«Il mio lavoro? Più che fare uscire i giovani dalla droga, è farli entrare nella vita», parla Silvio Cattarina

«Il mio lavoro? Più che fare uscire i giovani dalla droga, è farli entrare nella vita», parla Silvio Cattarina

Liberalizzare le droghe? «Ma più libere di così! Di droga in giro ce n’è fin troppa». La pandemia ed ora la guerra che entra ogni giorno nelle nostre case hanno aumentato soprattutto nei giovani un senso di angoscia e spavento. «I ragazzi devono scoprire che la realtà che sta loro intorno contiene un ‘fuoco’ che alimenta la loro voglia di vivere e il loro desiderio di felicità che neanche il più potente surrogato possono donare». L'incontro con Paolo Cevoli, il dialogo con David Sassoli al Meeting di Rimini. Intervista al fondatore della comunità "L'Imprevisto".

La pandemia e il “distanziamento” che ci è stato imposto e ora la guerra hanno diffuso ancor di più l’uso delle sostanze stupefacenti tra i giovani. La droga, al contrario di quanto si possa pensare, si trova peraltro con sempre più facilità e a prezzi accessibili. Fino allo scoppio della guerra, la scena pubblica era stata monopolizzata dal virus ma il disagio esistenziale ha aumentato a dismisura il “contagio esistenziale” tra i ragazzi. Per questo abbiamo voluto di nuovo intervistare Silvio Cattarina (nella foto) che da oltre 40 anni viene a contatto con minori con problemi di tossicodipendenza e da 32 anni dirige “L’Imprevisto”, una comunità a Pesaro che dal suo nascere ha ospitato circa 1300 ragazzi. Prima aveva lavorato coi ragazzi per una decina d’anni tra Gradara, in una comunità fondata da don Gianfranco Gaudiano, e poi a San Carlo di Cesena.
Riprendendo un dialogo sul problema della dipendenza e delle comunità di recupero abbiamo voluto partire dal giudizio che il responsabile ultimo dell’Imprevisto ha sul pronunciamento della Consulta che, qualche tempo fa, ha respinto il referendum sulle cosiddette droghe leggere. Ma Cattarina offre sul pronunciamento della Consulta un giudizio sorprendente per diversi aspetti: «Si tratta di un pronunciamento molto tecnico e sofisticato basato sulle parole, quasi un bizantinismo. Il vero problema è quello che viene prima e cioè la ragione per cui tanti ragazzi, ma non solo loro, ricorrono alla droga. La vera grande questione non è la droga in sé ma la “questione educativa”. Giusto o no legalizzarla? Ma più libera di così! Di droga in giro ce n’è fin troppa; se ne trova così tanta dappertutto! Fra l’altro costa poco, sempre meno e di ogni tipo. E non è vero inoltre che si va in carcere per l’uso».

Tu non sei un medico, non uno psichiatra o uno psicologo, non sei un prete: ma chi è Silvio Cattarina?
«Io sono trentino d’origine ma sono venuto a studiare in un collegio a Pesaro, collegio da cui sono stato espulso e in quel periodo ero piuttosto solo. Sono stato accolto da tante famiglie e ho girovagato in diverse case. Forse la mia vocazione di accoglienza affonda le radici nella stessa accoglienza che mi fu donata allora e che in forme nuove continua ancora oggi nei legami d’amicizia che ha generato. Sono un educatore, così come per la verità ogni persona, ogni genitore, ogni lavoratore dovrebbe essere. Non conta la targhetta che hai sulla porta dell’ufficio o il luogo dove lavori. Non c’è cosa più bella per tutti che essere padri o madri. Meglio sarebbe dire che tutti dobbiamo trovare padri e madri e diventare poi padri e madri di altri. Il grande problema della scuola oggi non è che l’insegnante sia un bravo trasmettitore di nozioni e competenze in specifici settori ma che diventi, in qualche modo, “figura genitoriale” capace di far venire fuori dai ragazzi l’invito che la realtà porge loro e che spesso resta inascoltato. C’è un grande desiderio annidato nel cuore dei ragazzi. A cui sembra che niente e nessuno sia capace di rispondere».

Negli ultimi anni la scena pubblica è stata assediata dal tema della pandemia e della diffusione del virus che solo recentemente ha lasciato il posto alla guerra nelle prime pagine e nei Tg. La tossicodipendenza tra i giovani c’è ancora? In che misura?
«La situazione dell’uso delle sostanze è anche peggiorata, perché le persone sono sempre più sole. La pandemia ha incrementato ancora di più il distanziamento e l’estraneità anche se il timore e la paura di incontrare le persone, l’isolamento e l’emarginazione da sempre caratterizzano il nostro mondo. I giovani soprattutto sono stati assaliti da una grande angoscia e spavento. Anche prima della pandemia, per la verità, tanti ragazzi pensavano che fosse sufficiente rimanere “collegati” ore e ore davanti al computer. Oggi ancora di più questo ha impoverito oltre ogni dire la nostra umanità. Che invece solo con il dialogo e il “contatto” può esprimersi compiutamente e crescere. Non ci si guarda più neppure in faccia; serve non solo guardarsi ma che la parola mia arrivi all’altro e viceversa che la parola dell’altro arrivi alle mie orecchie. La vita è un grande “ingaggiamento”, una lotta che devi affrontare e a cui devi rispondere. Invece i giovani che approdano in comunità, ancor prima del lockdown veramente, hanno l’abitudine di alzarsi dal letto nel pomeriggio inoltrato in modo che non ci sia bisogno di fare i conti con la realtà quotidiana. Ma per ciascuno di loro e di noi il vero problema è quello di capire il senso, la ragione per la quale sono al mondo (lo stesso problema mio, tuo e di tutti). Anche la guerra allarga lo spazio dello smarrimento: non solo i ragazzi ma anche in noi adulti questo fenomeno allarga lo sgomento di chi non vede intorno niente e nessuno su cui fare affidamento; di cui essere sicuri. Così si diventa diffidenti verso la realtà, che è “nemica” e “matrigna”; anziché essere “madre” e così rivelare la ricchezza di una ragione positiva di vita».

Nella tua comunità tu esigi un netto distacco dalle abitudini precedenti: famiglia, amicizie e affetti. Questo metodo come si concilia con la libertà personale? E come reagiscono gli ospiti di fronte a queste regole ferree?
«All’inizio togliamo tante cose, è vero: cellulari, musica, uscite. Ma non si tratta di punizioni. Loro sono i primi ad ammettere che è molto meglio così: non solo si riesce benissimo a fare senza ma c’è più possibilità di “essere sé stessi” e di essere riflessivi e consapevoli. Il distanziamento umano e relazionale e la solitudine spaventosa di questo nostro tempo risalgono a prima della pandemia ma questa ha accentuato fino all’inverosimile il fenomeno. Le rinunce che chiediamo non sono punizioni, ripeto, ma sono motivate dalla necessità di imparare a tenere conto di più su altre cose e cioè sul loro cuore e sui loro più grandi desideri. Perché imparino ad essere consapevoli del valore della propria e altrui persona. Altrimenti pensano, come tanti, che il valore della persona risieda in ciò che “hanno in mano”. Il valore risiede invece nel proprio cuore e desiderio. È nella speranza che è in loro. E nella capacità di esprimere questa speranza e questo desiderio, magari “gridando” anche a Dio. Il capire quanto ognuno sia chiamato a “grandi cose” chiede inoltre, non solo a loro ma a tutti, un grande sacrificio».

Quindi i ragazzi esprimono una vera soddisfazione? Come possiamo inoltre definire il tuo metodo di affronto delle ‘dipendenze’?
«Direi che più che farli “uscire dalla droga”, credo che si tratti di farli “entrare nella vita”. Provo a spiegarmi con un esempio che ripeto spesso. Un giorno un ragazzo mi dice: “Silvio, ho scoperto la cosa che più fa soffrire nella vita”. Si trattava di un ragazzo di Napoli molto diretto ed esplicito. “Dimmi cosa” gli rispondo. “Avere una ragazza che tu ami tantissimo ma non sai come dirglielo: questa è la cosa che più fa soffrire nella vita”. Sono rimasto meravigliato e commosso e gli ho detto che aveva scoperto una cosa davvero grande e bella, al ché ha continuato: “Si è proprio così poi – faticando a trovare la parola ha continuato – tu non sai dirle il ‘perché’ la ami tanto”. Un ragazzo che non sa dire alla sua ragazza quanto e perché la ama è un ‘ragazzo povero’ (ho fatto questo esempio anche a Sassoli, col quale mi sono trovato insieme come relatore ad un incontro del Meeting di Rimini). Un ‘ragazzo povero’ è quello che non sa stare con coraggio e forza di fronte alla vita. Ha dentro ‘tutto’ nel suo cuore ma non riesce a tirarlo fuori, non riesce a dirlo. Questa è la povertà che fa stare male, molto male. Non è la droga che fa stare male. È invece il desiderio di vita che abbiamo dentro e che non riesce ad esplodere».

Quindi il metodo che tu utilizzi coi tuoi ragazzi, anche se chiede loro tante rinunce, punta sulle risorse che ognuno ha nel proprio io? Come ti vedono i ragazzi come leader o capo della comunità? E come vedono anche i tuoi collaboratori nella loro funzione di responsabilità?
«Sì. Io dico sempre loro: quello che fate qui non deve essere utile solo a voi ma deve servire a tutto il mondo. E nello stesso tempo voglio evitare che passino semplicemente da una ‘schiavitù’ (droga, altre sostanze o errori e mancanze individuali e sociali) ad un’altra (comunità, rapporti personali esclusivi ed escludenti, malati di possessività). Anche per questo mi rivolgo spesso a loro così: “Non guardate me, guardate piuttosto nella direzione dove anche io guardo”. Questo vale anche per rispondere a come i ragazzi vedono i responsabili. Il capo non deve ‘legare a sé’ ma deve saper lanciare i ragazzi verso il mondo non con le braccia davanti al volto ma a braccia aperte e pronte. Si tratta di un atteggiamento che li responsabilizza e li libera: i ragazzi devono scoprire che la realtà che sta loro intorno contiene un ‘fuoco’ che alimenta la loro voglia di vivere e il loro desiderio di felicità che neanche il più potente surrogato (che ne so: la droga, i soldi, il sesso, il potere) possono donare».

E già da qualche anno che coltivate rapporti anche con personaggi ‘fuori dal giro’, per esempio con Paolo Cevoli. Come e perché è nato questo rapporto?
«L’incontro con Paolo Cevoli è stato fortuito, per caso. Eravamo stati chiamati, io e alcuni miei ragazzi, a fare una testimonianza in montagna ad un gruppo in vacanza a La Thuile. Tra i presenti c’era anche Paolo Cevoli, sua moglie ed anche alcuni ragazzi che avevo ospitato nella comunità in precedenza. I due giovani che erano con me al tavolo della presidenza per portare la loro testimonianza hanno cominciato a darmi di gomito dicendo sottovoce: “C’è quello di Zelig, non è lui?”. “Si è lui!”. E i miei giovani amici di rimando, con la mano davanti alla bocca: “Stavolta non siamo noi che lo guardiamo in tv, è lui che ci viene ad ascoltare!”. Finito l’incontro Paolo s’è avvicinato ed ha cominciato a dialogare con noi perché era rimasto molto colpito e a me ha detto: “Silvio, devo venire a trovarvi a Pesaro! Perché è troppo interessante quanto hanno raccontato questi ragazzi. Interessante il bene non il male. Ho visto tante trasmissioni, interviste e talk show in cui si parla e straparla del male. Ma invece l’interessante è il bene”. Da quel momento Paolo ha cominciato a frequentare la comunità portando anche i suoi amici. Un’amicizia e rapporti incominciati e cresciuti con tanti altri, per esempio imprenditori o uomini delle istituzioni, che ci vogliono bene. È vero anche che la politica e le istituzioni hanno avuto un calo di attenzione verso queste realtà. C’è stata distrazione di attenzione e diminuzione di sostegno e contributi economici, dovuto alla sempre maggiore diffusione del fenomeno, poi è arrivata la pandemia, poi la guerra. C’è davvero bisogno che questi “luoghi di vita” siano sostenuti di più».

Non è ora che tu vada in pensione?
«Per la verità, dal punto di vista formale io sono già in pensione ma continuo a dare il mio contributo e alcuni miei stretti collaboratori e amici sono subentrati nella responsabilità dell’opera. Comunque vorrei continuare, se posso, a dare volentieri il mio contributo. Da capo ci si può dimettere ma da padre no ed anche il lavoro di “entrare dentro la vita” (non di “uscire dalla droga”) non finisce mai. Non solo i giovani ma chiunque non incontri un grande ideale nella vita, non vive ma più o meno lentamente muore, e scusa la battuta, oppure “è già morto ma non lo sa”. Per questo si sta male o ci sono giovani già vecchi. Al contrario, scoprendo la ragione per la quale siamo venuti alla luce, ci sono vecchi che sono molto più giovani della loro età anagrafica. Non si sta male perché non hai avuto i genitori “giusti”, o perché non hai un quattrino in tasca o anche perché non lavori oppure quella ti ha detto “no”. Diciamo che un po’ di dolore viene anche per questi motivi ma il “male di vivere” è enormemente maggiore quando si sconosce a quale grandezza si è chiamati nella vita».

Nessuno ti ha chiesto di “darti alla politica”?
«Si, anzi per un certo periodo l’ho anche fatta ma ho scoperto che non sono adatto a questo ruolo. Non vorrei dare l’impressione sbagliata. Come diceva Paolo VI “la politica è la più alta forma di carità”. Io sono stato chiamato ad una possibilità che chiamerei “minore” e la politica è servizio molto difficile».

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