La Barafonda: fra leggenda e realtà

La Barafonda: fra leggenda e realtà

"Se vogliamo affrontare con rigore la nascita del toponimo Barafonda, dobbiamo partire dal 1797". Addirittura? Proprio così. Lo spiega in questa intervista Paolo Semprini. Che ci conduce in un viaggio incredibile: dalla Repubblica Giacobina al Duce, passando per Ruggero Giuseppe Boscovich, lo "scaricatore" e poi il "deviatore" Marecchia, attraversando fiumane memorabili e molto altro. Fino ad approdare a San Giuliano Mare.

Il nome “Barafonda”, attribuito a un preciso lembo di terra, compare per la prima volta in una carta topografica del 1910. La carta di inizio ‘900 riportata dal ricercatore, storico e scrittore Manlio Masini, figura in un interessante saggio del 2013: “La Barafonda – da luogo dimenticato a centro turistico” (Panozzo editore). Nel riminese, l’origine del termine è questione assai dibattuta e divide studiosi e abitanti. Il racconto che ci fa Paolo Semprini zampilla fluido dalla summa delle più accreditate teorie.
Geometra presso l’ufficio tecnico del Comune di Rimini negli anni ’60-’80, Semprini è un appassionato e studioso di storia locale nonché indiscusso “lupo di mare”, conoscitore di imbarcazioni a vela e “navigato” skipper.
La narrazione che fa è figlia di letture, confronti con ricercatori e conversazioni con abitanti e vecchi marinai della “Barafonda” che da sempre usano tramandare le loro conoscenze (anche) storiche per tradizioni orali.

Paolo Semprini

Escludendo la tradizione popolare che vorrebbe far risalire il termine Barafonda alla bara arenatasi sulla spiaggia contenente il Santo Giuliano, i buoi, la sacra fonte (Sacramora) eccetera, esiste una versione meno visionaria, più attinente alla realtà?
«Se vogliamo affrontare con rigore la nascita del toponimo Barafonda, dobbiamo partire da molto lontano. Precisamente dal 1797, quando il neo-instaurato governo della Repubblica Giacobina arrivato in Italia sulla scia della rivoluzione francese, decide di modificare l’assetto delle chiese riminesi ed eleva a chiesa parrocchiale quella di San Nicolò al porto che in precedenza dipendeva da quella di Santa Maria al Mare. Come tale, le viene assegnato un territorio che sarà confinante anche con quello che interessa a noi. Dalla parte di San Giuliano, lo spazio della neonata parrocchia si estende dalle mura di via Madonna della Scala al fosso Dosso che tuttora costeggia i campetti da calcio presenti a San giuliano, fino al mare e al porto canale. Ovviamente, all’epoca tra questi confini ancora non esisteva alcuna ferrovia. La prima linea, la Bologna-Rimini, vede la luce nel 1860/61 seguita dalla Rimini-Ravenna nel 1888. Solo allora la circoscrizione parrocchiale del borgo San Nicolò subisce una modesta contrazione. Il confine a monte non è più costituito dalle mura di via Madonna della Scala, bensì dal rilevato ferroviario. Gli altri limiti territoriali restano invariati. Dalla parte di ponente rispetto al porto canale, escluse le case dei marinai e dei manutentori di barche, era tutta una distesa di campi. Con una differenza: dal porto fino ad arrivare al Fosso Dosso il terreno era buono, tanto è vero che nell’Ottocento c’erano tre poderi appartenenti all’ingegner Leopoldo Tosi, in seguito ereditati dalla famiglia Briolini. La stessa cosa non si può dire dell’appezzamento che inizia presso il fosso Dosso fino ad arrivare al Dossetto (altro fosso sul quale è stato ricavato lo “scaricatore” prima, “deviatore” poi, del fiume Marecchia); quel terreno era poco adatto ad essere coltivato perché troppo spesso allagato dalle frequenti fiumane del Marecchia che lo rendeva molto simile a una palude».

E’ quindi facile immaginarlo come luogo insalubre, poco appetibile, maleodorante e pieno di zanzare. «La zona è talmente infelice da suscitare l’interesse dei proprietari delle miniere sulfuree di Perticara che la acquisiscono dai conti Zavagli perché a Rimini avevano bisogno di spazi dove immagazzinare lo zolfo e fare le prime rudimentali lavorazioni. Tornando alla ferrovia, nel 1861 si inaugura la tratta Bologna-Rimini. Per eseguire i lavori si rende necessario sopraelevare di alcuni metri il piano rotabile rispetto al piano di campagna particolarmente basso in quella zona. Occorre costruire un rilevato ferroviario: per capirci, praticamente edificano una diga. Tuttavia gli ingegneri delle Ferrovie dello Stato sottovalutano il fatto che in occasione di notevole quantità di piogge che si accumulano a monte del rilevato, queste si aggiungono alle pericolose piene del Marecchia. Nel 1865 il fiume esonda, unisce la propria forza a quella dell’acqua piovana e un’incredibile massa liquida, non trovando sfogo verso il mare e costretta a correre lungo quella specie di diga del rilevato ferroviario, dirige l’immane potenza distruttiva verso la città».

La descrizione ricorda cronache molto attuali che vedono i nostri fiumi spesso irrequieti …
«Anche peggio. Luigi Tonini (storico: 1807-1874, ndr) evidenzia come nella circostanza Rimini sia totalmente a bagno. Emerge soltanto una ristretta parte di Santa Maria in Acumine (vicolo Gomma), la parte più alta dell’abitato. L’acqua sommerge piazza Cavour di 60 centimetri, mentre in piazzetta Ducale raggiunge, per usare gli esatti termini dello storico, “l’onesta stazza d’un uomo”, quindi dai 160 ai 180 centimetri circa. Questo per dare l’idea della portata dell’alluvione. Le Ferrovie dello Stato, sensibilizzate dalla comunità, ammettono l’errore. Riprogettano i varchi di sfogo in caso di pioggia e straripamento del fiume. E’ in quella occasione che viene creato il famoso scaricatore del Marecchia. Viene anche costruito un ponte. Siamo intorno al 1866, circa un anno dopo la terribile inondazione. Ora esiste uno “scaricatore”. Il deviatore varrà realizzato in seguito».

Qual è la differenza tecnica tra “scaricatore” e “deviatore”?
«Il primo è un corso d’acqua che riversa quella eccedente il normale flusso di un altro corso, mentre il “deviatore” da un certo punto in poi sottrae completamente la portata idrica dal primitivo alveo per convogliarla altrove».

Lavori per la realizzazione del deviatore (Archivio fotografico biblioteca Gambalunga)

C’è uno studio di Leonardo che per conto di Firenze progettò di deviare l’Arno in un canale verso lo Stagno di Livorno allo scopo di sottrarre il fiume e le sue risorse a Pisa per costringerla alla resa. La realizzazione del progetto iniziò nell’agosto del 1504, ma l’impresa fu poi abbandonata. “Il fiume si rise di chi gli volea dar legge”, commenterà un paio di secoli dopo lo storico e letterato Ludovico Muratori (1672-1750). La deviazione dei fiumi è sempre un’operazione delicata, spesso divisiva. Anche a Rimini andò così?
«In effetti la questione sulla deviazione del Marecchia è stata più volte dibattuta al fine di risolvere il problema del porto, delle fiumane e conseguenti inondazioni. A suo tempo, espresse la propria opinione in merito anche Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787, ndr), abate gesuita e accademico dalmata, valente astronomo, nonché matematico e fisico. Per dare un’idea della grande caratura del personaggio, va ricordato che tra il 1750 e il 1752, insieme con il collega Christopher Maire (1697-1767), già rettore del Collegio inglese a Roma, lo studioso misurò l’arco di meridiano tra Roma e Rimini compiendo un’impresa di enorme rilevanza scientifica. Il contesto era quello del dibattito sulla forma della Terra che, stando alla meccanica newtoniana, doveva essere schiacciata ai poli. Lo scienziato dalmata capita a Rimini per caso, verso la seconda metà del ‘700 ed entra subito in ottimi rapporti con autorità e notabili locali. Come uomo di scienza gli vengono riconosciute enormi capacità. Quando si tratta di risolvere l’annosa questione del porto che continuava a interrarsi rendendo difficile la navigazione, pensano bene di invitarlo nuovamente in loco».

(Nel 2002, in occasione del 250° anniversario dei rilievi geodetici effettuati a Rimini, la Biblioteca Gambalunga ha allestito una mostra documentaria: “Ruggero Giuseppe Boscovich, mezzo turco, matematico pontificio a Rimini”; ndr)
«Questi accetta di dare un parere e un consiglio riguardo alla sistemazione portuale. Siamo nel 1764. Lo studioso soggiorna in città, si rende conto della situazione di grande subbuglio e delle diverse, agguerrite fazioni createsi intorno al problema. Per cautela, lo studioso lascia la propria relazione scritta in busta chiusa al governatore di Rimini con preghiera di aprirla solo dopo la sua partenza che avviene il 2 di novembre. Nel documento ci sono due puntualizzazioni molto importanti. La prima: “Rimini non ha buon porto. Come generalmente non sono buoni i porti situati alla foce dei fiumi”. Dal punto di vista ingegneristico è innegabile perché i fiumi alla foce non possono essere utilizzati come buoni porti. All’epoca non esistono i motori, per cui la navigazione è a vela e se piove e il fiume ingrossa, devi affrontare la corrente contraria; oggi, grazie ai motori, ostacoli del genere sono quasi sempre superabili. L’altra ragione deriva dal fatto che il fiume tende a colmarsi di materie solide per cui viene a mancare il fondale sufficiente. Anche questo problema ora è facilmente risolvibile con i mezzi meccanici che abbiamo a disposizione, ma all’epoca, solo con i badili, non era raro che dopo tanto lavoro arrivasse una fiumana a vanificare il lavoro di sei mesi. La seconda e decisiva considerazione è la seguente: “Rimini avrà un porto buono e stabile o levando la Marecchia dal porto presente o levando il porto dalla presente Marecchia”. Quindi, a suo intendimento non poteva esserci coesistenza tra porto e fiume. Quando è stato realizzato lo scolmatore è stata posta in essere un’operazione che Boscovich non aveva nemmeno preso in considerazione; non aveva detto che si dovesse scolmare l’acqua. Piuttosto parlava di deviatore: una cosa ben diversa. Infatti, lo scolmatore realizzato a Rimini, dal 1865 fino a metà dell’era fascista non ha mai funzionato».

Una delle terribili fiumane immortalate (prima metà del 900): trabaccolo davanti alla chiesa oratorio di S.Antonio di Padova (Archivio fotografico Biblioteca Gambalunga)

Con allagamenti a ripetizione, si può immaginare…
«E’ vero. Il porto era continuamente soggetto alle piene; quindi succedevano drammatiche devastazioni e barche (anche di rilevante stazza) erano sballottate come fuscelli, al punto che quando c’era la fiumana dovevano essere legate. Ci sono fotografie del 1910 e del 1935 a testimoniare la furia delle acque. Il Ponte dei Mille, appena terminato di costruire, con le balaustre rivestite di marmo (come oggi), durante il fortunale del ’35 ha subìto danni notevolissimi: la furia della piena ne ha letteralmente travolto i parapetti con il risultato che hanno dovuto ricostruirli ex novo. Da luminare qual era, bisogna ammettere che nel ‘700 l’abate aveva indicato le soluzioni più giuste.
Comunque, Boscovich a parte, sono occorsi circa due secoli e mezzo, ma il porto è stato poi costruito».

Archivio fotografico Biblioteca Gambalunga

E lo scaricatore?
«Alla fine viene realizzato. Al suo fianco deve correre una strada. Si pensa di realizzarla dalla parte di Rimini. Se fosse stato deciso di farlo dalla parte di Rivabella, non sarebbe mai nata la Barafonda. L’attuale via Carlo Zavagli (intitolata all’eroe di guerra) è quella che dà il via alla lottizzazione della zona. In seguito prenderà il nome di Barafonda. Quello era semplicemente un territorio molto povero, non coltivabile e decaduto di interesse anche per l’attività che in loco aveva gravitato attorno alle miniere sulfuree. Ebbene, quei frustoli di terreno vengono lottizzati e venduti alla povera gente del luogo a un prezzo veramente basso. Nascono le prime case, entro un preciso confine: lo scaricatore, il mare, il Fosso Dosso e la linea ferrata Bologna-Rimini. La tratta ferroviaria acquista via via maggiore frequentazione da parte dei passeggeri e, come detto in precedenza, in quel tratto si raggiunge una quota di quasi sei o sette metri. I passeggeri che guardano dal finestrino commentano lo scenario che vedono da quell’altezza e mormorano sempre più frequentemente: «Guarda la barra fonda, che barra fonda!». “Barra”, come si legge sull’enciclopedia Treccani: “In geografia fisica, barra di foce (o semplicem. barra), accumulo di sabbia che si crea per lo più entro o davanti la foce d’un fiume, per il depositarsi di materiali di torbida dovuto alla diminuita forza di trasporto della corrente fluviale. […]” e “fonda”, in quanto bassa rispetto al punto di visuale».

Archivio fotografico Biblioteca Gambalunga

Il fenomeno è del tutto verosimile. E i commenti comprensibili…
«Certo, se si considera che prima di lottizzare, in fondo al Dosso, nel 1770 nel catasto redatto da Serafino Calindri (1733-1811, ingegnere allievo di Vanvitelli e Boscovich, ndr) sono rappresentati due acquitrini, il piccolo e il grande, possiamo ben immaginare che il livello del terreno corrispondeva a quello del mare. L’acqua arrivava là, spadroneggiando; entrava e usciva senza ostacoli di sorta. Se c’era una mareggiata poteva salire di metri e metri: ecco perché la zona non era affatto favorevole per le coltivazioni. Quindi, questo termine che, si badi bene, non viene dato dagli abitanti, ma da altri, è poco gradito dagli indigeni perché, appena qualche tempo dopo, viene “battezzato” l’altro territorio che si trova a ponente rispetto allo scolmatore: Rivabella. Il nome dato alla frazione (così dicasi anche per Bellaria e Bellariva, ad esempio) suggerisce un’immagine positiva, a differenza di quello poco attraente di Barafonda. C’è testimonianza che ci furono vere e proprie suppliche affinché il nome venisse cambiato con uno più accattivante. L’argomento però ha poca presa e la sostituzione non viene neppure considerata. Va rimarcato che nei primi anni del ‘900 San Giuliano era già una realtà la cui fisionomia turistica era ben definita, paragonabile a Rimini; più in piccolo, ma con prezzi contenuti. La giovane località balneare era piacevole, molto vivace. Le orchestrine animavano le serate estive e i giardini di molte abitazioni dopo il tramonto brulicavano di gente che partecipava a feste, come sottolinea Manlio Masini nel suo saggio. A fronte della volontà di farla decollare c’erano tuttavia i problemi dovuti allo scolmatore che, essendo il Marecchia povero d’acqua, ci si può immaginare che fosse praticamente sempre asciutto. Tuttavia bastava un acquazzone per formare enormi pozze d’acqua in cui proliferavano zanzare e cattivi odori che ristagnavano per mesi: era una situazione igienica del tutto inaccettabile. A questo punto entrano in campo le fonti popolari, non sempre verificabili (come in questo caso), ma che voglio citare ancorché non ci siano documenti per suffragarle. Lo faccio per completezza di cronaca, per riportare alcune voci che sono sempre circolate pur non avendo mai avuto una precisa attestazione storica».

Quali sarebbero, le voci che circolavano tra i residenti?
«Si dice che un personaggio locale, buon conoscente del Duce e ben introdotto a “Palazzo”, sia stato ricevuto dal dittatore. A questi pare abbia esposto i noti problemi che per gli abitanti della Barafonda non erano più tollerabili. Il Duce, notoriamente sensibile alle bonifiche, avrebbe dato inizio all’iter per trasformare lo scolmatore in deviatore. Forse non è un caso che l’operazione sia avvenuta tra il ’27 e il ’38, in piena era fascista. Del resto, pur restando doverosamente nel campo della leggenda è abbastanza plausibile, dato il periodo, che i lavori abbiano preso avvio dopo un incisivo interessamento di Mussolini.
Sia come sia, con la deviazione del Marecchia gli spiacevoli fenomeni più sopra descritti cessano. Il toponimo “Barafonda” dura fino a poco dopo il secondo dopoguerra. Già nel 53, quando sotto il ponte in via Carlo Zavagli avviene lo scoppio di un’autocisterna che trasporta gas, i titoli dei giornali locali (i settimanali “Il Dovere” e “Nuova Voce”) parlano di “sciagura avvenuta a San Giuliano Mare”. Il primitivo, poco accattivante lemma “Barafonda” va gradualmente scomparendo dalla cartografia ufficiale e nell’uso comune. Può darsi che viva ancora nei ricordi e nei cuori di qualcuno che lo adopera ancora oggi, ma questo attiene a scelte forse romantiche del tutto personali e quindi insindacabili. Per i più, ora è unicamente San Giuliano Mare».

Fotografia d’apertura: la carta topografica del 1910 sulla quale compare il toponimo Barafonda, tratta dal libro di Manlio Masini “La Barafonda – da luogo dimenticato a centro turistico” (Panozzo editore)

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