La storia della fontana di Miramare, nata d’autore e finita senza padre

La storia della fontana di Miramare, nata d’autore e finita senza padre

Da un'idea di Romagna Acque spa, al tempo ancora Consorzio, prende forma anche a Rimini un'opera d'arte nella rotatoria poi intitolata agli albergatori Augusto ed Ernesta Tonini. È affidata ad un'artista di notevole rilievo, Quinto Ghermandi. Alla sua morte cominciano i problemi e i contenziosi perché l'opera viene stravolta rispetto al progetto originario e "macchiata" da un "facit" di troppo. Ci finisce dentro anche un'auto e le vele abbattute rimangono in acqua per sette anni prima di venire ripescate. Riavvolgiamo il nastro dall'inizio.

A Miramare, a circa 500 metri dal confine con Riccione, all’interno della rotonda intitolata agli albergatori Augusto ed Ernesta Tonini c’è una fontana donata nel 2003 alla città di Rimini dall’allora Consorzio Acque per le provincie di Forlì e Ravenna, oggi divenuta Romagna Acque-Società delle Fonti S.p.A.
Di marmo rosso veronese con cannule e fregi in bronzo (quelli rimasti), l’opera non ha un autore. Poi ne spiegherò il motivo.

La fontana faceva parte di un progetto ben preciso. Il consorzio sopra citato, nel 1989 pubblica un volumetto di 105 pagine (ed. Nuova Alfa Editoriale) dal titolo “Le fontane: proposte progettuali per la realizzazione di una fontana simbolo dell’Acquedotto della Romagna” la cui opera principale, come specificato, è la diga di Ridracoli, nell’Appennino forlivese. Le fontane sono destinate ad essere sistemate nei principali centri romagnoli consorziati: Forlì, Ravenna, Rimini, Cesena, Faenza e Lugo. Lo stampato rappresenta il compendio del progetto con descrizioni e disegni di ciascuno dei dieci artisti coinvolti i cui nomi, correttamente riportati in ordine alfabetico, sono di conclamato valore: Andrea Cascella, Alik Cavaliere, Pietro Consagra, Agenore Fabbri, Quinto Ghermandi, Giacomo Manzú, Umberto Mastroianni, Luciano Minguzzi, Arnaldo Pomodoro, Francesco Somaini. L’unanime scelta della commissione ricade sul bolognese Quinto Ghermandi (1916 – 1994), nato a Ronchi di Crevalcore.

L’immagine di copertina della pubblicazione raffigura il prototipo della fontana, descritta peraltro in maniera dettagliata dall’autore all’interno del libretto in cui compaiono anche i relativi disegni tecnici. Così come visibile da progetto, lo scultore emiliano delinea con chiarezza le motivazioni e le caratteristiche concettuali sfociate nella composizione dell’opera. Prima di tracciare le vicende della fontana, vorrei partire dal suo non-autore. Ghermandi nasce nel 1916 a Castello dei Ronchi di Crevalcore, cinquecentesco complesso architettonico che visto dall’alto occhieggia come un bucaneve tra gli appezzamenti agricoli della pianura tra Ferrara e Bologna.

Il giovane Quinto si diploma al liceo artistico e in seguito all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Tra gli studi e la carriera vera e propria nel mondo dell’arte, si insinua malefica, la seconda Grande Guerra. Al termine del conflitto, Ghermandi si avvia verso un’espressione artistica di primissimo piano. Verrà invitato e partecipa più volte alle maggiori manifestazioni nazionali e internazionali d’arte contemporanea. Il consistente curriculum scultoreo contempla le Biennali di Venezia, San Paolo del Brasile e Anversa a cui si unisce la Quadriennale di Roma e la 3ª edizione di “Documenta” a Kassel (Germania) considerata tra le rassegne più prestigiose del mondo. Nel corso della prolifica attività artistica, lo scultore espone nel prestigioso Museo Rodin di Parigi e partecipa a mostre in Italia e in tutto il mondo. Le sue opere compaiono in raccolte pubbliche e private in Europa, Stati Uniti e America Latina. In età matura, Quinto Ghermandi è titolare della cattedra di scultura all’Accademia di belle arti di Firenze prima e di Bologna poi, dove nel corso degli anni ricoprirà anche la carica di direttore.

Nel 1993 è il vincitore del IV Premio nazionale Pericle Fazzini, probabilmente l’ultima partecipazione a un concorso poiché la sua scomparsa avviene a gennaio del 1994. Poco prima di morire, Quinto Ghermandi spedisce una lettera a Romagna Acque per informare che affida la direzione artistica del lavoro non ancora compiuto al figlio Martino. Il consorzio accetta. Naturalmente, il progetto originario rimane invariato circa tipo di marmo, forma rettangolare della vasca, sei cannelle in bronzo con la funzione di rappresentare i principali comuni consorziati, la caveja, simbolo della Romagna, una foglia dello stesso materiale, ma dorato e così di seguito. La collaborazione si interrompe bruscamente in occasione dei lavori per la fontana destinata a Rimini, la cui realizzazione diventa motivo di contenzioso tra Martino Ghermandi e Romagna Acque. Quest’ultima prosegue i lavori per proprio conto e comunque con scelte niente affatto condivise dal figlio dell’artista. Ha inizio una lunga causa civile che durerà 13 anni. Come vuole la leggenda lombarda e veneta, nella notte tra il 12 e il 13 dicembre Santa Lucia arriva in groppa a un asino per distribuire ogni sorta di regali. Potenza delle tradizioni, la medesima data segna un momento cruciale per la fontana di Miramare.
Il 12 dicembre del 2016, forse irraggiata dalla ricorrenza, a sua volta la Corte d’Appello di Bologna fa “luce” sulla questione. Causa violazione del diritto morale d’autore in relazione alla realizzazione della fontana a Miramare di Rimini, i giudici (sentenza n. 2277/2016) condannano Romagna Acque S.p.A. a risarcire Martino Ghermandi, figlio di Quinto (fonte: Wikipedia).

Quinto Ghermandi Facit. Il latino maccheronico di Romagna Acque.

Quanto al ruolo, se non altro metaforico, dell’asinello più sopra menzionato, ho un’unica certezza: lo scultore bolognese disponeva di solide basi culturali, quindi non avrebbe mai permesso che diversamente da quanto disposto, in un angolo dell’opera marmorea, appena sotto la dicitura “ROMAGNA SOLATÌA DOLCE PAESE….” di pascoliana memoria, si scrivesse “QUINTO GHERMANDI FACIT” anziché “FECIT”. L’oltraggio linguistico, per chi volesse controllare, lo si trova tuttora inciso. Comprensibilmente, si può immaginare che Martino Ghermandi si sia dissociato dall’attribuzione dell’opera al padre anche per plateale lesa dignità culturale. E a posteriori, ulteriore bocciatura sarà stata avanzata riguardo le due vele commissionate da Romagna Acque che seppure realizzate da un abilissimo artista come il mosaicista Marco Bravura, sono ritenute da molti avulse dal contesto. D’altra parte, nel progetto non erano di certo menzionate. Dunque, la semplice verità è che la fontana di Miramare, logicamente non è attribuibile a Ghermandi e diciamo pure che da quando è stata regalata alla città di Rimini, le tribolazioni del manufatto non si sono arrestare.

L’auto finita nella fontana in un fermo immagine tratto dal servizio pubblicato da San Marino Rtv nel 2015.

Per uno stravagante caso del destino, il 21 luglio del 2015 le vele vengono travolte da un’auto che esce di strada e si ritrova ruote all’aria nella fontana. Le due vittime musive non scuffiano, ma da ritte che erano, restano aerodinamicamente ripiegate verso la superficie dell’acqua.

Vele in ammollo. Ci sono rimaste per sette anni. Le rivedremo col vento in poppa oppure faranno la fine delle creazioni di Castagna, Viani, Vangi, D’Augusta-Baldini e di alcuni Gruau?

La pubblica amministrazione riminese, notoriamente attenta e sensibile custode del patrimonio artistico cittadino, le fa rimuovere a tempo di record, appena sette anni dopo: suvvia, un foruncolo di tempo, rispetto all’eternità. Il recupero avviene tra la primavera e l’estate scorsa. Dalla Russia, dove i coniugi Bravura da tempo risiedono per lunghi periodi di lavoro, la moglie del mosaicista da me raggiunta via WhatsApp, rileva con amarezza che «a seguito dell’incidente d’auto che distrusse le due vele in mosaico, fummo informati da Romagna Acque (mai dal comune di Rimini) e da articoli sui giornali. […] Gli anni sono passati e siamo stati contattati solo quest’anno. La soluzione di portare via le due vele per salvarle da ulteriore degrado l’abbiamo data noi». L’inusitata tempestività a seguito della suggerita estirpazione pro restauro, sorprende ma non convince i malfidati (mi autodenuncio): dove saranno finite le vele di Marco Bravura? Se davvero spera in un ripristino, beh… qualcuno avvisi l’artista che la scultura “Due figure” di Pino Castagna è in fila da più di un quarantennio in attesa di restauro, mentre la “Grande Madre” di Alberto Viani è diventata trisnonna in un deposito dove “Jacopo” di Giuliano Vangi è invecchiato senza che i riminesi abbiano mai avuto il piacere di ammirarlo. E poi attenzione anche agli “effetti dissolvenza” occorsi ad alcune opere di Renato Zavagli, alias “Gruau”, così come accaduto alla grande ceramica firmata D’Augusta – Baldini, evaporata dal muro di una scuola di Miramare. Che prodigi!
Comunque, in attesa di sviluppi, ogni tanto vado in pellegrinaggio a rimirare la fontana “non Ghermandi”. E non dimentico mai di dedicare una lacrima a quel FECIT.

Romagna tra mito e realtà
L’immagine che ho pensato per dar forma a una idea di acquedotto è caratterizzata e si rifà al concetto di “fonte”. Gli antecedenti di questa idea vanno sicuramente ricercati nei finali degli acquedotti Romano-Papalini, che servivano la popolazione dell’Urbe, convogliando l’acqua delle vicine alture all’interno della cinta muraria. E ad uno spazio mitico, e quindi ad una immagine mitica, che ho pensato nel progettare la fontana dell’acquedotto: mitica come può essere la fonte del Clitunno; come mitica è nel ricordo delle genti l’immagine della Romagna, con le sue origini romane, bizantine, medievali e rinascimentali che la resero famosa; e anche come Giovanni Pascoli cantava la sua terra: «.. Paese ove andando, ci accompagna, l’azzurra vision di San Marino».
Ecco perché un triangolo: immagine inconfondibile, triangolo che si erge solenne su uno specchio d’acqua calmo, calmo come può esserlo il mare in bonaccia, come le paludi ravennati, come gli stagni di pascoliana memoria. Triangolo che sarà in marmo rosso di Verona, un monolite che si presenta come segnale di luogo e come segnale della nascita dell’acqua, quindi della sorgente collinare, rappresentata da un rivolo d’acqua che lento scende dal vertice.
La grossa cannella a sinistra vale come arrivo dell’acqua convogliata, acqua che va a riempire una vaschetta scavata nella parte alta del frammento del grande fregio classico posato alla base del triangolo; colma la vaschetta, l’acqua tracima; dolcemente scorre verso il basso per tutta la larghezza del fregio, sottolineandone le modanature, e spandendosi poi nella calma della vasca, un gioco d’acqua diverso, naturale e di grande effetto.
Nella parte dietro del triangolo, sei cannelle buttano acqua potabile in una vasca-abbeveratoio, a cui tutti potranno accedere per dissetarsi. Le sei cannelle, cioè le sei città della fontana, sono sormontate dalla caveja, da sempre riconosciuta quale simbolo araldico della civiltà agreste di Romagna. Infine, dalla parte destra della vasca emerge un cerchio in marmo rosso, una botola pozzetto, dentro la quale convergono da vari punti della vasca numerosi zampilli, a conclusione di un ciclo vitale ed eterno che ritornando alla terra, sempre si rinnova.
La foglia in bronzo dorato è un omaggio alla natura e alle divinità dei boschi, è posata sul grande fregio classico, fregio-frammento, che vuole significare i resti architettonici romani, bizantini e rinascimentali di cui la Romagna è ricca. Per finire, un pavone a mosaico, dai colori vivacissimi, trasparirà dal sottile specchio d’acqua come segno di riconoscimento di una unità culturale che a Ravenna ha testimonianze di grande valore
Quinto Ghermandi

Una litografia di Ghermandi nella quale è ben visibile anche la fontana.

Ritratto d'artista
Solo grazie a racconti di parenti, amici e colleghi e attraverso scritti e documenti trovati in internet, ma ho avuto il privilegio di conoscere lo scultore Quinto Ghermandi. Ne ho ricavato un quadro piuttosto netto. Quello di un artista che si è sempre mosso in maniera diretta e senza mediazioni che grazie al tratto ironico, ma anche autoironico, da autentico bolognese sapeva e amava ridere anche di sé stesso. Questa cifra caratteristica appartiene a chi sa esplorare le cose della vita con profondità, ma ama trasmetterle attraverso la leggerezza. Nel caso di specie, anche delle forme. Trovo che questa nota espressiva nelle sculture di Ghermandi sia senza dubbio leggibile. Del resto, il mondo dell’arte gli ha riconosciuto il dono di maneggiare l’ars scultoria con assoluto ingegno e sopraffina capacità. Coloro che lo hanno conosciuto profondamente, come uomo e come creatore di forme scultoree di originale audacia, dicono che l’artista bolognese ha avuto una vita artistica molto intensa, contrassegnata da grande versatilità. Ghermandi ha vissuto circondandosi da un mondo di arte che insieme con lui, a iniziare dalla famiglia, ha condiviso la stessa passione. La moglie Romana Spinelli (1933-2013) è stata illustratrice e ritrattista di successo. La pittrice, allieva dei concittadini Nino Corrado Corazza (1897-1975) e Giorgio Morandi (1890-1964) ha spaziato dall’informale al neo naturalismo; la figlia Francesca è una celebre e affermata disegnatrice e vignettista mentre il figlio Martino, oltre a giornalismo ed editoria, si è occupato di storia dell’architettura e come detto, di parte delle fontane incompiute di cui sopra. Francesca Ghermandi, con la quale ho avuto diversi contatti via e-mail, racconta che prima della guerra il padre è stato pure comico teatrale e che ha prodotto anche diverse piccole sculture satiriche di vari personaggi politici. Del lavoro del genitore si è dedicata principalmente all’archivio fotografico delle opere e in anni recenti, nel 2016, il catalogo “Quinto Ghermandi in fonderia”, curato con il compagno Gianluigi Toccafondo in occasione della mostra “Quinto Ghermandi – La leggerezza del gesto” organizzata dall’Accademia di Belle arti di Bologna, nel centenario della nascita. Il catalogo, attraverso le immagini, fa quasi percepire gli odori e le atmosfere roventi di fonderia. Ma l’affetto e la sintesi della figura paterna sta tutta in questa frase: “Mio padre era una persona molto speciale, con un’umanità che era parte integrante del suo talento”, affermazione che affinando la conoscenza pertinente al carattere dello scultore, ho constatato essergli totalmente aderente. A cominciare dalla testimonianza che mi ha dato un suo collega e grande amico e collaboratore, Mauro Mazzali, anch’egli eccellente artista (per breve citazione, partecipa alla 12ª Quadriennale di Roma e alla 54ª Biennale di Venezia) che a sua volta è stato docente di scultura e in seguito direttore all’ABABO (Accademia di Belle Arti di Bologna). L’amico e collega lo ricorda con profonda stima e ammirazione. Ghermandi, con cadenza quasi giornaliera, è a stretto contatto con gli abili artigiani delle fonderie che frequenta con assiduità e che con l’artista condividono la nascita delle sue creature. Le fonderie venete che frequenta in verità sono luoghi dove le differenze sociali si smaterializzano. Lo scultore è costantemente presente, in attesa e pronto a cogliere il primo respiro dell’opera quando questa viene liberata dalla forma di argilla che la ricopre come una placenta. Ghermandi conosce a perfezione la materia e sa condurla con pazienza verso la puntuale rappresentazione del concetto della propria immaginazione. Al figlio Martino, a cui domando un parere sulla collocazione artistica del padre, mi risponde che «La critica inquadrava mio padre nell’àmbito del movimento informale, cosa di cui non si curava più di tanto, ritenendo che dare collocazioni stilistiche fosse un’operazione accademica che generalmente compete ai critici e non agli artisti. Questi ultimi, come tutti coloro che svolgono un’attività creativa, hanno un’evoluzione talvolta molto rapida, la loro sensibilità può avere mutazioni improvvise e di conseguenza sfumare, sfuggire alle classificazioni. Dopo la guerra aveva accettato la sfida, il confronto con il linguaggio della modernità, quindi si era incamminato verso una cifra stilistica che venne definita “informale”, ma a differenza di altri artisti che tendevano alla dissoluzione delle forme, il babbo cercava una sorta di condensazione di esse, senza peraltro ricorrere al linguaggio classico figurativo, bensì inventando una realtà tutta sua che non aveva riscontri in quella fattuale. Figure di fantasia, animali e persone che però non avevano sembianze leggibili attraverso i classici canoni iconografici». Ghermandi ha indubbiamente lasciato un sigillo intramontabile nel panorama scultoreo internazionale, pur non essendo le sue opere di lettura immediata per il grande pubblico. Ma questo non lo ha mai spostato di un millimetro dal personale concetto di arte. Infatti, Quinto Ghermandi scrive: «La mia ricerca espressiva non è mai stata sistematica, tanto meno si è mai avvalsa di puntelli teorici. Essa si è invece sempre svolta empiricamente, nutrita da improvvisi e casuali spunti, quasi rivelazioni. Ma il problema non è fare la scultura. Il problema è collocarla. Provo sempre un senso di sgomento nel vedere un mio lavoro posto in un museo quasi fosse il reperto archeologico di un fenomeno vivente. Credo in una scultura “funzionale”, cioè che faccia parte dell’ambiente in cui si vive, che ne determini i tracciati, ne “commenti” il sussistere». E in un altro passaggio: «Lascio fare capolino a quella vena satirica che mi porto dietro da sempre, fin da quando ero bambino. E ancora una volta è il materico piacere della terra che muove il mio fare. Il piacere intenso e spensierato di affondare le mani nell’argilla, di arrotolare, di comprimere. Quel piacere che tanto tempo fa provavo, poco distante da casa mia, alla fornace di mattoni». l.p.

L’Acquaforte di Ghermandi nata dopo aver ricevuto l’incarico della fontana (che compare in basso a destra). Titolo meraviglioso: “Al galoppo verso Ridracoli” (1989).

Il catalogo realizzato dall’Accademia di Belle arti di Bologna in occasione della mostra “Quinto Ghermandi. La leggerezza del gesto”, allestita dal 15 ottobre al 18 novembre 2016 in occasione del centenario della nascita dell’artista (a pag. 37 i crediti della pubblicazione). Interessante e utilissimo per conoscere l’artista.

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