Il Dottor Luca Brandi porta il suo golden retriever di nome Rastin a fare una passeggiata nel parco XXV Aprile. Comincia ad annusare e raspare intorno al tronco di un grosso cipresso. Nasce così la scoperta che ha fatto entrare per sempre Rimini nell'Olimpo micologico. "In omaggio ai duemila anni compiuti dal ponte di Augusto e Tiberio, e per valorizzare il luogo in cui lo abbiamo rinvenuto: la nostra città".
Questa è una storia che pochi conoscono. Ve la raccontiamo omettendo aspetti tecnici che peraltro esulano dalla nostra competenza. Ci limitiamo a riportare i tratti salienti di un’avvincente indagine che sulle orme dei più classici polizieschi britannici, oltremanica chiamerebbero “detective story”. Se fosse veramente un’indagine di polizia, partita grazie al prodigioso fiuto di un infallibile investigatore, sul frontespizio del fascicolo si potrebbe leggere: “La strana storia del tartufo che scoprì un fungo”. Possibile? Certo che sì. Il paradosso è costruito grazie a un gioco lessicale, poiché per “tartufo” intendiamo la punta del naso dei cani la cui definizione gergale è precisamente questa. Il tartufo del cane è un formidabile veicolo di informazioni: più di 200 milioni di cellule olfattive sono pronte a carpire i segreti del territorio circostante.
Rimini, inverno del 2014. Nella pallida luce mattutina di un’umida giornata dicembrina, il Dottor Luca Brandi porta il cane a fare una passeggiata nel parco XXV Aprile. Rastin è un golden retriever dal manto dorato, nobile animale di aristocratiche origini scozzesi. Le stesse di Conan Doyle. Durante una delle sue consuete “ispezioni” agli alberi lungo l’altrettanto abituale percorso, il “golden” comincia ad annusare e raspare intorno alla terra che circonda il tronco di un grosso cipresso.
Trova i resti di un efferato delitto? No: fiuta un fungo. Il medico, che ha una discreta conoscenza in ambito micologico, a una prima occhiata pensa che possa trattarsi di una russula, poi a una più attenta osservazione nota che questa ha caratteristiche inconsuete per appartenere a quel genere di fungo. Telefona al padre Antonio, da sempre appassionato ed esperto di micologia. Brandi senior si precipita sul luogo del ritrovamento e conferma che le perplessità del figlio non sono per nulla peregrine. Non si tratta affatto di una russula che solitamente cresce sotto latifoglie e conifere, ma semmai sembra appartenere al genere “Leucoagaricus”, uno dei componenti la nutrita classe delle “Agaricaceae”.
Da quel momento partono indagini serrate insieme con lo studio del misterioso micete. Il Professor Brandi tiene costantemente d’occhio la zona del ritrovamento. Grazie al fatto che fortunatamente nei giorni successivi quel fungo fruttifica con generosità, ha modo di raccoglierne diversi esemplari; è necessario saperne di più. Il Professore attiva un meccanismo che coinvolge una serie di micologi estremamente esperti, a cominciare dal riminese Pierluigi Angeli che approfondisce gli esami microscopici e innesca un effetto domino perché a sua volta fa intervenire il Dottor Marco Contu, un luminare in fatto di micologia che chiama in causa il professore universitario Francesco Dovana. Questi estrae, esamina e cataloga il DNA del fungo. A completare l’Olimpo micologico-investigativo, entra in gioco la massima esperta mondiale di Leucoagaricus. La dottoressa Else Vellinga, olandese trapiantata in California (Berkeley University), dà il definitivo imprimatur: l’esemplare riminese non appartiene ad alcuna varietà conosciuta.
Viene depositato un exsiccata (parti del fungo preparate ed essiccate a scopo di studio) con il relativo DNA presso il museo di Storia Naturale di Venezia e conservato come “olotipo” (campione di riferimento della specie). Un nuovo nome si aggiunge alla lista mondiale: il “Leucoagaricus ariminensis”. La soddisfazione del team Brandi & C. è alle stelle. Un sigillo rosso vermiglio rimarrà impresso per sempre sulla scoperta avvenuta grazie al tartufo di Rastin.
Il Professor Brandi, essendo un grande appassionato di micologia, attualmente è consigliere (ma è stato anche vicepresidente e presidente) della Delegazione AMB “A. Battarra” di Rimini che fa parte del Gruppo Micologico Naturalistico Valle del Savio di Cesena. Gli poniamo qualche domanda.
Professor Brandi, non capita tutti i giorni di scoprire una nuova varietà di fungo. Perché lo avete denominato “ariminensis”?
In sintonia con il pensiero di mio figlio, lo chiamiamo così in omaggio ai duemila anni appena compiuti dal ponte di Augusto e Tiberio, ma pure per valorizzare il luogo in cui lo abbiamo rinvenuto, cioè la nostra città. Si spera anche nell’attenzione dell’Amministrazione cittadina. Questa scoperta testimonia la presenza in città di elementi legati alla natura, assai meritevoli di rispetto, come nel caso di specie.
Ci sta dicendo che non tutto si è perduto sotto la cementificazione delle nostre città?
Vede, ad onta del cemento anche nell’ambiente urbano ci possono essere presenze di biodiversità interessanti a dimostrazione della vitalità di una zona e di un piccolo habitat molto particolare, presenze che vanno tutelate con cura. Le amministrazioni pubbliche (intendo in generale, non mi riferisco solo alla nostra) dovrebbero protendersi verso l’obbiettivo di creare un ambiente urbano davvero migliore, più ricco possibile non solo di servizi, ma di elementi di naturalità preziosi per il benessere e la salute dei cittadini, e quindi più salubre e vivibile. Ma man mano però che cemento e impermeabilizzazione del suolo si estendono, anche agli ultimi angoli e aiuole, natura e biodiversità arretrano, e anche la nostra salute ne soffre.
Oltre che sul periodico Micologia e vegetazione Mediterranea, la vostra ricerca è stata pubblicata su Micotaxon, la più prestigiosa rivista internazionale di micologia (si stampa negli Stati Uniti). A Rimini si sono tenute conferenze? E’ stato dato il dovuto risalto alla vostra scoperta?
Nel 2016 accenno qualcosa all’assessore all’ambiente, ma ad oggi non è stato organizzato nulla, nonostante il Leucoagaricus ariminensis nel nostro settore, a livello mondiale sia una sorta di ambasciatore della città di Rimini.
Può essere che Palazzo Garampi trovi il modo di riconsiderare la cosa, sia pure a scoppio ritardato?
Chissà, vedremo; ma temo che i temi di interesse siano tutt’altri…
L’ultima curiosità: il fungo in questione è mangereccio?
Per le lumache sicuramente sì. Li abbiamo sottratti a fatica alla loro voracità. Loro hanno però un apparato digerente molto diverso dal nostro. Possono mangiare anche funghi per noi velenosissimi senza conseguenza alcuna. In sostanza il nostro fungo all’assaggio ha sapore gradevole, dolciastro, ma non si sa se per noi sia commestibile. Però, appena ne trovo uno, se lo volesse mangiare, potremmo completarne lo studio! Un sacrificio per la scienza è sempre apprezzabile…
No no, grazie, magari le lumache ci rimangono male…
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