate per stoccare le acque captate dal fiume durante i periodi in cui abbondano. E’ chiaro che le cave andrebbero curate, rese impermeabili; logicamente c’è tutto un lavoro dietro, necessario per renderle operative”.
Per caso, i bacini non sono stati realizzati perché la spesa è sproporzionata rispetto ai benefici?
“No, il problema non è questo. Mi permetto di fare una considerazione: dal momento che la risorsa idrica è un patrimonio comune, non può esistere che l’acqua venga utilizzata da privati e/o da aziende definite “multi utility”. Ci sono soggetti che fanno bilanci strepitosi con eclatanti risultati economici su una risorsa che è squisitamente pubblica. Se si valutano i bilanci di Hera, tutti gli anni si possono notare performance stupende. Semplice: lavora in regime di monopolio con i prevedibili benefici che ne conseguono. Ma torniamo alle cave dove noi andavamo a stoccare l’acqua fino a qualche tempo fa. Gli amministratori di qualche comune limitrofo, vedi il Comune di Santarcangelo, giusto per fare nome e cognome, pensava addirittura di “ritombarle”. Proponevano di chiuderle con la terra. Noi suggerivamo di metterci invece l’acqua, elemento di grande valore, ma per interessi sui quali altri devono elaborare eventuali valutazioni, la proposta non venne considerata. Credo semplicemente che allora, a livello politico, non si poteva dare fastidio al “conducente del vapore”. Ridracoli doveva essere l’unica grande protagonista: non si voleva tenere in conto la realtà del nostro territorio. Io non sono un geologo e nemmeno un ingegnere idraulico, ma sono un uomo di bonifica che di queste cose si è sempre interessato e adoperato. Lo stesso dicasi per la pulizia dei fossi consortili che se non viene effettuata con regolarità, alla fine qualcuno paga. Duramente. C’è una serie di enti, Consorzio di Bonifica compreso, che suddividono il territorio in competenze e quando si presenta “il problema” si gioca al solito “rimpallo” italico: non esiste un’autorità unica sicché le responsabilità sono decisamente frammentate; e questo serve all’uno per scaricarle sull’altro. Si perpetua in tal modo un fenomeno tipico del Bel Paese”.
Quindi, quale dovrebbe essere la ricetta giusta per non continuare a incorrere nelle stesse sventure?
“Se esistesse un’unica figura a cui affidare lo stato di salute del fiume dalla sorgente alla foce, allora si potrebbe cominciare a ragionare. Un fiume va mantenuto nelle condizioni migliori. Tutti i giorni dell’anno, sia chiaro. Andate a vedere com’è ridotto il Marecchia: ci sono svariati “canion erosivi”. In ultima analisi, vedo che nei confronti di questo fiume non esiste un progetto importante, coinvolgente e politicamente sostenuto, ad esempio, dai Comuni che ne hanno maggiormente titolo. Questi dovrebbero averne la responsabilità dalla sorgente alla foce, ma anche la facoltà economica (a carico della Regione, a mio parere) di dire: queste sono le cifre a disposizione per interventi ambientali che tengono conto delle tecniche più avanzate di captazione, di attenzione, di impatto diverso. Personalmente sono contro la cementificazione, ma anche contro coloro che dicono “lasciamo le cose come stanno perché la natura ci pensa da sola”. Ci deve essere una sempre valida via mediana. Un fiume va tenuto con grande riguardo e altrettanta attenzione, ma deve esserci anche larga disponibilità di intervento. In più serve informazione; giustamente l’utenza vuole sapere come si spendono i denari. Gli utenti non hanno percezione di dove vadano a finire i loro soldi perché la comunicazione è assente”.
Voi, come Consorzio di Bonifica facevate una comunicazione adeguata?
“Senz’altro. Ero sui giornali almeno una volta al mese. Portavo motivazioni e fatti a supporto delle spese effettuate. La pulizia del deviatore sul Marecchia, per esempio, la fa il Consorzio di Bonifica. Ai cittadini va riferito; tanto più che oggi ci sono strumenti efficacissimi per farlo e infatti ci sono Consorzi che hanno investito in comunicazione: tu apri Facebook, apri le pagine dei giornali on-line e l’Ente ti dice le operazioni che ha effettuato, vedi i mezzi adoperati, vedi gli operai, i tecnici, gli ingegneri che ti illustrano (la loro funzione è anche questa) che la loro missione è di sottrarre l’acqua quando è in eccesso e invece portarla quando manca. Che poi questo, sostanzialmente, “è” la bonifica. Ma per concludere: lo sfalcio sugli argini dei fossi non lo fa più nessuno, così dicasi delle briglie di contenimento, la montagna è abbandonata a sé stessa, l’agricoltura non ha più ruolo perché non è più economica e il risultato è questo: al mare arriva di tutto. Si aggiunga che i Consorzi di Bonifica nei confronti del territorio non hanno più quella capacità di spesa e di intervento che avevano negli anni ’50, ’60, ’70 fino ad arrivare ai primi anni del 2000. L’ultimo grande intervento che abbiamo avuto è stato sulla finanziaria del 2002/2003 quando ci è stata messa a disposizione la cifra di 170 miliardi di lire per portare le derivazioni del canale emiliano-romagnolo. 40 miliardi li ha forniti Romagna Acque, abbiamo lavorato su 200 miliardi che significano, a monte e a valle, circa 500 miliardi di lavori. Se queste “grandi opere”, e le bonifiche sono state sempre interventi di grande spessore anche economico, in Italia sono state abbandonate, poi non possiamo lamentarci dei risultati. Ci vogliono le idee, la forza di imporle, serve la possibilità di sapere a chi rivolgersi: serve, per molti settori vitali per il sistema ambientale, un unico Ente operativo. E che ne risponda in prima persona. Bisognerebbe tornare alla sacrosanta Regola benedettina ora et labora che aveva un senso in quanto esortava ad avere cura del territorio con il lavoro e la preghiera. Ora non si prega più e neppure si ha cura del territorio.”
Con il cognome che porta, Santini deve avere qualche aderenza in Alto Loco. Forse è sperabile che qualcuno colga i suoi suggerimenti…
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