L’Amarcord di Agim Sulaj: tanto bello da meritare un posto permanente nel museo Fellini

L’Amarcord di Agim Sulaj: tanto bello da meritare un posto permanente nel museo Fellini

I sessantacinque deliziosi dipinti conferiscono arricchimento visivo e un immediato senso di calore. Il luogo ne risulta assai ravvivato. E arrivati al termine del percorso espositivo viene naturale pensare che sarebbe giusto non sottrarre ai futuri visitatori il piacere di quelle piccole ma significative immagini.

Nella storia cinematografica c’è più di un richiamo a dipinti famosi. Per la celebre scena dei prigionieri che girano in tondo, Stanley Kubrick in Arancia meccanica (1971) si ispira chiaramente a “La ronda dei carcerati” (1890) di Vincent Van Gogh. Il quinto elemento (1997) di Luc Besson cita “La colonna rotta” (1944) dell’artista messicana Frida Kahlo, mentre Gustav Deutsch in Shirley: visioni della realtà (2013) impernia l’intero set del film sulla base dei dipinti più celebri di Edward Hopper. Le citazioni sarebbero moltissime e mi fermo qui. Per contro, nessuna notizia di operazioni inverse. Questo, almeno fino a quando non ci ha pensato il pittore e illustratore satirico di origine albanese Agim Sulaj, cittadino italiano che vive a Rimini da trent’anni e di cui la nostra città nutre un sincero affetto, contraccambiato.

Solo pochi giorni fa ho visitato la bella mostra di Agim Sulaj, a cura dello storico dell’arte Gabriello Milantoni, allestita presso il Palazzo del Fulgor, un componente dell’onerosa trinità gnassiana denominata Museo Fellini.

Un fotogramma dopo l’atro, l’artista racconta il film Amarcord (1973) del celebre Federico attraverso 65 piccoli, deliziosi quadri, giocati sulle vibrazioni emotive trasmesse dal regista grazie all’ispirata antologìa di situazioni, di contesti ambientali e di strepitose prestazioni attoriali.

Gli occhi del pittore palpeggiano, fotogramma per fotogramma, personaggi e scene di Amarcord e come se egli stesso fosse un pantografo umano, li accompagna sulla tela. Restituisce così la seduzione di quei momenti rubati, attraverso setole intrise di sentimento e colore.

Agim sa raccogliere, come una sorta di sussurrata delazione, l’umore dei personaggi felliniani che ripropone come pittorico fermo immagine allo spettatore. Starà a quest’ultimo decifrare l’insieme a proprio piacimento, come solitamente accade con i film creati dall’onirico acume di “Fellas”.

I piccoli quadri, interpretazioni dell’artista che cattura colori, luci, attimi grotteschi e malinconie che animano la vita del “Borgo”, sono lampi sulle neutre pareti grigie della galleria. Sapendo fin dall’inizio che avrebbe dipinto un gran numero di tavole, per velocizzare il lavoro e per praticità, Agim avrebbe potuto decidere di adoperare un solo tipo di cornici. Invece la scelta è stata di sceglierne di molteplici fogge, misure e tinte. In alcuni casi è ricorso anche ai mercatini dell’antiquariato. Questo per dire che l’artista non ha lasciato nulla al caso e si è dedicato completamente al progetto.

Grazie ai dipinti che conferiscono arricchimento visivo e un immediato senso di calore, il luogo ne risulta assai ravvivato. Presumo che questa considerazione possa essere condivisa da chi ha visitato la mostra.

Dunque, mi domando che ne sarà delle 65 opere, domenica 19 marzo, una volta terminata l’esibizione. Sulaj le venderà singolarmente, un poco alla volta, disperdendo così la forza e l’intensità dell’insieme? O tenterà la via più impervia, ma meno demolitiva, di separarsi dalle sue creature per affidarle a un solo soggetto? Credo sarebbe giusto che il Museo non sottraesse ai futuri visitatori il piacere di quelle 65 piccole, ma significative immagini.

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