L’incredibile spreco: finiscono in mare 30 milioni di metri cubi d’acqua depurata a S. Giustina

L’incredibile spreco: finiscono in mare 30 milioni di metri cubi d’acqua depurata a S. Giustina

Spesso si sente dire che l'impianto di S. Giustina è tecnologicamente all'avanguardia, il più grande d'Europa, sono stati spesi 30 milioni di euro per potenziarlo. Ma tutte queste energie investite quale risultato producono? Che al termine del ciclo di trattamento, tutto l'oro blu viene riversato alla foce del Marecchia e disperso in mare. Non è assurdo, tanto più in tempi di siccità? Quattordici associazioni riminesi hanno sviluppato un progetto virtuoso per il riutilizzo di questa importantissima risorsa e ne hanno parlato in un incontro pubblico.

La persistente siccità e le alluvioni dei giorni scorsi in Romagna chiedono, non solo agli addetti ai lavori ma a tutti noi, una riflessione e un cambiamento di stili di vita che vanno ben al di là dei “facili consigli”, quali quello del chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti con lo spazzolino.
Sull’intero ciclo dell’acqua, sul suo uso e riuso, un raggruppamento di sigle ambientaliste ha organizzato nella sala dell’Apt un convegno per presentare il progetto che, come vedremo, ribalterebbe una consolidata visione di passività e ineluttabilità, verso una delle più preziose risorse del creato: l’acqua, risorsa per nulla inesauribile.
Un progetto questo che vuole impedire di buttare a mare, in senso non solo figurato ma letterale, all’incirca una trentina di milioni di metri cubi all’anno.

L’incontro pubblico. Si è tenuto al Palazzo del Turismo il 4 maggio.

Si tratta della quantità di acqua depurata dall’impianto di Santa Giustina e che, anziché disperdersi in mare, potrebbe essere utilizzata per usi industriali e agricoli. Nonché contribuire a rimpinguare la falda della conoide del Marecchia, che da qualche tempo ha smesso di ricaricarsi a dovere. Fra l’altro l’acqua dolce che finisce in mare non solo viene sprecata ma, pesando meno di quella salata, si stabilisce in superficie creando una barriera e riducendo così l’ossigeno. Scusate l’aridità dei numeri ma qui serve qualche dato: l’impianto di depurazione di Santa Giustina lavora ogni anno qualcosa come 30 milioni di metri cubi di acqua, per una popolazione corrispondente di 550mila abitanti (ovviamente si tiene conto del flusso “a fisarmonica” dei residenti per una città turistica come la nostra). L’invaso di Ridracoli a pieno regime contiene circa 30 milioni di metri cubi di acqua mentre, secondo studi scientifici, la conoide del sottosuolo del nostro Marecchia ne conterebbe 100 milioni di metri cubi. L’agricoltura della Bassa Romagna (nel periodo da gennaio a giugno 2021) ha assorbito circa 30 milioni di metri cubi di acqua attinti al canale emiliano romagnolo, che a sua volta porta l’acqua dal Po. Al netto del rimpallo e delle diatribe sulla responsabilità degli enti preposti alla gestione e cioè la Regione Emilia Romagna, Atersir (l’agenzia territoriale regionale per i servizi idrico e rifiuti), Romagna Acque, Hera e Consorzi di bonifica, si comprende molto bene il motivo per cui quattordici associazioni ambientaliste (tra queste Acli, “Dna” Difesa natura e ambiente, Cetacea, Italia Nostra, Wwf, Legambiente, Umana Dimora), abbiano voluto fare questa proposta che si rivolge in primis ai grandi gestori delle acque e agli enti pubblici interessati ma anche alla società civile e a tutti noi cittadini.

Dal depuratore … al Marecchia. Ma che spreco!

In cosa consiste questo progetto, lo ha spiegato nel suo intervento Ivan Innocenti, promotore del comitato che si chiamava “Basta merda in mare”, con un’espressione forse un po’ greve e linguisticamente non proprio fine, ma che rende bene l’idea. Il quale, già vent’anni fa ha sollevato il muro di silenzio su quel vero e proprio tabù che era il tema degli scarichi in mare. Innocenti ha aspramente criticato tutti i soggetti istituzionali interessati per avere escluso dai tavoli delle decisioni le associazioni ambientaliste. In primo luogo, ha detto Innocenti, «Romagna Acque ha sottratto un grosso capitale, restituendoci in cambio ben poca cosa. La realtà riminese è stata certo all’avanguardia per la depurazione, ma bisogna fare di più e vorremmo che lo fosse anche per il riuso». Il ciclo virtuoso cioè non si è mai chiuso in realtà, con il riuso delle acque depurate.
La proposta è quella di non continuare a immettere in mare quest’acqua trattata, come avviene ora, sostanzialmente riversandola nel fiume quasi alla foce (lo scarico è poco a monte dello stadio del baseball) e quindi sprecata. Questo costa in bolletta ai cittadini riminesi, qualcosa come 24 milioni di euro all’anno. Da qui il suggerimento di trasferire a monte questa emissione di una quindicina di chilometri, praticamente alla traversa di Ponte Verucchio. Così facendo il flusso di quest’acqua trattata e controllata, con parametri che peraltro in Italia sono ben più rigorosi della normativa europea, andrebbe a rimpinguare le falde del Marecchia limitando l’emungimento dai pozzi da un lato e dall’altro contrastando l’ingressione dell’acqua marina e il fenomeno della subsidenza. A questo proposito, esiste un censimento ufficiale dei pozzi che ne conta 4 mila. Ma si tratta di un numero molto sottostimato rispetto alla realtà dei fatti. Al convegno era presente anche il vicepresidente di Cia Romagna Lorenzo Falcioni, il quale ha fugato ogni dubbio e accusa sulla propria categoria, dicendosi entusiasta di questo progetto: «Non abbiamo nessuna intenzione di sfruttare e spremere i nostri terreni compromettendo la fonte del nostro reddito».

Certo, il progetto ha un costo iniziale di realizzazione (da Santa Giustina a Ponte Verucchio c’è un dislivello di 43 metri) e poi annuale di gestione. Sarebbe tuttavia molto inferiore ai 24 milioni di euro l’anno che si spendono ora per buttare in mare l’acqua trattata. Rispondendo indirettamente all’ingegnere di Hera che aveva sottolineato la mancanza di risorse economiche, Innocenti ha ipotizzato un costo energetico annuo di gestione intorno ai 200-300mila euro.
Una proposta questa che forse l’assessore all’ambiente Anna Montini, presente all’incontro, non sembra aver valutato nella sua completa valenza, visto che ha detto poco o niente nel merito ma soprattutto s’è lamentata del fatto che non si sia posto in evidenza il grande lavoro dell’impianto di Santa Giustina e non sia stato sottolineato a sufficienza il cosiddetto “Psbo”, il piano da oltre 150 milioni spesi per la balneabilità dell’Adriatico, che sta eliminando undici scarichi a mare. A discolpa dell’assessore, se così vogliamo dire, va dato atto che era una delle pochissime figure politiche presenti. C’era però il consigliere comunale della Lega Andrea Pari.

È un getto continuo. Da qui l’acqua depurata viene immessa nel Marecchia e poi finisce rapidamente in mare.

È stato poi Marco Gennari della fondazione Cetacea a dire come il riuso delle acque non debba essere solo legato alla siccità, alle alluvioni sempre più frequenti e alle mutate situazioni climatiche, ma al fatto che ce lo impone la legislazione europea. «Alcune autorità – ha detto Gennari – continuano a chiedere sempre più nuovi grandi invasi, che però oggi sono più dannosi che utili. In Italia i dati del riuso sono sconcertanti. Sui 9 miliardi di metri cubi di acqua depurata se ne riutilizzano solo 475 milioni di metri cubi. Il che significa che dei 18mila impianti di depurazione operanti in Italia, solo 79 sono in grado di riusare l’acqua depurata garantendone le caratteristiche necessarie per l’utilizzo in agricoltura».
Piuttosto interessante e documentato, anche se intervenuto in video da remoto, l’apporto di Riccardo Santolini, docente di ecologia all’università di Urbino, che ha illustrato con cognizione di causa quanto il fiume Marecchia sia un bacino molto importante per tutta l’area regionale romagnola. A proposito di esperienze a questo riguardo già in atto nella nostra regione è stato portato l’esempio di Iren (il dirimpettaio di Hera nella Regione) di Reggio Emilia, un gestore di servizi che opera nell’Emilia da Reggio fino a Piacenza, Liguria e buona parte del Piemonte. Iren fra l’altro gestisce l’impianto di depurazione di Mancasale che lavora acque per un equivalente di circa 450mila abitanti, circa 22 milioni di metri cubi di acqua che alimenta una fittissima rete di canali irrigui per gli agricoltori della zona.
È stato Giancarlo Tocci (L’Umana Dimora) che ha spiegato lo scopo del convegno e il significato divulgativo del progetto con un esempio puntuale ma che purtroppo crediamo venga compreso solo dalla cerchia, pur vasta, degli anziani. Dice Tocci: «Noi abbiamo in mano le carte che ci permetterebbero di fare scopa e non le giochiamo. Esiste una specificità del nostro territorio forse poco conosciuta anche da coloro che lo abitano. Con questo convegno abbiamo voluto affrontare il tema dell’approvvigionamento facendo anche conoscere esempi virtuosi del riuso delle acque reflue depurate, già in atto anche nella nostra regione. La politica del riuso era già stata prevista al momento della realizzazione dell’impianto di Santa Giustina, ma finora si è trattato di una politica largamente disattesa e rimasta solo sulla carta. Attuarla oggi è una necessità dettata dalla scarsità della risorsa ma è un investimento per il futuro perché permette di chiudere il cerchio. Il nostro è un progetto che va nella direzione della circolarità e della sostenibilità ambientale. Non si tratta in primo luogo di trovare soluzioni tecniche: l’acqua infatti non è di proprietà dell’ente istituzionale che, a seconda dei momenti, ne gestisce la fruizione ma è un bene di tutti noi cittadini, una dote che abbiamo ricevuto e che non possiamo permetterci di dilapidare; valorizzando e conservando questo grande dono del creato».

Tutte le sigle coinvolte nel progetto «Ciclo dell’acqua: uso e riuso».

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